La Moskova 1812

(di Paolo Palumbo)
23/04/22

Tra tutte le battaglie combattute da Napoleone, quella di Borodino, o altrimenti chiamata dalla storiografia francese de La Moskova, è stata certamente la più sanguinosa e feroce. Essa ha rappresentato il culmine della campagna napoleonica in Russia del 1812 e forse anche il massimo punto di logoramento raggiunto dall’esercito francese.

La vittoria di Napoleone – perché di vittoria si trattò – spalancò ai francesi la strada verso Mosca laddove, però, avrebbero conosciuto la spietatezza dell’inverno russo e la miseria della fame. Fu l’inizio di una ripida discesa verso gli inferi, di una sconfitta senza ritorno, dove i soldati perirono di stenti, assiderati oppure trafitti dalla lancia di qualche cosacco. Napoleone iniziò così il suo declino che lo avrebbe portato alla fatidica battaglia di Lipsia del 1813.

A Borodino si fronteggiarono due eserciti le cui radici erano profondamente diverse: i soldati appartenevano a culture dissimili fra di esse. I russi avevano un esercito numeroso, ma obsoleto e farraginoso, soprattutto nella catena di comando; Napoleone disponeva invece della Grande Armée, una formazione militare di prim’ordine, ma eterogenea.

L’imperatore, prima di invadere la Russia, volle coinvolgere più alleati possibili, sebbene sapesse che tra di loro vi era chi non desiderava altro che vederlo distrutto: l’Austria e la Prussia, ad esempio, aderirono alla causa di Napoleone solo perché obbligati dalle sconfitte umilianti patite negli anni precedenti. Inoltre, l’esercito francese ne veniva da mesi in cui non aveva fatto altro che marciare: affamati, stanchi e dimezzati nel loro effettivo, molti reggimenti erano spossati e non vedevano l’ora di confrontarsi con i russi in una classica battaglia in campo aperto.

Tra i molti soldati che componevano l’armata d’invasione francese, vi era anche il corpo d’armata comandato dal principe Eugenio di Beauharnais, viceré del Regno d’Italia, il quale aveva messo a disposizione del patrigno un contingente di fanteria italica. Cesare De Laugier, forse il più noto memorialista della campagna di Russia, era insieme alla Guardia Reale, corpo di élite e guardia personale di Eugenio: "Sull’alba del 28 febbraio 1812, 60.000 soldati italiani, seguiti da copiosa artiglieria e carreggio, parton per la Germania, ignari del motivo. Gioventù, spensieratezza, allegria, ottime ospitalità d’ogni genere, sbandiscono in essi qualunque idea dell’avvenire. Avvezzi ai trionfi, ritengon essi per fermo Napoleone condurli a nuove glorie. Il 24 giugno 1812, giunti alla sponda sinistra del Niemen, vi trovarono altri 500.000 soldati di più e diverse nazioni. Splendido è il sole. Arringa Napoleonica li rende consapevoli delle ragioni che li mossero ad invadere l’impero Russo"1.

La marcia verso Mosca

Quando nel giugno 1812 l’armata di Napoleone attraversò il Niemen per invadere il territorio russo, tutti credevano che l’esercito dello zar si fosse schierato a ridosso dei confini, pronto a difenderli, ma così non fu. Napoleone e il suo esercito, composto da soldati di oltre 20 nazioni, cominciarono un’estenuate marcia alla ricerca dei generali russi i quali preferivano arretrare, adottando la celebre tattica della terra bruciata.

Come sempre, Napoleone, cercò di attirare il nemico in trappola, costringendolo a combattere una battaglia decisiva sul terreno da lui prescelto; i russi, però, a costo della loro stessa reputazione, schivarono i francesi obbligandoli a lunghe marce verso il nulla.

Il generale russo Mikhail Bogdanovich Barclay de Tolly, autore della ritirata fino quasi alle porte di Mosca, fu rimpiazzato dal generale Mikhail Kutuzov (ritratto) il quale – secondo lo zar – avrebbe dovuto ridare al popolo russo la fiducia e la speranza di sconfiggere l’invasore.

Il nuovo comandante era un personaggio dal carattere difficile, giudicato spesso mediocre come stratega e immorale dal punto di vista umano. Eppure – secondo le memorie del generale francese Langeron – Kutuzov era una vecchia volpe, capace di interpretare il campo di battaglia e capire quali fossero le scelte migliori per vincere un condottiero come Napoleone.

A settembre, la situazione dell’armata francese era critica, ma non ancora disperata; come già detto la lunga marcia verso il cuore della Russia aveva assottigliato parte della Grande Armata, partita dalla Germania con circa 500.000 uomini; ciò nondimeno Napoleone era ancora in sella al suo cavallo, fiducioso che – con quel che restava – avrebbe potuto ancora decidere le sorti della guerra.

In effetti l’ottimismo dell’imperatore trovò diverse conferme. Qualche tempo prima di Borodino, Napoleone ottenne la tanto agognata battaglia davanti la bella Smolensk; la notte tra il 13 e 14 agosto 1812 il generale del genio Eblé gettò i suoi ponti di barche sul fiume Dniepr facendo passare circa 175.000 uomini. La cavalleria di Emmanuel de Grouchy, Nansouty e Montbrun fornì lo schermo protettivo per quella che tutti ricordano come una mossa capolavoro di Napoleone, la “manovra di Smolensk”.

Il generale Barclay de Tolly insieme a Peter Ivanovic Bagration contesero ogni metro di terreno e, causa una concatenazione di eventi infausti, l’imperatore non riuscì a compiere il guizzo finale che avrebbe sconfitto i russi.

Tutto fu rimandato di qualche mese, mentre Smolensk (immagine) – ridotta un cumulo di cenere dai russi in fuga – sarebbe diventata la città prescelta da Napoleone per trascorrere l’inverno.

La tentazione e la bramosia di gloria vinsero però sulla ragione: da Smolensk, infatti, si apriva la via che avrebbe portato Napoleone o verso San Pietroburgo o fino a Mosca. La prima città rappresentava il cuore amministrativo della Russia, il centro nevralgico da cui partivano tutte le decisioni, mentre Mosca – ricordò il conte de Ségur – significava la nobiltà, il fascino del potere e dell’antico onore delle famiglie russe. Ovviamente un condottiero avido di gloria come Napoleone cedette alla falsa visione del suo stesso miraggio di grandezza: mandò al diavolo l’idea di fermarsi a Smolensk puntando diretto verso Mosca.

Tra le due città vi erano da percorrere 450 km, una distanza abissale che avrebbe richiesto diversi mesi di marcia. Se tutto fosse filato liscio, Napoleone poteva arrivare a Mosca in autunno (ancora un tempo ragionevole), ma se qualcosa fosse andato storto l’esercito francese si sarebbe ritrovato ad affrontare il rigido inverno russo in campo aperto. Napoleone era convinto che la sua decisione fosse giusta: gli anni appena passati avevano dimostrato che una volta conquistata la capitale, tutto il resto del paese sarebbe caduto senza resistere. Alessandro I non poteva permettersi di cedere il suo gioiello più prezioso, il centro religioso del paese, i saloni dorati del Cremlino; persa la città sarebbe sceso a patti.

Il 24 agosto 1812, la Grand Armée lasciò i quartieri di Smolensk per dirigersi verso Mosca: Napoleone dispose la marcia di avvicinamento su tre colonne parallele, a breve distanza fra di esse, in modo da congiungersi non appena i russi si fossero palesati all’orizzonte. Il centro era occupato dalla cavalleria di Gioacchino Murat seguita dal I e III corpo d’armata, sulla sinistra vi erano gli italiani del viceré Eugenio de Beauharnais e sulla destra i polacchi del principe Joseph Poniatowski.

La battaglia

L’uscita da Smolensk avrebbe dovuto significare una battaglia certa. L’onore dell’esercito russo – secondo Napoleone – era oramai compromesso dopo un mese di ritirate. Alessandro I, dal canto suo, non poteva andare avanti ancora molto rifiutando battaglia poiché il suo prestigio ne avrebbe risentito di fronte al popolo.

Davanti l’avanguardia francese si aprì un vasto territorio, fatto di ruscelli, avvallamenti e collinette punteggiate da qualche boschetto, ideale per piazzarvi la fanteria leggera. Di tanto in tanto delle abitazioni riunite in piccoli villaggi tra cui i più importanti erano Fomika, Schivardino e Semionovaskaija. Un terreno simile rappresentava un terreno di scontro ideale e proprio lì i russi iniziarono a fortificarsi: a Schivardino fu costruita una grande ridotta mentre più a oriente si erse la celeberrima “grande ridotta” o “Ridotta Raeveskij”. I gironi che precedettero lo scontro furono funestati da piogge interminabili che insinuarono in Napoleone la possibilità di rientrare a Smolensk e attendere un meteo favorevole. Tuttavia, il 31 agosto, il sole splendeva nel cielo e tutto sembrava pronto per un grande evento bellico.

I generali russi, Kutuzov in testa, erano decisi a trascinare Napoleone in una battaglia di logoramento: la conformazione del terreno, le ridotte e la resistenza dei corpi russi avrebbero infranto, uno dopo l’altro, gli assalti della fanteria di linea francese. I russi si presentarono con un esercito forte nel morale, ma scarso negli effettivi: una parte della fanteria era di fatto formata da semplici miliziani male armati.

Kutuzov piazzò in prima linea cinque corpi di fanteria: "Il 2° di Baggohufvudt e il 4° di Ostermann-Tolstoj erano posizionati a nord di Gorki, come pure un corpo di cavalleria regolare e i cosacchi di Platov. Il 6° corpo di Dohturov si trovava di fronte a Borodino, tra il villaggio di Gorki e il ridotto di Raeveskij. L’intera linea a sud del ridotto e anche le frecce erano protette da due corpi della II armata di Bagration"2.

Sulla linea di fuoco si ritrovarono così due eserciti – 130.000 uomini i francesi contro circa 125.000 russi – che non vedevano l’ora di menar le mani. L’icona della “Madre di Dio” di Smolensk fu portata sul campo per ordine di Kutuzov il quale, per rinfrancare ulteriormente il morale dei suoi uomini, organizzò una processione in piena regola. La religione era forse l’arma migliore in mano all’esercito di Alessandro I poiché essa – come per altro già stava accadendo in Spagna – si era dimostrata un formidabile collante per tenere uniti gli uomini.

Il 7 settembre, poco dopo l’alba, fu sparata la prima salva di cannone, seguita da un fragoroso botta e risposta tra le due artiglierie. L’evolversi della battaglia fu lento e progressivo, un crescendo di morte e cumuli di uomini che frantumarono anima e corpo sulle difese dei russi.

Napoleone aveva un piano, tuttavia, rispetto il passato, elaborò una strategia abbastanza grossolana basata sulla consistenza di attacchi frontali e manovre diversive sui fianchi. Agli italiani di Eugenio sarebbe spettato il duro compito di attaccare Borodino e poi concentrarsi sulla temibile “grande ridotta”. Le fasi iniziali della battaglia furono a completo favore dei francesi: il villaggio di Borodino fu travolto e i cacciatori della Guardia russa furono cacciati all’indietro; Kutuzov, allora, tentò di porre rimedio mandando in avanti la sua riserva. Eugenio, che nel frattempo si era spinto troppo in avanti con i suoi italiani, fu travolto e ricacciato sulle posizioni di partenza, mentre il maresciallo Davout fu costretto ad abbandonare le famose “Frecce di Bagration” in mano ai russi.

La trappola dei russi parava funzionare poiché Napoleone iniziò a mandare all’attacco reggimenti su reggimenti, senza seguire un particolare disegno strategico. La vita degli uomini si consumava sui bordi terrosi delle ridotte russe: diversi ufficiali furono feriti gravemente3.

Uno dei segni premonitori della gravità in cui si trovò Napoleone fu l’impiego della Guardia Imperiale; ad un certo punto, dopo che le ridotte russe inghiottirono centinaia di fanti francesi, l’imperatore si vide costretto a mandare in battaglia alcune unità della Giovane Guardia, senza però mobilitare la preziosa Vecchia Guardia.

Il I, III e VIII corpo furono destinati a morte certa per conquistare le postazioni di Semionovskaija, unitamente a due corpi di cavalleria e l’appoggio di 250 cannoni.

Fu una terribile carneficina e lo stesso Caulaincourt ammise che la grande ridotta stava letteralmente facendo a pezzi i francesi. Basti pensare che nel corso di quei terribili assalti il maresciallo Ney, il “coraggioso dei coraggiosi” fu ferito per 4 volte; in tutta la giornata il generale Rapp, aiutante di campo dell’imperatore, ricevette 22 ferite.

Stremati dalla fatica e con la morte in volto, i marescialli Davout, Ney e il re Murat chiesero a Napoleone di impegnare la Vecchia Guardia, ma egli rispose con un secco no: a quale punto, sarebbe stata una imprudenza gettare nel tritacarne di Borodino, l’unica risorsa ancora in grado di combattere anche nei giorni successivi.

Poche ore dopo, Napoleone organizzò l’attacco in massa verso il baluardo mortale della “grande ridotta”.

Il generale Macellin Marbot, nelle sue memorie, ricorda così la morte del generale Montbrun: "[…]. Il generale Montrbun propose di penetrare nella ridotta passando da dietro con la sua cavalleria, mentre la fanteria l’avrebbe attaccata frontalmente. Fu un consiglio coraggioso, approvato da Murat e dall’imperatore. Montbrun fu incaricato di eseguirla, ma mentre questo intrepido generale si stava organizzando per agire, fu ucciso da un colpo di cannone; fu una grande perdita per l’armata! La sua morte non ci fece comunque rinunciare al piano che aveva preparato, e l’imperatore inviò il generale Caulaincourt, fratello del Gran Scudiero per rimpiazzare Montbrun. Si vide allora una cosa mai vista nei fasti della guerra: un immenso forte difeso da numerosa artiglieria e diversi battaglioni, attaccato e preso da una colonna di cavalleria! In effetti Caulaincourt si lanciò alla testa di una divisione di corazzieri in testa alla quale marciava il 5° reggimento, comandato dall’intrepido colonnello Christophe, egli fece cadere tutto ciò che impediva l’ingresso alla ridotta, arrivò alla porta, entrò dentro e cadde morto, ucciso da una palla alla testa!"4.

Nel mentre gli italiani di Eugenio conquistarono finalmente la posizione russa, ma ad un prezzo altissimo. "Una lunga e sanguinosa lotta si era innescata sulle alture, - ricordò Faber du Faur – davanti le rovine di Séménowskoi per il possesso delle ridotte; dopo diversi successi, esse furono prese, perse e riprese. Infine, verso mezzogiorno, esse rimasero in potere del vincitore. La ridotta situata a destra fu catturata al nemico dal resto della 25a divisione (Wurtemburghese). Nel frattempo i combattimenti continuavano ancora nelle ridotte. I russi mandavano continuamente nuove truppe dalle alture di Séménowskoi e respingevano le cariche di Murat. Fu in una di queste ritirate che Murat, inseguito da dei corazzieri nemici, si rifugiò per non essere fatto prigioniero, nella ridotta presa e occupata dalla 25a divisione […]. Un fuoco vivace, diretto dalla ridotta dalla nostra fanteria leggera e il fuoco della nostra fanteria di linea che l’appoggiava, respinse ben presto i corazzieri, liberando il re. Murat, nel suo infaticabile ardore si lanciò, alla testa della cavalleria di Bruyere e di Nansouty, sulla cavalleria nemica la quale fu respinta, dopo reiterate cariche, sulle alture di Séménowskoi"5.

Sino a quel momento Kutuzov aveva recitato un ruolo di secondo piano, confermando l’opinione che molti avevano sulle sue reali capacità di comando, tuttavia al momento giusto seppe reagire alla sua proverbiale indolenza. Egli, come detto in precedenza, sapeva leggere il campo di battaglia: percependo l’affievolirsi della pressione francese, buttò nella mischia il corpo del generale Doctorov insieme al V corpo agli ordini del Granduca Costantino. Davout, che intuì le intenzioni del nemico, chiese l’intervento della Guardia, ma ancora una volta l’imperatore negò il consenso, concedendo soltanto l’impiego di 80 cannoni della sua riserva. Quel provvidenziale bombardamento respinse la controffensiva russa durante la quale il generale Lev Tolstoj subì una brutta ferita.

In dodici ore di combattimenti all’ultimo sangue, i francesi avevano conquistato appena un chilometro e mezzo di terreno; all’alba dell’8 settembre il generale Kutuzov ritenne opportuno salvare ciò che rimaneva del suo esercito. In teoria Napoleone aveva vinto, ma era stata una vittoria sterile, che non decise un bel niente.

L’unica notizia positiva era l’apertura della strada verso Mosca, ma di li in avanti si sarebbero consumate nuove tragedie che avrebbero condotto all’ecatombe della Grande Armata.

I russi percorsero a ritroso la via verso Mosca, tuttavia non fu un ripiegamento brillante poiché mancò totalmente l’appoggio tattico della cavalleria di Platov confermando che i cosacchi erano capaci solo se si trovavano di fronte truppe sbandate o male organizzate. Per Kutuzov, lo spazio per poter arretrare l’armata si era drammaticamente ridotto ed ora, di fronte al dilemma se difendere Mosca o abbandonarla a Napoleone, si sarebbero decise le sorti della guerra. Effettivamente il comandante russo aveva poche alternative: dopo la sconfitta di Borodino arrischiare una difesa ad oltranza di Mosca significava perdere sia l’esercito, sia la capitale. Quindi la scelta più dolorosa era forse anche la più appropriata: Napoleone avrebbe violato le porte dorate del Cremlino.

I russi considerarono La Moskova come una grande vittoria, lo stesso Kutuzov, al termine della giornata, si premurò di scrivere all’imperatore Alessandro riferendogli di una grande vittoria: il generale fu nominato salvatore della patria e prese i gradi di feldmaresciallo. In effetti i russi avevano vinto sul piano strategico; essi, infatti, obbligarono Napoleone a combattere una battaglia secondo i loro schemi, condannandolo ad una lunga giornata in cui logorò parte della sua armata.

1 C. De Laugier, Concisi ricordi di un soldato napoleonico, Torino, Einaudi, 1942, p. 66.

2 D. Lieven, La tragedia di Napoleone in Russia. 1807-1814: la fine del sogno imperiale, Milano, Mondadori, 2010, p. 205.

3 Tra i feriti vi fu anche il maresciallo Davout e a fine giornata si contarono 14 generali di corpo d’armata, 33 generali di divisione tra morti e feriti. Nella lista comparivano anche 12 ufficiali di stato maggiore, 86 aiutanti di campo e 37 colonnelli comandanti di reggimento. In totale il trenta per cento dei partecipanti alla battaglia era stato colpito. D. Chandler, Le campagne di Napoleone, Milano, Rizzoli, 1992, vol. 2, p. 968.

4 M. Marbot, Mémoires, Paris, Plon, 1892, Vol. IIII, pp. 136-137.

5 G. De Faber du Faur, Campagne de Russie 1812 d’aprés le journal d’un témoin oculaire, Paris, Flammarion, s.d., pp. 157-158.