1918: Il "fronte occidentale" italiano

(di Andrea Forte)
10/11/21

Quando a marzo del 1918 il tenente generale Alberico Albricci riceve l’ordine di partire per la Francia, ovvero per il fronte occidentale, tutte le potenze coinvolte nel conflitto sono consapevoli che immensi spostamenti di truppe, da una parte e dall’altra del fronte, cercheranno di chiudere la partita.

Il principale fattore di potenza in gioco è il tempo. I tedeschi hanno vinto sul fronte orientale, da marzo il rullo compressore russo è imploso e sconfitto, la guerra su due fronti, l’incubo tedesco dello stritolamento della Germania svanisce, ma con esso non svanisce quello ancora peggiore, la sconfitta finale. Le sterminate masse russe sono infatti in via di sostituzione da parte di quelle americane, impreparate, ma fresche, e soprattutto in via di dispiegamento sempre più numeroso sul fronte più difficile, quello occidentale appunto. Per i tedeschi dunque si chiude un fronte, ma raddoppia il peso dell’altro.

La Germania deve correre, la maggior parte del dispositivo militare tedesco dispiegato a est si dirige a ovest per travolgere gli alleati, prima che gli americani possano fare la differenza. Dunque da una parte gli alleati vorrebbero più tempo per avere più americani possibile al fronte e il più addestrati possibile. Devono resistere, guadagnare mesi. Dall’altra i tedeschi non possono concederglielo. Devono vincere, e l’unico modo è farlo rapidamente.

Lo scontro si preannuncia titanico. Gli alleati non possono che fare appello ad ogni fibra militare che il loro sistema possiede, compresa quella italiana.

Sia il presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando che il capo di stato maggiore Armando Diaz sono convinti che dare un aiuto agli alleati sia necessario sia per ricambiare quello datoci per consolidare la linea del Piave dopo il disastro militare di Caporetto sia per motivi di prestigio, legati all’idea che sarebbe stata la prima volta che gli italiani in quanto nazione (non quindi i volontari passati e presenti) avrebbero soccorso oltre le Alpi un alleato. Come avrà a dire Albricci alle sue truppe “…a bandiere spiegate, da pari a pari…”

Poi c’è ovviamente il retro-pensiero che le estreme difficoltà degli alleati su quel fronte possano ridimensionare la percezione dell’entità della disfatta italiana di Caporetto e al tempo stesso mostrare che il nostro soldato non era quello del ritratto fattone da Cadorna nel suo bollettino, ma avrebbe provato ai franco-inglesi e contro i tedeschi di essere degno di una grande potenza.

Il punto però diventa quanto aiuto dare agli alleati. Caporetto, nonostante ogni attenuate, c’è comunque stata e l’esercito italiano, dissanguato, sta consolidando una precaria linea difensiva sul Piave. Ogni uomo sarebbe indispensabile, ma prevale l’esigenza politico-militare di esserci laddove l’urto tedesco si annuncia decisivo.

Sarà la madre delle offensive tedesche, disperata e struggente com’è l’animo germanico. È denominata Kaiserschlacht (battaglia per l’imperatore). Il 21 marzo il generale Ludendorff lancia le truppe tedesche in Piccardia contro il punto di saldatura fra inglesi della quinta armata e i francesi. Soprattutto però contro gli inglesi, ancora in possesso di capacità offensive notevoli, a differenza dei francesi. Avanzano di 45 km, le perdite alleate assommano a circa 300 mila uomini. La 5° armata inglese è annientata. Una vittoria enorme, ma che rimane tattica. I tedeschi non sfondano veramente, anzi gli alleati si coordinano con un nuovo comando unico affidato al generale Foch, che sollecita l’arrivo dei soldati italiani. Questi partono il 18 aprile.

Albricci ha a disposizione il II corpo d’armata, il “Glorioso corpo del Kuch e del Vodice”, formato dalla terza divisione (brigate Napoli e Salerno) e dall’ottava divisione (brigate Brescia, e soprattutto Alpi). Tra 25 mila e 40 mila uomini.

La brigata Alpi è la più “retorica”, nel senso che serve non solo a combattere ma a ricordare: la brigata è l’erede dei risorgimentali Cacciatori delle Alpi di Garibaldi del 1859, quel Garibaldi che va a combattere per la Francia contro i prussiani nella guerra del 1870. Serve a ricordare ai francesi anche i legionari garibaldini di Peppino Garibaldi che nel 1914, prima della nostra entrata in guerra, già combattono a fianco dei francesi (il reparto è denominato 4ᵉ régiment de marche du 1er étranger).

Le truppe del II Corpo non sono dunque i primi italiani del Regno d’Italia in Francia, ma i primi combattenti nel nome dell’Italia. Oltre alla legione in Francia erano già attive le italiane TAIF, truppe ausiliari italiane in Francia, circa 80 mila uomini inabili alla guerra e predisposti a quei servizi produttivi, logistici e tecnici necessari per liberare uomini francesi da inviare al fronte. Un terzo di questo contingente in realtà è abile (o dichiarato tale) alla guerra e sarà una riserva del secondo corpo in arrivo. Altri 14 mila lavorano nella Francia interna, nelle fabbriche. Sono anziani e davvero inabili allo scontro.

Dunque fino all’arrivo del II Corpo abbiamo già un ruolo, ma con l’intervento ufficiale assumiamo un profilo. Servirà dare sostanza a questo profilo, ovvero sangue e vittoria, perché nonostante l’esaltazione della stampa francese per i garibaldini che tornano, l’approccio culturale francese ci è abbastanza ostile. Lo stesso presidente del consiglio francese Clemencau ritiene gli italiani un popolo di manodopera, che poco contribuisce allo sforzo complessivo della guerra alleata – il nostro sforzo “minore” ci costringe a inviare al fronte addirittura la classe 1900, cosa che i francesi, pur nelle ore più drammatiche non sono mai costretti a fare, potendo contare sulle intere forze armate inglesi a supporto sul territorio e in futuro anche su quelle americane.

Ma Clemencau non è l’unico, per i francesi inizialmente rimaniamo dei maccheroni caporettisti, dei codardi. Le stesse condizioni materiali della permanenza sono difficili, i nostri soldati passano dalla censura italiana sulla posta a quella francese; inoltre lo stipendio italiano è penalizzato nel cambio con la valuta francese, perdendo il 40 per cento del potere d’acquisto.

Il II corpo è sistemato per l’addestramento nelle Ardenne. Qui infatti la guerra assume dimensioni sconosciute al fronte isontino e dolomitico. Qui i gas, l’aviazione, tutto è usato in qualità e quantità sconosciute ai nostri uomini. Devono essere formati prima di iniziare. Sono poi schierati nelle Argonne. Si inizia con operazioni minori in un settore abbastanza tranquillo. Ma Albricci offre di più, perché sono i tedeschi a “reclamare” di più.

Dopo il primo colpo, Ludendorff crede di poter finire di maciullare gli inglesi, si concentra su Ypres e a maggio attacca anche i francesi tra Reims e Soissons. I francesi rischiano di non reggere. Gli italiani intervengono. In particolare si gettano a difendere Épernay, di fronte al saliente più avanzato dei tedeschi, Chateau –Thierry.

Épernay serve a mantenere il possesso dello snodo stradale che lega la capitale francese a Reims. Semplicemente fondamentale.

Intervengono a contenere l’avanzata tedesca anche gli inglesi, e tutti insieme riescono a respingerla. Siamo a giugno e la vittoria difensiva è riecheggiata da quella italiana del Solstizio (2° del Piave) del 22-23 giugno, dove il valore delle armi italiane si riscatta e inorgoglisce i commilitoni in Francia.

I tedeschi però hanno ancora un respiro in corpo, attaccano un’ultima volta a Reims, il 15 luglio comincia la seconda battaglia della Marna e gli italiani difendono la vallata medesima. Sono costretti ad un sacrificio pesantissimo per fermarli. Un terzo del corpo d’armata è perduto. Il 18 luglio tuttavia la Germania ormai sa che non si passa.

Soprattutto la Germania ha consumato il tempo, gli americani sono pronti, gli alleati contrattaccano a settembre. Ad ottobre gli italiani partecipano alla conquista dello Chemin des Dames, i tedeschi si ritirano, ma questo risultato costa ai primi altri 2 mila uomini. È l’1 ottobre, a fine mese e inizio novembre in Francia si viene a sapere del collasso austroungarico a Vittorio Veneto. L’armistizio del 4 novembre a villa Giusti apre alle truppe italiane l’eventualità di attraversare l’Austria per attaccare verso Monaco, la Germania è costretta a spostare in zona le truppe bavaresi di montagna, tra le migliori germaniche, contribuendo anche così, gli italiani, alla definitiva vittoria sul fronte occidentale. Il 10 novembre le truppe italiane e quelle francesi issano le loro bandiere sulla riva sinistra della Mosa, dopo una vittoriosa offensiva. L’11 novembre viene firmato l’armistizio. L’intesa ha vinto la guerra.

Sul fronte occidentale gli italiani hanno contribuito nel 1918 con circa cinquemila caduti, che riposano nei cimiteri militari italiani di Bligny e Soupir. I feriti sono stati più di seimila. Il II Corpo partecipa alla parata della vittoria a Parigi (brigata Alpi!). La medesima è destinata ad occupare la Saar tedesca, per garantirne la smilitarizzazione fino all’esito della conferenza di Pace di Versailles. Rientra in Italia il 10 agosto 1919.

In fondo siamo andati in Francia come andammo in Crimea, per aumentare la classe della nostra potenza, all’epoca da piccolo stato a potenza regionale, nel 1918 da media potenza a grande potenza (si aggiunge da Caporetto la vitale salvezza dell’unità territoriale). In un’eterna nostra guerra per far parte dei grandi, senza avere le risorse dei grandi, tranne quella più strategica di tutte, la disponibilità al sacrifico di sangue, che esprime il fattore umano e la capacità militare. Le truppe italiane mostrano entrambi anche in Francia, contro gli stessi signori della guerra tedeschi.

Grande potenza non lo siamo diventati, ma nondimeno abbiamo guadagnato anche lì la nostra vittoria e la vittoria degli alleati.

Foto: web / ministero della Difesa