Xi, il principe marxista

(di Gino Lanzara)
13/10/22

La politica continua a volgersi a Oriente; l’aristocrazia rossa con 3.000 vassalli delegati del PCC è prossima a riunirsi a Pechino per dare vita alla kermesse del 20° congresso, ovvero la consacrazione annunciata al terzo mandato di vertice, con una seria ipoteca sine die, per Xi Jinping. Se la (probabile) riconferma consegnerà Xi alla storia cinese, rimarrà da capire, all’alba del 17 ottobre, quale Cina dovrà seguire l’ennesimo timoniere.

Sfatiamo miti irrealistici: la Cina non è una democrazia dunque senza elezioni il Congresso è l’unico strumento consentito per permettere il ricambio della dirigenza; il Congresso, reso difficile dalle misure contro un Covid recrudescente dopo le celebrazioni della festa nazionale, non sarà altro che la promenade dei risultati di mesi di attriti e contrattazioni volti a formalizzare decisioni già assunte prima ancora dell’apertura ufficiale dei lavori. Le varie anime del partito hanno trascorso l’ultimo anno impegnate a lottare per assicurare ai propri candidati la conquista del mandato. L’inizio del congresso è intrattenimento scenico attagliato alla presentazione di uno spettacolo che, saltando inutili atti, potrebbe risolversi da subito in una chiamata per la standing ovation finale ad una leadership già nominata. Il Congresso del centenario intende mostrare gli obiettivi di potere futuro e di coesione sociale simbolica. Come facevano una volta i cremlinologi, ad ogni congresso si osservano i volti dei presenti per depennare i pensionati, o per accendere le scommesse su assenze imprevedibili.

Contemporaneamente al Congresso si terrà il Consiglio Europeo che si occuperà di Asia monitorando le tendenze di una Cina a cui è stato mantenuto il profilo del rivale sistemico1. L’idea europea della convergenza, ovvero degli accordi economici più vincolanti grazie a cui si sarebbe potuti giungere a maggiori aperture politiche è ormai naufragata di fronte alle notizia dallo Xinjiang2.

Xi è in carica dal 2012, ma per lui il tempo dei cantieri ancora non è giunto, a meno che non si verifichi qualche improbabile coupe de théâtre; in deroga a norme e tradizioni dei celesti principi rossi, egli continuerà a rivestire le posizioni di segretario generale del Partito, fonte primaria del potere, capo della Commissione militare centrale del partito e presidente della Repubblica Popolare; lasciando intatta la struttura partitica potrebbe anche farsi riconoscere la carica apicale e non collegiale di presidente del Partito, abolita negli anni ’80 ed appannaggio esclusivo di Mao. Peraltro secondo i bene informati questo per Xi potrebbe non essere nemmeno l’ultimo mandato, tanto che le auspicate conquiste del 2035 già lo proietterebbero nel futuro, intramontabile rappresentante di una sacra dinastia laica.

Le modifiche dei vincoli costituzionali relativi al mandato presidenziale fanno il paio con la preservazione della carica di segretario generale in deroga al dettato di Deng Xiaoping che, memore della longevità di Mao, intendeva impedire altri leader al gerovital. Il potere è tornato ad essere centralizzato, le cariche di partito e di governo si sono sovrapposte, le limitazioni post maoiste infrante. Visto che gran parte dei quadri dirigenti dovrà lasciare l’incarico, è certo che la loro sostituzione dovrà ottenere il gradimento di Xi, su cui si indirizza un’attenzione tenuta desta dal fatto che nessuno è stato preparato per succedergli, e che gli oppositori sono scomparsi dalla scena grazie anche o ad un’attenta campagna di prevenzione e repressione della corruzione o perché non in possesso dei requisiti del nuovo codice di condotta. A scanso di equivoci, Xi ha lanciato un avvertimento ai quadri in pensione, ricordando loro che il governo avrebbe indagato sulla corruzione degli ultimi 20 anni, ed ammonendoli a non mettere in discussione le linee guida del partito.

La designazione di un successore a 5 o 10 anni appare remota; anche solo una fumosa designazione incrinerebbe il potere di Xi. Ma attenzione: la possibilità di rendere solida la sua base politica dipenderà sia da coesione e sostegno di Politburo e Comitato permanente, sia dalla capacità di condurre alla poltrona di premier uno dei suoi fedelissimi, dopo anni di contrapposizione con l’attuale primo ministro Li Keqiang.

Al momento Xi non ha la certezza che il premier sia un suo protetto, benché sia comunque difficile pensare che possa esistere un’opposizione non accettata dal Segretario, specialmente se quest’ultimo è un maestro nel gioco dell’espansione delle alleanze. Se Xi riuscirà ad imporre un politico come Li Qiang dimostrerà una forza tale da ammonire chiunque dal solo pensare di tentare colpi di testa; questo per mettere a tacere definitivamente ogni possibile e fantasiosa ipotesi di golpe.

Necessario poi vegliare anche sulle opposizioni interne al Partito. Xi rimane perché è un simbionte del potere, pur avendo commesso diversi errori, come mantenere la strategia zero-COVID troppo a lungo danneggiando la crescita economica e limitando l’iniziativa privata. Tra l’altro proprio la gestione pandemica ha sollevato più di un interrogativo, viste mole ed importanza delle informazioni occultate. Xi ha depotenziato i canali dedicati all’espressione del dissenso, soprattutto quello interno al Partito, anche perché quello animato da intellettuali ed imprenditori non ha attecchito, in più, nei confronti delle etnie minoritarie, dei gruppi religiosi e delle organizzazioni non governative, Xi ha perseguito la politica della terra bruciata, costringendo tutti a conformarsi al dominio Han.

Mentre le correnti di opposizione continueranno ad esercitare una minima influenza3, gli eletti del 20° congresso costituiranno l’indicatore dell’estensione del potere di Xi. Il trend diplomatico cinese ha intanto volto la sua azione al perseguimento delle politiche wolf warriors, accompagnate sia dal potenziamento militare nel Mar Cinese Meridionale, sia da una condotta più aggressiva verso Hong Kong e Taiwan contrastata dalle sortite americane; in Europa le difficoltà belliche russe giovano intanto alla proiezione di potenza di Pechino che, senza sparare un colpo, sta trovando un Cremlino sempre più dipendente: del resto secondo Clausewitz, non bisogna mai disturbare il nemico mentre sta sbagliando.

L'ultranazionalista Global Times, vicino al Partito, pur attribuendo alla NATO la colpa di aver costretto la Russia all’invasione, cerca di porre un freno ad un conflitto che può assumere connotazioni imprevedibili. Comunque la si veda, al di là di impossibili amicizie, la Russia rimane un attore utile a cui però non si possono sacrificare interessi nazionali.

In quest’ottica va inquadrata la visita di Xi in Asia centrale, volta a dimostrare sia il possesso del controllo interno malgrado l’economia in sofferenza, sia la preservazione della posizione di forza nei confronti del Cremlino, sia la capacità di salvaguardare i progetti della BRI, minacciata dall’instabilità indotta dall’invasione, e lasciando intatta la rivalità strategica tra i due Paesi. Interessante notare che, mentre i comunicati russi appoggiano la posizione cinese su Taiwan, quelli cinesi non menzionano l’Ucraina.

Da sottolineare la pervasiva presenza nell’Indo Pacifico, dove l’accordo con le Isole Salomone sta precludendo gli attracchi delle navi da guerra occidentali.

Nel frattempo c’è da segnalare la funambolica politica indiana che, agevolata dalle incertezze dell’Amministrazione Biden, prima rafforza l’asse dei BRICS riconsiderando il posizionamento delle truppe nella zona del Ladakh, e poi mantiene nella stessa scarpa il piede che assicura l’alleanza occidentale del Quad4 che mira a frenare proprio Pechino. Il fatto che le potenze demografiche sino-indiane giungano ad un accordo, conferma l’intendimento di giungere ad un ordine globale che sostituisca la guida americana. Xi dovrà dunque indicare come la Cina intende interpretare il suo contesto strategico alla luce dell’acuirsi della competizione con Washington. Come sempre accade sugli scudi verranno portati i presunti successi in politica estera sacrificando la concretezza economica all’impalpabilità ideologica.

Inevitabile da parte di USA, UE, Giappone e Corea del Sud, vedere la Cina come un’antagonista disgregatrice e non solo in veste economica, cosa che ha condotto a ricercare politiche atte allo sganciamento dalla dipendenza da Pechino, che continua a sopravvivere politicamente solo perché gran parte dei problemi che l’occidente valuta come insolubili per il Dragone sono irrilevanti. Il tema economico rimane centrale; secondo Goldman Sachs la Cina comincerà a rivedere la politica zero Covid solo nel trimestre aprile-giugno 2023, mentre The Diplomat punta il dito verso diverse crisi economiche5 sovrapposte, dal crack immobiliare Evergrande fino all’insolvenza bancaria.

Altro tema scottante sarà una volta di più Taiwan, elemento di sovranità ed integrità territoriali da riconquistare secondo le forme adottate dal Consenso del 1992. Secondo Xi la separazione da Taiwan non può più essere tramandata di generazione in generazione, benché momento e contesto storici consiglino di non calcare la mano.

Posto che Pechino non fa la carità a nessuno, rimane da discutere anche la Belt and Road Initiative che, secondo The Diplomat, potrebbe trovare sostituzione con la Global Development Initiative6. Il ritorno di ideologia e culto della personalità mettono in soffitta Deng Xiaoping; con Xi la Cina torna ad essere una potenza comunista: i 3 volumi de Il pensiero di Xi, tradotto anche in Italia7, sono divenuti materia di insegnamento scolastico obbligatorio, cosa che richiama alla memoria l’apice del potere maoista. Secondo queste linee trova un senso la lotta ingaggiata contro il capitale, di nuovo demonizzato dopo lo sdoganamento operato alla fine della Rivoluzione culturale. Di fronte alle lamentele della middle class l'attenzione politica si è volta alla soluzione dei problemi relativi alle spese per l'istruzione privata e per l'assistenza sanitaria. Argutamente Bloomberg ha ricordato la matrice marxista del regime. Chi pensava ad una liberalizzazione è fuori strada: grisaglia e cravatta non hanno impedito che le lancette girassero al contrario, senza togliere alcuna velleità di controllo totale, sia perché il potere è ancora nelle mani del Partito e sia perché gli imprenditori stessi hanno continuato a tenerne in tasca la tessera.

Il dissenso è proibito; ne sa qualcosa Jack Ma, fondatore dell’e commerce di Alibaba, colpevole di critiche ad un sistema bancario e creditizio qualificato come primitivo. È bastato rieducare Ma per indurre a più miti consigli alcuni bastonando altri8, malgrado producano una ricchezza che il Partito vuole condivisa perché contribuisca al welfare collettivo altrimenti in sofferenza. Insomma, il merito è unicamente del Partito, e consiste nel redistribuire capitale tramite fondi istituiti dagli stessi imprenditori che quel capitale lo hanno creato.

Ma cosa accadrebbe se l’imprenditorialità privata venisse fiaccata tanto da non poter più alimentare i fondi? Basti pensare al rallentamento del PIL indotto dalla politica dello Zero Covid, cui Xi intende rispondere con una combinazione di rimborsi fiscali, riduzioni delle tasse, investimenti in infrastrutture, bassi tassi di interesse. Una cosa sono i princìpi, un’altra il denaro che l’adagio popolare invoca quale elemento indispensabile per cantare messa. Se è vero che la Cina non rischia di tornare ad uno stato di povertà terzomondista post Mao, non c’è però dubbio che lo spazio di manovra del capitalismo privato sia stato ridimensionato, in un momento in cui il FMI ha declassato le previsioni di crescita cinesi al 2,8% contro il 5,5% auspicato e lo yuan ha perso il 12% rispetto al dollaro dall’inizio dell’anno9; la svalutazione con il dollaro porta inflazione, visto che la divisa americana innalza il prezzo delle risorse. Insomma, le riserve in dollari di Pechino non sono un problema per gli americani, anche perché la Cina, con un mercato finanziario ristretto e con minori disponibilità di quello americano, deve proteggersi contro il rischio di fughe valutarie, aggravate dall’incombente recessione europea che limiterà le importazioni dal suo mercato.

Conclusioni. Il sogno cinese richiede che, suo malgrado, Xi sfidi l’anagrafe, data la lunga scadenza degli obiettivi: una Cina moderna nel 2035, ed una Cina sviluppata nel 2049, centenario della Repubblica. Ammesso che tempo, salute e sorte seguano le direttive del Politburo, Xi ha non più di 15 anni per tentare di sfidare gli USA, ed ovviamente ammesso che le criticità interne trovino soluzione.

Non è escluso che Xi non riesca a trovare conferma per le sue cariche, ma se così fosse di certo non le perderebbe tutte, confidando nella nomina di politici a lui fedeli, cosa fattibile dati gli ultimi avanzamenti di carriera interna. Cosa potrebbe metterlo in pericolo? Un crollo economico o una crisi internazionale, ma ricordando che la riforma delle Forze Armate è servita a prevenire la formazione di alleanze pericolose. E se invece morisse o fosse reso invalido? Morto Stalin se ne fa un altro, ma con tutte le più feroci epurazioni del caso, come già accaduto con Mao.

Crisi attuali: maldestra gestione dell’emergenza Covid; malcontento del capitale privato; malessere sociale che ricorda Tien an Men. Come reagire? Rimandando, e tornando ad investire sulle infrastrutture, fingendo che la bolla speculativa Evegrande non esista, per lo meno fino a quando non sarà raggiunta una stabilità condizionata però alle riforme da adottare. Nei momenti di crisi la figura del leader volitivo ha dovunque attratto, e la Cina di certo non ha fatto eccezione, tuttavia non si può non riconoscere internamente un momento problematico per Xi. Il risentimento latente non gli impedirà il rinnovo delle nomine, ma di certo non eviterà turbolenze a cui reagire con risposte sempre più rigide, in un contesto che ha visto il fallimento della separazione tra partito e Stato e il depotenziamento dell’esecutivo.

Cosa temere? Un potere assoluto in cerca di legittimazione attraverso iniziative a lungo preannunciate, come a Taiwan, sperando, per Xi, di non imbattersi in un’Ucraina asiatica.

1 L’Ungheria è orientata a non utilizzare la dizione di rivale sistemico, mentre la Lituania spinge per eliminare quella di partner.

2 La strategia europea del Global gateway ha contrassegnato la scelta di campo contro la BRI

3 Da ricordare la Shanghai Gang di Jiang Zemin in associazione con la fazione legata a Hu Jintao, e la Lega della Gioventù Comunista guidata dal Premier Li Keqiang

4 USA, Giappone, Australia

5 Secondo il South China Morning Post di Hong Kong, oltre 4 milioni di piccole imprese hanno chiuso tra gennaio e novembre 202.

6 Presentata da Xi in un discorso all'Assemblea generale delle NU nel settembre 2021 delinea la visione leaderistica cinese negli sforzi di sviluppo globale. L'iniziativa punta a sostenere i paesi in via di sviluppo sollevando interrogativi sul suo impatto sulla più consolidata BRI.

7 È stata pubblicata una raccolta tascabile di citazioni di Xi con l’invito a memorizzarle. 

8 Meituan (e-commerce e consegne a domicilio), indagata per abuso di posizione dominante, ha perso 30 miliardi di dollari di valore; Tencent ha perso 400 miliardi; Didi (servizi automobilistici con autista) ha perso 29 miliardi dopo che si era quotata a Wall Street contro il parere governativo. Il governo ha poi aperto indagini su criptovalute, e-commerce, sanità privata, mercato immobiliare, industrie dei cosmetici e degli alcolici.

9 Euro e sterlina hanno tuttavia fatto peggio

Foto: Xinhua