Sotto due bandiere

(di Andrea Gaspardo)
02/09/20

Nel 2004 venne distribuito nei cinema, prima della Corea del Sud e poi del resto del mondo, il film “Taegukgi Hwinallimyeo”, variamente tradotto in lingua inglese come “Taegukgi: The Brotherhood of War” ed in italiano: “Brothers of War - Sotto due bandiere” ma che, volendo rispettare il suo significato originale, bisognerebbe tradurre come “Sventolando la Taegukgi”, laddove la “Taegukgi” è allo stesso tempo sia la bandiera della Corea del Sud che la “bandiera della razza coreana”.

L'utilizzo del termine “razza” in questo caso non è improprio perché i Coreani, esattamente come i Giapponesi, i Cinesi, i Mongoli e le altre popolazioni dell'Asia Orientale, non si considerano un “popolo” o una “nazione”, ma una “razza” vera e propria, distinta da tutte le altre razze d'Asia e del mondo in generale.

Per chi non l'avesse mai visto, “Taegukgi Hwinallimyeo” (fotogramma apertura) è un film eccezionale, non solo dal punto di vista artistico e delle riprese, ma anche per la maestria con la quale il regista Kang Je-gyu è riuscito a rappresentare l'effetto dilaniante che la “Guerra di Corea” ha avuto sul popolo coreano, rappresentato allegoricamente dai due fratelli protagonisti del film, Lee Jin-tae e Lee Jin-seok, interpretati rispettivamente dalle stelle del cinema sudcoreano Jang Dong-gun e Kim Do-jin, in arte Won Bin.

Che la Guerra di Corea dal punto di vista bellico e degli orrori ad esso associati non sia stata uno scherzo, sono in pochi ad ignorarlo. Incominciata ufficialmente il 25 giugno del 1950 e terminata con un debole armistizio, firmato il 27 luglio del 1953 nell'area di Panmunjom, la Guerra di Corea ha devastato completamente la penisola coreana causando oltre 3 milioni di morti (con un numero di vittime civili proporzionalmente più alto di quello della Seconda Guerra Mondiale e della Guerra del Vietnam).

La ferocia tanto delle operazioni militari al fronte quanto della repressione politica nelle retrovie portò alla distruzione di pressoché tutte le città della penisola ed al compimento di migliaia di massacri efferati. L'effetto poi dei bombardamenti a tappeto portati avanti contro il territorio della Corea del Nord, fu tale che, al termine delle ostilità, non era rimasto in piedi nemmeno un edificio in tutta la metà settentrionale della penisola. Non c'è da stupirsi quindi che, da allora fino ad oggi, le due entità geopolitiche forgiate dalle fiamme del conflitto: la Repubblica Democratica Popolare di Corea, altresì detta Corea del Nord, e la Repubblica di Corea, comunemente nota come Corea del Sud, siano rimaste divise da un solco di rivalità (per non dire di odio) che il tempo non ha minimamente scalfito dato che la propaganda ufficiale delle due parti (soprattutto al nord) non ha mai smesso di rappresentare “l'Armistizio di Panmunjom” come un'aberrazione, una sorta di “Pace Cartaginese” che ha defraudato i contendenti della possibilità di ottenere sul campo ed armi in pugno la vittoria finale assieme alla tanto sospirata riunificazione che, da allora, è diventata una sorta di chiodo fisso per i Coreani residenti su entrambi i lati della “Zona De-Militarizzata” (DMZ).

Questo discorso assume un significato particolare soprattutto oggi, nel 2020, perché nonostante la pandemia mondiale del Covid-19, tanto in Corea del Nord che in Corea del Sud, le élite dominanti ed il popolo hanno celebrato, ognuno a modo suo, il settantesimo anniversario dell'inizio di quella guerra fratricida. E che l'eredità di quegli anni non sia affatto passata, ci hanno pensato i vertici della Corea del Nord a ricordarlo, inscenando nel corso del giugno 2020 alcune delle peggiori provocazioni da qualche anno a questa parte, quando uomini delle forze speciali nordcoreane, sembra eseguendo un ordine arrivato direttamente dal “Leader Supremo” Kim Jong-un o da sua sorella Kim Yo-jong, sono penetrati all'interno della “Zona De-Militarizzata” facendo esplodere “l'Ufficio di Collegamento Congiunto Inter-Coreano” situato nel distretto industriale di Kaesong, per la verità già deserto da anni. La risposta delle autorità di Seoul non si è fatta attendere ed il presidente sudcoreano Moon Jae-in, internazionalmente noto per la sue posizioni moderate, ha questa volta sfoderato gli artigli affermando che nessuna violazione alla sovranità della Repubblica di Corea verrà tollerata e che le forze armate della Corea del Sud sono pronte a ricorrere alla violenza in ogni momento pur di garantire la sicurezza dei loro concittadini.

Qui è necessario aprire una parentesi molto importante perché, nonostante Moon Jae-in abbia abilmente costruito la propria fama di “moderato” grazie ai suoi sorrisi e agli abbracci con la sua controparte nordcoreana Kim Jong-un, bisogna assolutamente mettere in chiaro che egli non è né un imbecille né un uomo senza spina dorsale. Prima di distinguersi nel campo legale e dedicarsi successivamente all'impegno politico, Moon Jae-in ha fatto carriera nelle forze armate, in particolare nel “Comando Speciale di Guerra”, ossia la branca dell'esercito sudcoreano che controlla le “Forze Speciali”.

Nonostante siano coscritti, come tutti gli altri soldati, gli uomini delle “Forze Speciali della Corea del Sud” servono per 4 anni e 3 mesi sotto la bandiera, a differenza di 1 anno e 9 mesi della quasi totalità degli altri soldati. L'addestramento degli operatori è tra i più rigorosi che si possano immaginare e non è affatto raro che alcuni individui muoiano a causa di ferite, traumi o per il freddo e la fame.

A suo tempo, Moon Jae-in ha attraversato con successo questa ordalia congedandosi con il grado di sergente ed è pressoché certo che abbia partecipato anche ad azioni ad alto profilo dirette contro il minaccioso vicino settentrionale dato che i suoi record militari sono stati segretati e lo saranno ancora per diversi decenni. Non solo, nel corso della crisi coreana degli anni 2017-18, il presidente ha ordinato la massiccia espansione del “Comando Speciale di Guerra” fino all'attuale livello di 10.000 uomini e ha autorizzato la creazione di una sub unità (la 13a brigata) addestrata ed incaricata espressamente di assassinare la leadership della Corea del Nord in caso di scoppio della guerra.

Sempre a Moon Jae-in si deve la revisione della strategia di difesa nazionale della Corea del Sud secondo la quale, in caso di guerra, il paese utilizzerebbe massicciamente il suo arsenale di missili balistici a corto raggio dotati di testata convenzionale dirompente e costituito dai missili Hyunmoo-1, Hyunmoo-2, Hyunmoo-3, Hyunmoo-4 e ATACMS direttamente contro la capitale nordcoreana Pyongyang al fine di spianarla e ridurla ad un cumulo di macerie.

Siamo quindi di fronte ad un individuo che, nonostante gli apparenti modi gentili ed educati, è dotato di nervi saldi è ha ben presente il valore geopolitico della “deterrenza”. Insomma, quello che si definirebbe una “colomba d'acciaio” oppure una “tigre dall'aspetto mansueto”.

Tuttavia, il vero capolavoro di Moon Jae-in è racchiuso nel suo discorso del 25 giugno del 2020 (foto) in occasione dell'evento di commemorazione dell'anniversario dello scoppio della Guerra di Corea. In tale frangente, il presidente sudcoreano ha formalmente invitato la Corea del Nord a firmare “un trattato di pace” che sancisca definitivamente la fine della guerra tra le due Coree che possano in questo modo vivere in pace, fianco a fianco, come vicini collaborativi.

Anche se i pacifisti di tutto il mondo e persino molti leader occidentali hanno gioito nell'udire queste parole, a Pyongyang il discorso di Moon Jae-in ha fatto venire i sudori freddi a tutta la nomenclatura del “Regno Eremita” perché la sua equivale in tutto e per tutto ad una dichiarazione di guerra! La cosa può sembrare contro intuitiva ma è bene ricordare che, dal 1953 ad oggi, le élite delle due repubbliche nemiche (soprattutto al nord) sono riuscite a rimanere al potere giustificando le immense spese militari e lo stato di tensione perenne sul fatto dell'illegittimità dell'esistenza “dell'altra Corea” e che il regime geopolitico attualmente vigente nella penisola coreana è solamente di natura transitoria, fino al giorno nel quale la penisola sarà nuovamente unificata e libera dalle influenze esterne, siano esse cinesi, russe, giapponesi o americane. Per usare uno slogan che sta particolarmente a cuore ai nazionalisti coreani al Nord come al Sud: “Per una Corea unita, forte e prospera”.

Ora, se Kim Jong-un accettasse l'offerta e firmasse veramente un trattato di pace, ciò manderebbe letteralmente in malora tutti i sacrifici fatti da suo nonno e da suo padre, i quali per decenni hanno brutalizzato ed affamato i loro sudditi facendogli costruire arsenali e togliendogli il pane di bocca usando la scusa che “quegli arsenali servono per proteggere il paese e giungere alla riunificazione”. In tale scenario, il regime franerebbe irrimediabilmente in un'orgiastica resa dei conti tra i falchi delle opposte fazioni e ciò aprirebbe la strada alla fine della Corea del Nord.

Con una mossa da maestro, Moon Jae-in ha “utilizzato la colomba della pace per lastricare la strada della guerra”. La leadership nordcoreana infatti non può accettare in alcuno modo la proposta del trattato di pace, per questo farà saltare tutti i colloqui e riporterà la penisola coreana sull'orlo della tensione. Tuttavia, in questo caso i Sudcoreani avranno l'intera opinione pubblica e le organizzazioni internazionali dalla loro parte perché nessuno comprenderà la vera ragione dell'operato della Corea del Nord e i leader di Pyongyang si ritroveranno isolati ed appoggiati in maniera minima e riluttante da una Cina ed una Russia già fortemente provate sia dalla crisi economica che dalla pandemia del Covid-19.

Sebbene il conflitto coreano sia ben lungi dalla sua conclusione, gli osservatori e gli analisti tutti dovrebbero non dimenticare mai che, anche le acque dei fiumi carsici, prima o poi affiorano in superficie e, tutti i nodi vengono irrimediabilmente al pettine.

Foto: fotogramma tratto dal film “Taegukgi Hwinallimyeo” / USAF / U.S. Army / (Korean) Office of the President / KCNA