Se il riarmo dell'Ungheria e della Serbia minaccia la pace in Europa

(di Andrea Gaspardo)
01/08/22

Nel corso delle due precedenti analisi abbiamo parlato prima della figura del primo ministro dell'Ungheria, Viktor Mihály Orbán, e di come egli sia riuscito de facto a sovvertire le strutture dello stato danubiano creando quello che, a tutti gli effetti, è un regime di natura personale e, secondariamente, abbiamo trattato della traiettoria storica dell'Ungheria nel corso del XX secolo e fino ad ora a partire da uno sguardo sulla demografia.

Ora, a conclusione di questa serie, tratteremo di un argomento assai spinoso: il riarmo delle “Magyar Honvédség”, le Forze di Difesa Magiare. Parallelamente, affronteremo anche lo speculare riarmo della “Vojska Srbije”, le Forze Armate Serbe, e di come questi due processi speculari possano in prospettiva innescare una destabilizzazione a catena tale da mettere in pericolo la stabilità non solo dei Balcani e della Mitteleuropa, ma anche dell'Europa Mediterranea ed Occidentale. Può questa sembrare una tesi “forte”, così di primo acchito, eppure non lo è.

Se viste dal punto di vista e dalla collocazione geografica dell'Italia, l'area balcanica e la Mitteleuropa occupano una posizione geopolitica seconda solamente al Mediterraneo stesso ed è ovvio che qualsiasi sommovimento, piccolo o grande, che interessi quell'area, si riperquoterebbe immediatamente su di noi, ora come “alito di vento”, ora come “tempesta”. Ecco perché quanto sta avvenendo in Ungheria ed in Serbia non può e non deve lasciarci indifferenti, dato che nella gerarchia dei nostri interessi geopolitici, quell'area è assai più importante di quanto lo sia il destino finale dell'Ucraina.

Le moderne Forze di Difesa Ungherese (“Magyar Honvédség”, in lingua magiara) nacquero formalmente il 15 marzo del 1990, succedendo in tutto e per tutto al cosiddetto Esercito del Popolo Ungherese (“Magyar Néphadsereg” in lingua magiara), cioè le forze armate della precedente Repubblica Popolare d'Ungheria (l'Ungheria comunista).

Come tutti i paesi comunisti, anche la Repubblica Popolare d'Ungheria era un paese caratterizzato da rilevanti forze armate ed una società altamente militarizzata. Al momento della sua massima espansione alla vigilia della Rivoluzione del 1956, l'Esercito del Popolo Ungherese allineava nelle sue forze di terra ben 200.000 uomini ben addestrati (l'esercito di terra permanente più numeroso dei 500 anni di Storia dell'Ungheria) ed appoggiati da una forza aerea e di difesa aerea moderna e numerosa.

La Rivoluzione del 1956 e la brutale repressione sovietica (che si protrasse fino al 1958), lasciarono le forze armate magiare in uno stato di profonda frustrazione e disorganizzazione. Il nuovo governo, guidato per i successivi 3 decenni da Giovanni Giuseppe Csermanek, meglio noto come János József Kádár, fece di tutto per migliorare la propria immagine agli occhi del popolo, così come le condizioni di vita dei magiari (tanto che, al culmine della Guerra Fredda, la Repubblica Popolare d'Ungheria veniva eufemisticamente definita “la caserma più felice all'interno del Blocco Comunista”) però fece ben poco per rinnovare le Forze Armate, le quali continuarono a deperire lentamente ed inesorabilmente fino alla caduta del Comunismo e del Patto di Varsavia. Nel 1989 infatti, sebbene l'Esercito del Popolo Ungherese contasse nel complesso 105.000 uomini, supportati da una riserva teorica di altri 130.000, ed equipaggiati con 1500 carri armati (dei quali 250 moderni T-72 ed i restanti T-54/55 sia nelle versioni base che in quelle aggiornate), esso costituiva in ogni caso la più piccola e la peggio addestrata tra le forze armate del Patto di Varsavia e i pianificatori centrali dell'alleanza comunista gli avevano assegnato solamente compiti secondari di sicurezza delle retrovie, di intervento miglitare contro altri membri riottosi dell'allenza (come avvenne in Cecoslovacchia nel 1968) oppure di attacco contro l'Italia attraverso la neutrale Austria. In quest'ultimo scenario l'Esercito del Popolo Ungherese sarebbe stato spalleggiato dal Contingente di Forze Sovietiche in Ungheria (anche noto come “Gruppo di Forze del Sud”), che per dimensioni eccedeva le stesse Forze Armate magiare. Inoltre l'assegnazione dell'Italia come obiettivo militare dato ai magiari in caso di “Terza Guerra Mondiale” non era casuale perché l'Italia veniva considerata dal punto di vista militare come il membro più debole della NATO e quindi “alla portata dei pur scarsi magiari”.

La fine della “Guerra Fredda”, del Comunismo e del Patto di Varsavia diede inizio ad una fase sia di riforma che di riduzione dello strumento militare di Budapest. Per un breve periodo di tempo, le Magyar Honvédség videro un nuovo accrescimento del loro ruolo in occasione delle guerre che portarono alla disintegrazione della Yugoslavia. A quel tempo l'Ungheria svolse un ruolo fondamentale nelle strategie occidentali per diverse ragioni. Inizialmente i magiari videro la possibilità di ottenere valuta pregiata mediante la vendita dei loro arsenali agli indipendentisti croati e bosniaci. Successivamente, la minaccia costituita da alcune gravi violazioni dello spazio aereo da parte dei velivoli jugoslavi e l'escalation complessiva della guerra spinsero la leadership politica di Budapest a prendere una serie di decisioni importanti sia a livello militare (per esempio optando per un rafforzamento della linea da caccia mediante l'acquisto dalla Russia di 28 esemplari di Mig-29) che a livello politico (ingresso dell'Ungheria nella NATO nel 1999).

All'epoca della Guerra in Kosovo, l'Ungheria svolse un ruolo fondamentale come “base avanzata della NATO” alle porte di Belgrado, e tale ruolo le rimase poi negli anni successivi. La fine delle guerre nella ex-Yugoslavia e l'ulteriore allargamento della NATO a gran parte dei paesi dell'area balcanica e mitteleuropea è coinciso con una nuova era di tagli e riduzioni in campo militare che ha visto, tra le altre cose, anche la sospensione della coscrizione militare nel 2004.

Nonostante un processo di trasformazione complessiva “tendente al ribasso”, non sono mancante anche iniziative rivolte a migliorare specifici settori delle Forze Armate particolarmente bisognosi di investimento. In quest'ottica va letta la decisione presa nel 2001 di noleggiare e poi acquistare 14 esemplari del caccia svedese Saab JAS 39 Gripen in sostituzione ai precedenti Mig-29 posti in riserva. Nel complesso però, le Magyar Honvédség hanno continuato a languire a causa di un mix di scarsa considerazione sociale, riduzione degli organici e sottofinanziamento.

Le cose sono cambiate nel 2016, e la tendenza è stata invertita proprio grazie ad Orbán, anche se non è detto che l'esito dei tale processo sia per noi positivo nel medio-lungo periodo. Grazie al ruolo fondamentale svolto dai militari come “guardiani del paese” nel corso della “Crisi dei Migranti” del 2015 e utilizzando la sponda offerta dalle pressioni da parte dell'Amministrazione Trump sugli alleati europei affinché alzassero il livello delle spese destinate al bilancio alla Difesa fino a raggiungere la soglia del 2% dei rispettivi PIL, il leader magiaro ha fatto approvare un piano di modernizzazione intensiva denominato “Zrínyi 2026” avente il triplice obiettivo di:

  • raggiungere la soglia del 2% del PIL destinato alla Difesa;
  • portare gli effettivi delle Magyar Honvédség a 37.650 soldati, rincalzati da 20.000 riservisti:
  • rinnovare completamente il parco equipaggiamenti.

Sebbene tale piano, preso in sé e per sé, sia assolutamente legittimo, esso assume contorni inquietanti se inscritto nel generale contesto di sostanziale disintegrazione della democrazia e della società magiara descritti nelle mie due precedenti analisi.

Come già abbondantemente descritto in precedenza, e nonostante il numero di suo “sostenitori” qui in Italia sia dal mio punto di vista assai disturbante, Orbán ha lentamente, inesorabilmente e pazientemente costruito un regime che, pur in presenza di elezioni all'apparenza “quasi libere”, può essere associato ad un regime dittatoriale (solo più “soft” di altri) perché privo dei fondamentali “pesi e contrappesi” che caratterizzano una moderna e funzionante democrazia liberale. Ecco quindi che il fatto che il piano di modernizzazione delle Forze Armate in un contesto nel quale, a partire dalla nuova legislazione approvata dopo la “Crisi dei Migranti”, il governo ha ora la possibilità di schierare l'esercito all'interno del paese a propria discrezione, non rappresenta un qualcosa di rassicurante per coloro che hanno a cuore la salute della democrazia. Non solo, le connessioni che negli ultimi 12 anni Orbán ha pazientemente tessuto tra il suo partito Fidesz, le Magyar Honvédség e le organizzazioni politiche e le associazioni dei magiari etnici viventi nei paesi situati attorno all'Ungheria hanno già fatto squillare più di un campanello d'allarme, se non nei governi, almeno nelle opinioni pubbliche di questi stati che, storicamente, non hanno mai avuto buoni rapporti con Budapest e ne hanno sempre temuto un potenziale revanscismo.

La situazione è particolarmente delicata per la Romania e la Slovacchia, i due paesi che presentano le due più grandi comunità magiare etniche al di fuori dei confini dell'Ungheria. Superficialmente si sarebbe tentati di credere che i rapporti tra l'Ungheria da un lato e la Romania e la Slovacchia dall'altro, propiziato dalla comune adesione alla NATO e all'Unione Europea siano eccellenti. Se guardiamo per esempio al settore turistico e ai rapporti economici generali notiamo che l'Ungheria è legata a doppio mandato ai suoi vicini. Da alcuni anni, il numero di abitanti della Romania e della Slovacchia che visitano abitualmente l'Ungheria non fa che aumentare (sarebbe interessante capire quanti di questi turisti siano effettivamente romeni e slovacchi e quanti magiari etnici cittadini di quei due paesi!) assommando ormai a diverse centinaia di migliaia. Viceversa, il numero di magiari che su base annuale visita la Slovacchia ha da un pezzo superato la soglia di 100.000 mentre quelli che hanno visitato la Romania nell'anno 2021 sono stati ben 3.561.548 secondo i dati dell'Istituto Nazionale di Statistiche della Romania! Parimenti, se guardiamo all'economia in generale, la Romania (con il 5,4%) e la Slovacchia (con il 4,8%) rappresentano rispettivamente il secondo ed il quinto partner commerciale dell'Ungheria dal lato dell'export, e con il 5,3% Bratislava vi figura anche dal lato dell'import (in quinta posizione). Viceversa, Budapest rappresenta un importante partner per la Slovacchia sia dal lato dell'export (settima posizione, con il 6%) che dal lato dell'import (quinta posizione, con i 6,4%) e lo stesso dicasi nei confronti della Romania, laddove l'Ungheria assorbe il 4,43% dell'export (quarta posizione) e fornisce il 6,96% dell'import (terza posizione).

Alla luce di questi dati chiunque si chiederebbe perché mai le leadership politiche avrebbero l'interesse ad assistere ad un deterioramento delle mutue relazioni? Eppure, se la Storia dei complicati rapporti tra Francia e Germania può fungere da termine di paragone, avviene assai più spesso di quanto si creda che paesi che sono i migliori partner commerciali in tempo di pace si trasformino in acerrimi nemici in tempo di guerra, e l'economia in sé e per sé non può fungere da semplice “pilota automatico” e non sostituisce in toto gli interessi nazionali né le problematiche di sicurezza nazionale e territoriale. Quelle stesse che Orbán ha apertamente menzionato nel corso dell'attuale Guerra Russo-Ucraina, affermando che: “l'Ungheria è un paese dall'economia particolarmente vulnerabile perché privo di sbocco al mare, e per tutelarsi, dovrebbe averne uno”. Inutile a dirlo, le sue affermazioni hanno scatenato un putiferio in Croazia, la quale durante “l'epoca d'oro del Regno d'Ungheria” rappresentava esattamente lo “sbocco al mare” per Budapest.

Eppure, quello magiaro non è l'unico “calderone” che sta bollendo in quella parte d'Europa dato che, alle frontiere meridionali di Budapest, anche la Serbia sta vivendo un parallelo processo di riarmo, in prospettiva non meno inquietante di quello magiaro.

Mentre in Ungheria le leve del potere sono detenute da Orbán, in Serbia si trovano invece saldamente nelle mani di Aleksandar Vučić, politico serbo di lungo corso che dal 2017 ricopre la carica di presidente, essendo stato precedentemente primo ministro e molto altro.

Ad un attento osservatore risulta immediatamente apparente che la carriera politica ed il regime che Vučić ha costituito nel suo paese sembrano essere la fotocopia di quanto Orbán ha fatto in Ungheria, perciò essa non sarà oggetto di spiegazioni più approfondite. Quello che è necessario dire però è che, specularmente a quanto avvenuto con l'Ungheria, anche la Serbia ha diversi “conti aperti con la Storia”.

Esattamente come i magiari hanno visto tramontare nel corso del XX secolo per ben due volte di seguito il sogno della “Grande Ungheria”, così i serbi hanno assistito al collasso dello stato multietnico della Repubblica Socialista Federale di Yugoslavia sul quale non sono stati in grado di costruire la loro ambizione della cosiddetta “Grande Serbia”, cioè un grande stato pan-serbo che oltre alla Serbia propriamente detta (più le provincie autonome della Vojvodina e del Kosovo) comprendesse anche la Macedonia del Nord, il Montenegro, la Bosnia-Herzegovina e una grande porzione della Croazia situata a est e sud della linea passante per Virovitica, Karlovac, Ogulin e Karlobag.

La bandiera del nazionalismo serbo servì, sul finire degli anni '80 e nel corso degli anni '90 del XX secolo, a lanciare la carriera di Slobodan Milošević, ma si infranse nella infinita sequela di disastri che le guerra di disintegrazione della Yugoslavia (1991-2001) portarono ai serbi in generale (indipendentemente che essi vivessero o vivano dentro o fuori ai confini della Serbia propriamente detta).

Pareva che con la fine dei loro sogni di “grandeur” i serbi si fossero rassegnati ad un progressivo quanto inevitabile approdo alle “sponde istituzionali” dell'Unione Europea. Tale aspettativa da parte delle élite e delle opinioni pubbliche occidentali è stata sonoramente smentita dai fatti. A fare da volano per la progressiva rinascita del nazionalismo serbo sono stati essenzialmente tre fattori:

  • la stagnazione politica ed economica dell'area dei Balcani meridionali (a tutt'oggi la più povera del continente europeo, se si eccettuano i territori ex-sovietici), sostanzialmente e colpevolmente ignorata per vent'anni sia da Washington che da Bruxelles (salvo episodiche eccezioni);
  • il sostanziale fallimento a tutti i livelli (politico, economico, sociale, identitario e chi più ne ha più ne metta) della Bosnia-Herzegovina in quanto paese in grado di intraprendere un proprio autonomo percorso di sviluppo al di fuori delle tutele internazionali;
  • la delicatissima questione del Kosovo, affrontata sino ad oggi dalle élite internazionali in una maniera che bambinesca è dire poco, che a partire dalla Dichiarazione Unilaterale di Indipendenza del 17 febbraio 2008 ha continuato a rappresentare un nervo scoperto nella psiche del popolo serbo.

Questa compresenza di eventi, trascinatisi nel corso del tempo, unita al senso di frustrazione del popolo serbo causato da una percezione degli eventi degli ultimi decenni descritta come “punitiva” ha costituito un formidabile sottobosco per la rinascita del nazionalismo in tutte le aree abitate dall'etnogenesi serba tanto che, ad un certo punto, leader spregiudicati come il già citato presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, ed il capo dei serbi di Bosnia, Milorad Dodik, hanno trovato più utile “cavalcare la tigre” piuttosto che “adoperarsi per domarla”.

Esattamente come per l'Ungheria, anche la Serbia ha accompagnato il suo tentativo di ricostruzione di una propria “sfera d'influenza” intraprendendo a sua volta una corsa al riarmo che l'ha portata al giorno d'oggi ad avere delle Forze armate (la Vojska Srbije) dotate di una potenza comparabile a quella delle forze armate di Bosnia-Herzegovina, Montenegro, Kosovo, Albania e Macedonia del Nord messe assieme.

La questione assume una dimensione ancora peggiore se si considera inoltre il fatto che, negli ultimi otto anni, si è assistito ad un progressivo avvicinamento nelle posizioni di politica estera dell'Ungheria di Orbán, della Serbia di Vučić, dei serbo-bosniaci di Dodik e di tutti loro con la Russia di Putin, tanto che, nel caso che l'attuale Guerra Russo-Ucraina effettivamente si concluda con la soppressione “manu militari” dello stato ucraino, la possibilità che si crei un asse formale (condito di continuum territoriale) tra Mosca, Budapest, Belgrado e Banja Luka (quest'ultima capitale della Republika Srpska, in italiano Repubblica Serba di Bosnia-Herzegovina) costituisce un pericolo grave per la stabilità del continente europeo.

Nel frattempo, la grande guerra convenzionale che insanguina ormai da oltre 5 mesi le lande che un tempo furono della Scythia Maior sta dando delle preziose lezioni militari tanto ai magiari quanto ai serbi. A Budapest i vertici sia politici che militari già discutono apertamente sul fatto che il pur ambizioso piano di modernizzazione “Zrínyi 2026” sia insufficiente rispetto alle guerre che il paese si troverà potenzialmente a combattere in futuro e che le Magyar Honvédség debbano essere ulteriormente potenziate sia nel numero degli effettivi (si parla di aggiungere ulteriori 100-120.000 uomini alla riserva) che nei mezzi militari (per esempio nel raddoppio numerico della linea da caccia acquistando altri 14 Gripen da aggiungere ai 14 già in servizio).

Diverse voci, per il momento minoritarie, parlano addirittura della possibilità di reintrodurre la coscrizione militare obbligatoria sia per gli uomini che per le donne. Il dibattito sulla reintroduzione del servizio militare universale ha preso quota persino a Belgrado, nonostante il fatto che decenni di servizio militare obbligatorio (abolito nel 2011) e 10 anni di sanguinose guerre nella ex-Yugoslavia abbiano lasciato in eredità alla Vojska Srbije la cifra ragguardevole di oltre 600.000 riservisti addestrati all'uso delle armi, e tra gli alfieri di questo “recupero della tradizione” c'è anche lo stesso presidente Vučić.

Insomma, da qualsiasi punto la si voglia vedere, e alla luce di quanto scritto nelle mie analisi precedenti sempre sul tema Ungheria, è necessario da parte dei nostri decisori politici, degli analisti e dell'opinione pubblica in generale, continuare a monitorare quanto avviene nella Mitteleuropa e nei Balcani perché eventuali spinte revansciste da parte di Budapest, Belgrado e Banja Luka, sostenute da robusti contingenti militari ed appoggiate in maniera palese o occulta da Mosca possono rappresentare una pericolosissima sorpresa per noi tutti.

Foto: honvedelem.hu