Ripensare il Medioriente con l’aiuto di Ralph Peters

(di Antonio Vecchio)
06/06/16

Quello cui stiamo assistendo in Medioriente è solo l’ultimo sviluppo di un conflitto, l’ennesimo, in seno al mondo musulmano; l’evoluzione di una crisi causata da fattori non solo religiosi, ma anche e soprattutto di natura geopolitica.

E’ il fallimento di un sistema politico artificiale, originato dal trattato Sykes-Picot con il quale Francia e Inghilterra (con l’avallo della Russia) rimarcarono, all’inizio del secolo scorso, le rispettive zone di influenza.

Siria, Giordania, Libano, Iraq, Arabia Saudita sono espressioni formali di realtà statuali non rappresentative del mondo socio-politico-religioso che racchiudono.

Situazione ben nota a quanti si occupano di geopolitica per studio o semplice interesse, amplificata nell’ultimo ventennio dal fenomeno di islamizzazione crescente, che a partire dagli anni 70 ha investito tutti gli stati musulmani dall’Algeria all’Indonesia, in reazione non alla modernità (come si sarebbe portati a credere), ma al processo stesso di occidentalizzazione.

Un sistema statuale fallito – dicevamo – in quanto etero prodotto, che circa dieci anni fa uno studioso americano, Ralph Peters, propose di rivedere con un interessante analisi che oggi merita di essere (ri)letta con attenzione (v.articolo del 2006).

Peters, osservando come la gran parte dei problemi degli stati posti nella mezzaluna che va dal Libano al Pakistan, a sud del Mar Nero e Mar Caspio, non sia l’Islam in sé, ma i confini tracciati dagli interessi europei nel corso del XIX secolo, concluse che senza un drastico riallineamento di tale frontiere non si sarebbe potuto ristabilire l’ordine (geo)politico.

Ragionando quindi sull’impossibilità di accontentare tutte le componenti etnico - religiose presenti, tracciò una mappa che trovasse la giusta collocazione almeno a Kurdi, Balucchi ed i musulmani Sciiti, minoranze queste giudicate fondamentali per riportare la pace nell’area.

In altri termini, immaginò un “nuovo” Medioriente, in sostituzione di quello attuale, rispettoso questa volta delle diversità “antropologiche” - e quindi etniche, di tradizione, di religione di lingua - delle (principali) genti che vi abitano, pur non in grado di accontentare tutte le minoranze ivi presenti come ad esempio i cristiani.

Un nuovo assetto geopolitico quindi, in grado di rivoluzionare le carte geografiche come noi le conosciamo, con la comparsa di nuovi Stati e la modifica, in senso riduttivo ed estensivo, di quelli attuali, e con uno Stato di Israele rientrato nei confini del 1967.

Tra le nuove entità statuali Peters annovera:

un Sacro Stato Islamico, una sorta di Vaticano islamico comprendente la Mecca e Medina, governato a rotazione da un Consiglio di scuole e movimenti islamici appartenenti a tutti gli indirizzi confessionali;

lo Stato Libero del Baluchistan nato dalla fusione di territori sciiti di etnia balucca di Iran e Pakistan;

uno Stato del Kurdistan Libero, comprendente i territori abitati dai circa 30 milioni di Kurdi, ora in Turchia, Iraq, Siria e Iran;

uno Stato Arabo Sciita indipendente, ricavato nell’attuale Iraq e Iran da territori caratterizzati da omogeneità confessionale.

La creazione delle nuove entità statuali, assieme alla ridefinizione di quelle restanti secondo un principio di equidistribuzione etnico - religiosa, si attuerebbe a spese di alcuni Stati e con guadagno di altri.

In questa sede, per memoria mi limito a indicare i principali mutamenti territoriali:

l’Arabia Saudita, oltre a perdere i territori sacri (costituitisi in Stato autonomo), cederebbe zone alla Giordania, allo Yemen (quelle costiere nord occidentali a prevalenza sciita), e al neo costituito Stato Arabo Sciita, quelle costiere;

l’Iran perderebbe alcuni territori ad omogenea caratterizzazione etnica a vantaggio di Azerbaigian, il Kurdistan libero, lo Stato Arabo Sciita, ed il Baluchistan, guadagnando la provincia di Herat, nell’attuale Afghanistan, affine alla Persia per lingua e storia;

l’Afghanistan, dal canto suo, perderebbe territori occidentali a vantaggio dell’Iran, acquisendone di nuovi a nord ovest dal Pakistan, favorendo così la unificazione di etnia ora separate.

L’idea di Peters, che prima di lasciare il servizio attivo aveva lavorato per anni al Dipartimento della Difesa statunitense, trovò subito ampia eco - e probabilmente non è una caso - nelle dichiarazioni che l’allora Segretario di Stato americano, Condoleezza Rice, pronunciò all’indomani dell’invasione israeliana nel sud del Libano nel 2006, allorquando dichiarò che si stava assistendo “alle doglie da parto da cui sarebbe scaturito un Nuovo Medioriente”.

Va da sé che un tale stravolgimento è lungi dal realizzarsi in modo indolore, e rischierebbe oggi di aggiungere sangue al sangue.

La proposta dello studioso però non va presa come mera esercitazione accademica; piuttosto come una prospettiva attorno alla quale ripensare la geografia dell’area nel medio-lungo termine, in un’ottica di ampia condivisione delle parti coinvolte.

Potrebbe non essere un esercizio vano, riflettendoci bene, perché osservando l’attuale Iraq con le sue tre parti etnicamente omogenee (kurda, sunnita e sciita) - impensabile dieci anni fa - e confrontandolo con la mappa proposta dallo studioso americano, sembrerebbe che il suo articolo, in tutto questo tempo, qualcuno lo abbia letto approfonditamente.