Oceani di rabbia

(di Gino Lanzara)
28/12/19

Il Sahel occupa una fascia di territorio immensa, una zona di transizione tra deserto, savana, foreste equatoriali e mare, e che interessa, da ovest ad est, più di 10 Stati, un'area geograficamente non ben distinta ma che taglia il continente dall'Atlantico al Corno d'Africa; è un’area che, nonostante la globalizzazione, ha esaltato l’importanza del fattore temporale su quello spaziale; se il tempo sfreccia velocissimo in occidente, Giappone e Cina, lo stesso non può dirsi per quelle aree in cui la geoeconomia ha costretto l’uomo ad adottare strategie di ambientamento e dinamiche politico-sociali diverse.

Se si focalizzassero per un momento le dimensioni africane, il Sahara potrebbe essere rappresentato come un oceano di sabbia esteso per oltre 8 milioni di km2, dalle coste atlantiche nord occidentali fino al Mar Rosso, con il confine Saheliano che, dividendo il deserto dal resto del Continente, separa l’Africa bianca del Maghreb dall’Africa nera subsahariana, il Nord Africa musulmano dalle coste occidentali cristiane; attenzione però: un oceano, non una scatola vuota. Qui nessun egemone ha avuto vita facile; il mare sabbioso non è stato il Πόντος (Ponto, "mare", ndr) di unione mediterranea, ma un ostacolo che ha impedito lo sviluppo di istituzioni politiche capaci di controllare dei territori che hanno conservato fluidità, porosità e dinamiche rallentate ma capaci di creare sincretismi in un contesto di demarcazioni confinarie frammentate, per molti puramente formali, e che permettono libertà d’azione all’insorgenza jihadista; un mare in continuo movimento e con costanti di crisi geopolitiche determinate dall’inospitalità dell’area. Lo spazio sahariano è stato così diviso in entità statuali in cui la pluralità etnico religiosa è diventata la norma, con uno sbilanciamento di potere che premia gli Stati maghrebini lasciando a quelli saheliani debolezze congenite e strutturali, e dove il concetto di sovranità, in collisione con quello tribale, rientra nella pura teoria; le interdipendenze fra gli argini sahariani hanno indotto a guardare al deserto come ad una cerniera, dove i poteri locali andrebbero identificati sia in base alle capacità materiali sia grazie alla postura assunta nella gestione delle dinamiche securitarie.

Il Sahel è da sempre teatro conflittuale; basti guardare al Sudan dal 1955 al 2005: dinamiche religiose e sociali in un contesto etnico vario, applicazione della Shariʿah, frammentarietà e tensioni all’interno dello stesso islam sudanese, una complessità che dato il la ad altri conflitti, primo tra tutti a quello separatista del Dārfūr, ed alle instabilità del Ciad.

Il Sahara è essenzialmente musulmano, a partire dal nord Berbero, che ha regionalizzato l’Islam con un’eterogenea flessibilità contrapposta al salafismo, insofferente verso i poteri centralizzati, e con una peculiare moderazione in alcuni Stati saheliani, contrapposta all’ortodossa insorgenza qaidista; l’11 settembre ha fatto deflagrare contrabbando, narcotraffico, terrorismo, conflitti etnici, secondo chiavi interpretative che hanno ricondotto l’occidente alla percezione del rischio immanente, che non può essere semplicisticamente limitato ad un fenomeno migratorio dipendente, tra l’altro, dalle oscillazioni del mercato idrocarburico.

Le forti incentivazioni economiche connesse alle esportazioni di gas e petrolio hanno reso i paesi Nord Africani, dipendenti dalle importazioni, dei fortissimi poli di attrazione per quelli saheliani colpiti dalle carestie.

Il contrasto al jihadismo ha determinato una nuova scala di valori geopolitici, attribuendo particolare valenza a Paesi come l’Algeria, ed evidenziando sia i deficit socio economici saheliani, sia le miopie di un’Europa costretta a pagare lo scotto delle sue incertezze.

Il Sahel è socialmente povero ma ricchissimo in quanto a risorse e negli ultimi anni, pur potendo godere di una maggiore stabilità climatica, presenta ancora economie regionali non autosufficienti a livello alimentare, che continuano a poggiarsi sui supporti della cooperazione, con un’endemica e carente gestione delle risorse, e con un’insufficiente evoluzione tecnologica che ha spostato l’asse conflittuale verso i Paesi più progrediti. L’acqua è qui un bene ancora più prezioso che altrove, eppure lo sfruttamento delle risorse idriche ha riguardato principalmente l’estrazione dell’uranio, cui la Francia è fortemente interessata con Areva, cui segue il petrolio, risorsa strategica sotto la particolare attenzione USA che, pur non avendo dispiegato un particolare apparato militare, ha realizzato ad Agadez una piattaforma per droni, e l’oro, con una vena che parte dalla Mauritania fino al Sudan, e che alimenta i gruppi jihadisti.

Tutta l’area offre la visione di un impatto strategico imponente, dove anche altri attori1 interagiscono decrementando l’esclusiva economica transalpina. Insomma, un oceano di sabbia sì lento, ma animato da una violenta rabbia sociale e jihadista infiammata dai venti dell’est, che ha riportato il Sahel ad una posizione geopolitica centrale.

Jihad e Strategie

Sia la caduta del regime di Gheddafi, che vedeva l’Africa come zona geopolitica d’influenza utile per uscire dall’isolamento internazionale grazie alle risorse petrolifere, sia la destabilizzazione del Mali, sia la caduta di Daesh con l’annichilimento di al Baghdadi, hanno determinato un’ulteriore connessione tra lo spazio sahariano e quello mediterraneo con una nuova fase di sviluppo jihadista, incentivando i flussi migratori, già sospinti dalla disoccupazione nigeriana per la riduzione dell’attività estrattiva dell’uranio, e finora tollerati dalle autorità locali che li consideravano legittimi ed economicamente vantaggiosi fino a quando, poste di fronte all’aut aut europeo che ha fatto balenare ingenti fondi per la cooperazione, sono state costrette a criminalizzarli.

Il fenomeno jihadista, in questo contesto, ha trovato terreno fertile, e ha espanso le sue radici; malcontento sociale, vulnerabilità economiche e salafismo che punta alle basi sociali e culturali, hanno contribuito all’inserimento dei gruppi insorgenti nello scenario saheliano2, quale unica alternativa alle autorità centrali. Lo schema è quello già visto in Siraq: un sistema di welfare in sostituzione di quello governativo3, ed una legittimazione politica dovuta alla capacità di assumere un ruolo interlocutorio verso le etnie discriminate con una dinamica di divide et impera, un complesso di fattori che ha evidenziato le difficoltà incontrate dalla Francia con l’Operazione Barkhane e dall’ONU con la G5 Special Force, peraltro penalizzata da una logistica insufficiente.

L’uscita di scena di Gheddafi si è ripercossa sia in chiave economica, per il venir meno dei flussi finanziari dei fondi sovrani, sia per l’impossibilità dell’uso della forza da parte dell’esecutivo, che ha reso impossibile sia il controllo delle frontiere soprattutto nel Fezzan (zona tradizionalmente ingovernabile) sia della popolazione Tuareg, l’ultima a defezionare dalle forze lealiste libiche, e prossima ad una coalizione con i gruppi dell’estremismo radicale.

Guerre e colpi di stato hanno dunque portato il Sahel, zona d’influenza francese, a diventare un’area di commercio di armi, un mercato di mercenari, un punto di ritorno dei foreign fighters, dove si sta trasferendo la conflittualità mediorientale con ripercussioni fino al Golfo di Guinea ed al Corno d’Africa.

La FrançAfrique, impero coloniale estinto nel 1960, ma con un retaggio ininterrotto che testimonia il rifiuto francese di essere una semplice potenza regionale europea, rivive con Barkhane, missione che con il suo impatto sul bilancio impedisce altre operazioni (Libia), e succeduta all’operazione Serval, dispiega truppe insieme alla forza multinazionale G5 Sahel4, si fonda su un assunto di tipo politico e dà ampia possibilità di movimento militare, ma innescando reazioni terroristiche come quelle che hanno colpito sia il territorio metropolitano francese sia il territorio saheliano in Mali e Niger con forme di guerriglia asimmetrica con mobilità incontrollabili, e che stanno inducendo l’Esagono a considerare un’exit strategy visti anche i dati elaborati dal centro studi di Washington, per cui nel corso degli ultimi otto anni la minaccia dell’estremismo violento in Africa è aumentata del 310%, con l’incremento del numero di paesi africani interessati da una sostenuta attività di gruppi radicali islamici che, dai 5 del 2010 sono arrivati ai 12 del 2017; la Francia auspica che il G5 permetta intanto il ritiro dei reparti stanziati in Mali dal 2013, e che si possa evitare di cadere in una spirale di vietnamizzazione di un intervento in cui la dimensione militare ha schiacciato negli anni quella politica.

Dal 2018 i conflitti si sono diffusi aumentando il numero di vittime, e hanno evidenziato che nel Sahel non ci sono solo terroristi, ma anche gruppi armati in lotta fra loro; il rischio è dunque quello di avere non solo un fronte jihadista in evoluzione, ma anche numerosi micro-conflitti con l’ibridazione dei diversi tipi di violenza, e conferendo all’insorgenza la possibilità di contare su una rete di basi sul suolo africano.

In questo scenario il Mediterraneo assume un ulteriore valore strategico per la Francia che, dovendo comunque tenere conto di una significativa presenza russa5, si scopre potenza marittima incompiuta ma con mire su sponde che furono di appannaggio italiano.

Ma che colpa abbiamo noi?

Che ogni Paese persegua il suo interesse dovrebbe essere normale: perché non dovrebbe farlo la Francia? Che i transalpini non intendano rinunciare alle risorse africane sembra evidente, che stiano adottando una politica interessante lo è altrettanto.

Il franco CFA appartiene a due unioni monetarie: CEMAC6 e UEMOA7, che usano due franchi CFA distinti ma con lo stesso acronimo, che funzionano in modo analogo, e sono ancorati all’euro con la stessa parità di cambio che dovrebbe consentire una difesa da choc monetari ed evitando l’affidamento al dollaro USA o al renmimbi cinese. Recentemente è stata rilanciata la notizia della prossima fine del franco CFA a partire da luglio 2020, sostituito dall’ECO, futura moneta di scambio per Benin, Burkina Faso, Costa d'Avorio, Guinea-Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo, ma non per i Paesi dell'Africa centrale.

Indubbiamente la Francia ha goduto di relazioni privilegiate con i Paesi d’area, ma è anche vero che gli stessi Paesi hanno beneficiato di questo rapporto, intrattenuto liberamente; il sistema da un lato ha permesso di garantire profitti per le grandi imprese grazie alla stabilità di cambio, dall’altro è stata la Francia a tamponare le falle della governance africana.

Il Franco CFA è una moneta che agevola commerci e stabilità economica, ed evita rischi inflattivi garantiti dalle riserve valutarie gestite da Parigi, che ha permesso alle nazioni africane di scambiare il franco con qualsiasi altra divisa. I vincoli sono sempre esistiti: l’obbligo del deposito del 50% delle riserve monetarie presso il Tesoro Francese, che fa sì che quando un Paese con franco Cfa esporta verso un paese diverso dalla Francia, ed incassa dollari o euro, ha l’obbligo di trasferire il 50% del ricavo presso la Banca di Francia; l’obbligo della presenza di rappresentanti francesi con diritto di veto, sia nei consigli d’amministrazione che in quelli di sorveglianza delle istituzioni finanziarie; il diritto francese di prelazione nell’acquisto di qualsiasi risorsa naturale scoperta nelle ex colonie, con un conseguente controllo su materie prime di valore strategico. Per i Paesi produttori lo svantaggio consiste, per effetto dei cambi fissi, nella lievitazione del costo dell’export; può essere tuttavia fuorviante addebitare alla Francia una sorta di tassazione verso le ex colonie con l’investimento in titoli di Stato per finanziare la spesa pubblica, dato che si tratta di circa 10 miliardi di euro pari allo 0,5% del debito di Stato, e che ogni tre anni la Banca Centrale versa ai depositari interessi dello 0,75%, percentuale più alta del tasso di mercato.

Per la Francia, non buonista ed insidiata dalla Germania, l’Africa rimane strategica, specie in funzione dell’espansione cinese, che non impone ingerenze politiche ma dipendenze economiche, e della concorrenza di India, Brasile e Turchia, con un peso economico che si è ridotto dall’11% del 2000 a circa il 5,5%. Al netto delle affermazioni ufficiali, rimangono forti dubbi su un’improbabile ritirata francese, dubbi supportati dal carente dettaglio degli accordi collegati all’entrata dell’ECO e che potrebbero prevedere la conservazione di prerogative imperiali.

Altre perplessità insorgono sull’entrata in vigore, dato che modifiche costituzionali e strutturali impongono tempi più lunghi; non è nemmeno chiaro se è noto il rischio di austerità, tagli e ortodossia di bilancio dovuto agli aggiustamenti nominali in mancanza di fondi di solidarietà, in caso di un aumento imprevisto dei costi dell’import.

Piccoli panorami

Quali risposte attendersi? Certamente non solo politiche, ammesso che esista un’improbabile unità d’intenti, minata peraltro dall’aggressività neo ottomana, ormai presente su troppi tavoli. I vuoti di potere generati dalle cancellerie occidentali stentano a colmarsi come l’esperienza libica insegna, e visto che attori ed interessi in gioco sono molteplici e divergenti.

Italia. La nostra politica estera continua ad essere balbettante: le iniziative dell’allora Ministro Minniti non hanno prodotto gli effetti sperati, come del resto le successive sortite politico-economiche sul Franco CFA, prive di un approfondimento tematico e ristrette all’ambito migratorio.

Per quanto ci concerne, in territori estesi come quello Nigeriano, un intervento operativo, potrebbe risolversi in una debacle, analoga a quella che potrebbe delinearsi per la Francia che, nonostante gli sforzi, non è ancora riuscita a stabilizzare la regione.

1 Qatar, Arabia Saudita, Israele, India, Sudafrica, Giappone, Germania e Cina

2 Boko Haram affiliato di IS; Gruppo di sostegno all’Islam ed ai Musulmani, ottenuto principalmente dalla fusione tra al Qaida, Ansar al Din, Al Mourabitoun,

3 Vedi l’esempio di Hamas e Hezbollah

4 Burkina Faso, Mauritania, Niger, Ciad e Mali

5 Fonti inteligence nord africane riferiscono di mercenari della società Wagner

6 Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale - Camerun, Gabon, Ciad, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana e Repubblica del Congo

7 Unione economica e monetaria ovest-africana - Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea-Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo

Foto: Ministère de la Défense / U.S. Marine Corps / presidenza del coniglio dei ministri / web