LIBIA: reintegrato Bashagha con poteri dimezzati. La vittoria di Sarraj e l’occasione per l’Italia

(di Filippo Del Monte)
07/09/20

Prima escluso, poi reintegrato giovedì scorso ma politicamente ridimensionato, questa la parabola del ministro dell’Interno tripolino Fathi Bashagha (v.articolo).

Bashagha, volto politico delle potenti milizie di Misurata, esponente di punta del milieu filo-turco nella capitale libica, vera “quinta colonna” di Erdogan in seno al GNA, era il principale rivale del primo ministro Fayez al-Sarraj.

Oggi invece Bashagha è “semplicemente” il ministro dell’Interno del governo internazionalmente riconosciuto poiché Sarraj – e chi dall’esterno lo appoggia – ha voluto, nell’ambito dell’operazione di reintegro, fargli sostanzialmente il vuoto intorno: il 28 agosto, subito dopo la sospensione di Bashagha, è stato nominato ministro della Difesa Salah Eddine al-Namrush; il generale Mohammad Ali al-Haddad è stato nominato nuovo comandante in capo delle Forze Armate Libiche. In altre parole due posizioni-chiave della politica libica sono state ora occupate e Bashagha non potrà più estendere la influenza sulle Forze Armate, rimanendogli però sul tavolo il difficile dossier dell’integrazione delle milizie sia tripoline che misuratine nelle forze regolari.

Integrare milizie irregolari ma potentemente armate e con velleità politiche tra i ranghi istituzionalizzati delle Forze Armate non è mai una operazione semplice, sia dal punto di vista organizzativo che da quello schiettamente legato alla politica militare, ed è storicamente provato come un decisore che si ritrovi ad affrontare una situazione come questa non ne esca mai bene. Si deve poi considerare che Sarraj e con esso gli ambienti militari hanno una netta preferenza nei confronti delle milizie di Tripoli e che preferirebbero, sul medio periodo, arrivare al disarmo completo dei misuratini. Questo perché Misurata s’è rivelata essere, già dall’inizio della rivolta contro Gheddafi nel 2011, una realtà politica e militare pericolosa per la capitale (denominata la “Sparta libica”), con una spiccata autonomia decisionale che si regge sulla punta delle baionette e capace di dar vita ad una classe dirigente che ha gradualmente “contaminato” il personale politico di Tripoli.

Non a caso sia il generale al-Haddad che il vicepremier Ahmed Maiteeg (foto) sono misuratini e, tra le altre cose, rivali di Bashagha; con il primo che mantiene ottimi rapporti non solo con i capi ma anche con i gregari delle milizie di Misurata ed il secondo che agisce da vero “braccio destro” di al-Sarraj ed al quale il premier vorrebbe anche affidare il controllo e la gestione delle holdings governative il cui valore s’aggira oggi intorno ai 9 miliardi di dollari. Insomma, Misurata resta forte anche a fronte dell’indebolimento di Bashagha ma il problema per Sarraj non erano né sono – almeno finché si continua a combattere – le rivendicazioni della città-stato quanto l’opera di sabotaggio interno che il ministro dell’Interno attuava mantenendo contatti con le milizie più riottose a qualunque tipo di negoziato con la Cirenaica. Oggi il problema sembra essere disinnescato anche perché la ristrutturazione dei vertici delle Forze Armate ha dato alle milizie nuovi interlocutori.

Anche per quel che riguarda i rapporti interni alla fazione filo-turca dell’esecutivo di Tripoli Bashagha sembra aver perso terreno poiché il neoministro della Difesa al-Namrush (nella foto successiva, seduto a destra) ha scelto, come primo atto della sua nomina, di recarsi in visita ad Ankara per incontrare il suo omologo turco Hulusi Akar. Sicuramente un atto dovuto visto che è stato il sostegno militare turco a salvare Tripoli dal tracollo ed a permettere l’azione controffensiva fino ad arrivare a pochi chilometri da Sirte ed al-Jufra; però il dato di fatto è che il nuovo punto di riferimento per la Turchia potrebbe essere diventato proprio il ministro della Difesa libico che politicamente può essere ascritto tra i sostenitori dell’azione di Ankara e che ad oggi detiene un potere politico-negoziale maggiore di Bashagha, il quale si era investito del compito di gestire le relazioni bilaterali con Erdogan.

Dunque al-Sarraj ha avuto abbastanza forza per estromettere e poi rimettere al suo posto Bashagha ridimensionandolo drasticamente. Una scelta dettata dalla realpolitik poiché se è vero che il ministro dell’Interno ha perso appeal nei circoli governativi, non si può considerare in tutto e per tutto uno sconfitto: egli è pur sempre un capo di milizie oltre che un politico ed i miliziani a lui fedeli avevano circondato la sede del Ministero al momento della sua deposizione lanciando a Sarraj un chiaro avvertimento. Non si poteva correre il rischio di scatenare una guerriglia urbana tra milizie rivali a Tripoli mettendo in pericolo la tenuta del governo ed offrendo ad Haftar ed ai sostenitori della guerra a Tobruk l’opportunità di passare nuovamente all’offensiva: minare la credibilità dell’esecutivo del GNA significa attentare a qualunque opportunità di negoziare un accordo di pace.

La Turchia per non vedere le sue “quinte colonne” escluse dal governo ha raffreddato gli animi dei sostenitori di Bashagha, gli Stati Uniti hanno garantito a Sarraj l’agibilità politica per estromettere e poi depotenziare il ministro dell’Interno a fronte comunque di un suo “giuramento di fedeltà” alla causa del GNA, l’Italia pare abbia giocato anch’essa la sua partita invitando Sarraj a non forzare troppo la mano allineandosi comunque alla posizione di Washington.

La crisi politica a Tripoli ha permesso a Roma di tornare – anche se da comprimaria – a dire la sua sulle questioni della “Quarta Sponda” quando fino a qualche settimana fa il suo ruolo geopolitico nell’area sembrava definitivamente tramontato.

L’estromissione di Bashagha non è avvenuta per merito degli italiani, così come il suo reintegro; anzi, ancora una volta si è rischiato di farsi trascinare da eventi messi in moto da altri, ma l’opportunità di incidere si è presentata nel momento in cui Sarraj ha dovuto appoggiarsi ai suoi tradizionali interlocutori internazionali per difendersi da Bashagha.

La debolezza politico-militare di Sarraj è anche la forza dei suoi sostenitori, in particolare Stati Uniti ed Italia. Senza contare che la visione tradizionale della geopolitica americana – in una sorta di continuità sottotraccia che lega, sotto molteplici aspetti, Trump ad Obama – vede nella Libia il “giardino di casa” dell’Italia e come fumo negli occhi qualunque tentativo turco d’inaugurare una stagione di politica di potenza autonoma dal grande “ombrello statunitense”.

La “soluzione americana” della crisi libica ha molti punti di contatto con gli obiettivi strategici italiani: mantenimento dell’unità del Paese; sicurezza energetica; monitoraggio costante dei processi politici interni. Ecco perché Roma ha necessità di sostenere, senza cercare soluzioni “europee”, l’azione statunitense in Libia. Questa necessità presuppone anche un cambiamento radicale nell’approccio al dossier Libia che finora i governi italiani succedutisi dal Renzi al Conte II hanno avuto: non è il contrasto all’immigrazione clandestina ad essere in cima alle priorità, esso è secondario in quanto l’emergenza potrebbe essere drasticamente combattuta solo garantendo la stabilizzazione della Libia.

La Libia è un affare politico, militare ed economico. L’ordine pubblico e la politica interna italiana non c’entrano – o comunque non dovrebbero – nulla.

Foto: presidency of the republic of Turkey / U.S. Department of State / ministero della difesa