La scarsità di acqua dolce rischia di scatenare nuove tensioni nel Golfo Persico e in Asia centrale

(di Renato Scarfi)
28/07/21

Il grande caldo di questi giorni estivi ha nuovamente attirato l’attenzione dei media sul tema della sempre minore disponibilità di acqua dolce. Mentre la maggior parte degli articoli si sofferma sugli aspetti più immediati del problema, non va sottaciuto che la questione ha anche delicate implicazioni geopolitiche ed economiche.

Le economie del mondo e la nostra salute dipendono, infatti, dalla disponibilità di acqua dolce. Si tratta, quindi, di una risorsa indispensabile alla nostra stessa sopravvivenza e alla sopravvivenza delle società, così come le abbiamo sviluppate.

Le implicazioni per la nostra salute sono ben chiare a tutti. Tuttavia, spesso ai più sfugge la sua importanza per le economie, siano esse a maggioranza agricola o industriale.

Per l’impiego agroalimentare sono, infatti, necessari 214 litri d’acqua per un kg di pomodori, 790 per le banane, 1.850 per la pasta, 2.500 per il riso, 15.000 per la carne bovina e 18.900 per il caffè.

Contrariamente a quanto molti credono, l’industria ne utilizza quantità perfino maggiori, che vanno dai 2.000 litri per un litro di benzina, ai 5.000 litri per una tonnellata di cemento, ai 150.000 litri circa per una tonnellata di acciaio. Per fabbricare una bottiglietta di plastica, in cui si compra l’acqua che poi beviamo, ne sono necessari circa quattro litri, mentre per produrre un telefono di ultima generazione servono quasi 13.000 litri d’acqua. Le nazioni industriali, quindi, consumano molta più acqua dolce delle nazioni agricole.

L’acqua dolce disponibile non è, quindi, impiegata solo per il consumo umano ma una grande percentuale viene utilizzata per le produzioni agricole (82% in Asia, 40% negli USA, 30% in Europa). In un tale quadro si evidenziano Cina e India, che utilizzano fino al 90% della loro disponibilità di acqua dolce per uso agricolo e industriale.

Ai noti motivi di attrito internazionale presenti nel continente africano, nel Vicino Oriente, nel sud-est asiatico e tra India e Pakistan (v. articolo sugli "Aspetti strategici del riscaldamento globale"), già di per sé sufficientemente preoccupanti per le devastanti ricadute che eventuali conflitti potrebbero avere sulle popolazioni delle aree interessate, si aggiunge l’apprensione per le implicazioni che tali eventi potrebbero avere globalmente e, in particolare, per i Paesi mediterranei e per l’Europa in generale, economicamente legata a doppio filo all’area mediterranea.

Recentemente, la minore disponibilità di acqua dolce sta pesantemente colpendo anche regioni che sembrava avessero raggiunto un certo, anche se precario, equilibrio idrico.

Come l’Iran, per esempio. Alle gravi sfide che il nuovo presidente, l’ultraconservatore Ebrahim Raisi, si troverà ad affrontare dopo il suo insediamento, previsto per il 5 agosto, collegate alla pandemia da coronavirus e alla difficile situazione economica derivante dalle sanzioni americane, si è ultimamente aggiunta la grave penuria d’acqua dolce, che ha recentemente innescato intense proteste da parte della popolazione, specialmente nella provincia del Khuzestan, nel sud-ovest del Paese, al confine con l’Iraq.

Anche se non sono da sottovalutare eventuali altri interessi tra le motivazioni delle proteste (la provincia, infatti, è ricchissima di petrolio e fornisce circa l’80% del totale della produzione iraniana), le dimostrazioni hanno creato non pochi grattacapi alle autorità iraniane che, dopo oltre due settimane di disordini (foto), hanno risposto con una violenta repressione da parte delle forze di sicurezza (finora le agenzie iraniane parlano di una decina di morti e oltre 100 arresti).

Da sottolineare che il Khuzestan è l’area dove si trovano le principali risorse idriche del grande Paese asiatico e dove la maggior parte della popolazione vive di agricoltura.

La grave mancanza di acqua dolce, quindi, ha portato all’esasperazione la popolazione, che già vive in condizioni di grande povertà, innescando le proteste di questi giorni.

Secondo il governo le principali cause della crisi sono il dimezzamento delle precipitazioni rispetto alle medie del periodo e l’onda di caldo anomalo, che ha fatto salire le temperature estive anche fino a 50°C, causando una significativa maggiore richiesta di acqua in tutto il Paese. Nonostante ciò la popolazione ritiene che buona parte della responsabilità dell’attuale grave crisi idrica sia da attribuire ai rappresentanti governativi, che hanno voluto la costruzione di alcune dighe sui più importanti fiumi dell’area, allo scopo di deviarne il flusso verso le zone desertiche interne, e privando la provincia della sua principale risorsa.

Secondo quanto riportano alcuni media, il malcontento popolare si è inoltre manifestato, fatto abbastanza insolito e per questo politicamente molto significativo, con inneggiamenti alla morte di Khamenei e alla fine della Repubblica Islamica.

Come ha sottolineato anche Michelle Bachelet, Alto Commissario ONU per i diritti umani, “…invece di ascoltare le legittime richieste dei propri cittadini affinché il diritto all’acqua sia rispettato, le autorità iraniane hanno pensato solo a opprimere quelli che fanno tali richieste. La situazione è catastrofica e va peggiorando. Le autorità devono riconoscerlo e agire di conseguenza. Sparare e arrestare le persone aumenterà semplicemente la rabbia e la disperazione…”1.

In una regione dove l’approvvigionamento di acqua è uno dei temi che già contribuiscono ad accrescere le tensioni internazionali, questo sta diventando anche un argomento interno potenzialmente esplosivo, in grado di innescare dinamiche che potrebbero essere difficilmente controllabili e virtualmente capaci di destabilizzare tutta l’area del Golfo Persico.

Oltre alla crisi idrica iraniana vanno anche considerate le conseguenze della minore disponibilità di acqua dolce in Asia centrale. Gran parte delle immense distese di questa regione, infatti, sono comprese idrologicamente in bacini privi di emissari che consentano il deflusso delle acque (bacini endoreici). In un clima continentale e semidesertico, il fatto che i fiumi concludano il loro corso nei laghi implica che l’estensione di tali bacini chiusi sia determinata dal delicato equilibrio fra il flusso in arrivo e l’intensa evaporazione estiva.

In queste fragili dinamiche si è recentemente inserito il massiccio prelievo per usi agroalimentari e industriali, tale che l’equilibrio idrologico di intere regioni è stato gravemente alterato, rendendo più aride tali aree e facendo addirittura scomparire interi ecosistemi. È noto il caso del lago d’Aral, quasi scomparso nell’arco di una ventina di anni, per effetto del dirottamento delle acque dei suoi immissari per irrigare dei campi di cotone.

Meno noto è il caso del Lop Nor, bacino di raccolta delle acque del fiume Tarim, che ha ormai lasciato il posto a un deserto di sabbie salate e radioattive, dopo che l’area è stata scelta per i test nucleari cinesi.

Sorte analoga al lago d’Aral potrebbe toccare al lago Balkhash, il più grande bacino per estensione dell’Asia centrale e interamente situato in Kazakhstan, ma alimentato principalmente dal fiume Ili, che nasce sulle montagne del Tien Shan, nella regione cinese autonoma dello Xinjang.

Dopo alterne vicende iniziate durante il periodo sovietico che videro, tra le altre, la costruzione del poligono per i test missilistici di Saryshagan, sembrava che le ulteriori opere idrauliche (tra le quali la diga di Kapshagay, per la fornitura di energia elettrica ad Almaty) potessero essere in grado, nonostante il prelievo di acqua, di garantirne la sopravvivenza.

La notevole crescita dei prelievi cinesi dal fiume Ili, per alimentare la coltivazione del riso e del cotone (notoriamente bisognose di molta acqua), sommati all’aumento delle temperature, sta invece riducendo la capacità del lago, facendo prevedere l’insorgere di una grave crisi idrica in piena Asia centrale e la possibile tensione tra Kazakhstan e Cina, che rischia di coinvolgere anche altri Paesi asiatici.

La generalizzata diminuzione della disponibilità di acqua dolce e le perplessità circa alcune gestioni non proprio ottimali delle risorse esistenti rischia, quindi, di sconvolgere le premesse sulle quali oggi poggiano le strutture produttive occidentali, e non solo, e di alimentare le diatribe internazionali tra Paesi confinanti. Chi ha sorgenti sul proprio territorio, infatti, potrebbe essere attirato dall’idea di “assetare” i Paesi attraversati dai fiumi generati nel proprio Paese, allo scopo di ottenere benefici politici o economici, imponendo all’avversario soluzioni radicali a proprio vantaggio. Si tratta, quindi, di trovare al più presto espedienti in grado di allontanare tale pericolosa possibilità. Attendere non può fare altro che drammatizzare ulteriormente la questione.

Il buon senso vorrebbe che tutti accettassero di affrontare questo problema in tutti i suoi aspetti e con spirito di solidarietà. In fondo, tutti i quasi sette miliardi di umani che popolano questo pianeta hanno bisogno delle stesse due cose, davanti alle quali tutto il resto diventa secondario: aria e acqua. Dovrebbero essere ottime ragioni per sedersi attorno a un tavolo e ragionare seriamente.

Nonostante il 70 percento del globo sia ricoperto dall’acqua, quella dolce ne rappresenta solo il 3 percento. Un bene estremamente raro, buona parte del quale deve essere trattato prima dell’utilizzo. Per capire meglio, su 100 litri di acqua presente sulla Terra, l’acqua dolce immediatamente utilizzabile ammonta a solo 0,003 litri, sostanzialmente mezzo cucchiaino da thé.

La storia ci insegna come la disponibilità di acqua dolce e il suo uso sono fattori che influenzano direttamente i rapporti sociali di un Paese, il suo sviluppo economico e i suoi rapporti con gli altri Paesi, e come siano in grado di scatenare feroci dispute, qualora le riserve idriche non siano sufficienti o non ricadano sul territorio di un unico Stato. La sua disponibilità è un prerequisito per l’esistenza della vita e la sua scarsità può far deflagrare contrasti di proporzioni inimmaginabili. Un problema talmente sentito che ha portato alcuni studiosi a dichiarare che, in un prossimo futuro, il petrolio verrà sostituito dall’acqua quale principale causa di conflitto armato tra Stati. Un problema che, anche se generato magari a migliaia di chilometri da noi, potrebbe avere enormi ripercussioni anche sul nostro modello di vita.

C’è ancora tempo per evitare questo rischio, ma a condizione di modificare profondamente certi atteggiamenti.

1 Su Il Post del 26 luglio 2021

Foto:  Ministry of National Defense of the People's Republic of China / Xinhua / Twitter / IRNA / web