La geopolitica sulfurea dell'idealista Henry

(di Gino Lanzara)
08/12/23

L’ascesa, nobilitata dall’eternità, sullo scalone d’onore della politologia, permette raffronti diplomaticamente solo immaginabili in vita e più prudentemente sussurrati nel silenzio interrotto da bisbigli e colpi di tosse delle camere ardenti; quanto profumate di incenso o intrise di zolfo non è dato sapere. Quando Richelieu morì, Urbano VIII, non a caso vicario di Cristo in terra, ebbe a dire che, se ci fosse stato davvero un Dio, l’eminenza rossa avrebbe avuto molto di cui discutere, altrimenti di lui sarebbe comunque rimasto il ricordo di una vita di successo. Se papa Urbano ha indovinato, di un Kissinger quanto mai somigliante al Dottor Stranamore, possiamo immaginare 43 anni di chiacchierate in più rispetto a Duplessis che, in quanto a politica sulfurea non gli è certo stato da meno. un qualcosa di affine al divieto comminato a Ravel ed al suo ipnotico Bolero, vietato la domenica.

Kissinger si è spento da qualche giorno e, mentre scema l’eco di commenti polarizzati, ed in quanto tali di valore relativo, si può celebrare un trigesimo laico che netti dalle scorie della politica le impurità, tagliando via esemplarità e fedeltà impossibili, buone solo per i necrologi spiccioli.

La storia di Henry è da romanzo di appendice: ebreo tedesco riparato nel 1938 negli USA con la famiglia, è arruolato nell’Esercito che in lui, destinato in Germania, scorge capacità poco guerresche, ma che evidenziano intelligenza ed intraprendenza che lo accompagneranno per tutta la sua lunga vita; rientrato negli States accede ad Harvard, dove si laurea summa cum laude. Non è così astruso pensare che l’unico scalino mancante all’ascesa al seggio presidenziale sia stato quello della nascita tedesca, cosa che tuttavia, come nei fumetti lo trasforma in qualcosa di più potente, e maggiormente lo avvicina all’aura cardinalizia di Richelieu, con un sottofondo bavarese che non lo ha abbandonato mai, e che non gli ha precluso la possibilità di servire, direttamente ed indirettamente, 12 presidenti di cui è stato, in alcuni casi, addirittura più potente, ricoprendo contemporaneamente i ruoli di segretario di Stato e consigliere per la sicurezza nazionale. Per Kaplan, Kissinger è il più grande statista bismarckiano del XX secolo.

Scientificamente, il peccato capitale è quello di non riuscire a scorgere gli aspetti razionali per poter giungere ad una valutazione oggettiva. Non è mai stato molto avveduto discernere il tutto in termini empatici, men che meno verso uomini al loro tempo ben consci di aver esercitato potere, un potere assimilato da Kissinger, parafrasando Napoleone, ad un afrodisiaco. Forse più di un Presidente, contestualizzando tempi e contingenze, avrebbe fatto meglio a non sottovalutare i pareri di Henry soffermandocisi un momento di più, alla Duplessis, anche perché poi, dinanzi all’immediato giudizio geopolitico, non si è assistito in tempi più recenti a chissà quali performance, specialmente tra Mediterraneo ed Indo Pacifico. La stessa contestualizzazione porta dunque a comprendere, non a giustificare, le politiche perseguite in America Latina, vista dall’establishment americano come un possibile antemurale sovietico nel giardino di casa, una reprise della politica kennedyana con Cuba.

Ricevuto come un capo di stato da Xi Jinping, Kissinger è stato ostracizzato dall’amministrazione patria che, nella sua House of Cards, non si è però fatta scrupolo nell’andarne a raccoglierne pareri ed impressioni. Probabilmente in molti non hanno colto il richiamo kissingeriano a Metternich, all’arte della manipolazione, alla sua idea di equilibrio di potere e di non interferenza negli affari interni altrui, secondo i precetti della realpolitik, con una propensione ad un’apparente irrazionalità ed alla filosofia che, al tempo dell’ennesima rivoluzione permanente, voleva essere l’unico strumento utile a salvare l’universalità delle idee dall’oggettività del momento; un’abilità che gli ha permesso di uscire indenne dall’affaire Watergate1.

La prima immagine di Kissinger è dunque quella di un realista, versato per l’analisi delle relazioni e dei rapporti di forza tra egemoni, e impietosamente sottile con le pedine sacrificabili. Malgrado tutto, sia pur in nuce, nel pensiero di Kissinger rimane un alone di idealismo, mutuato dalla sua tesi di laurea ed indirizzato a quella pace, perpetua ed impossibile, di marca kantiana. Non a caso N. Ferguson descrive il Kissinger del periodo 1923-1968 come un “idealista kantiano (piuttosto che) realista machiavellista”, mentre per J. Hanhimäki era un “tattico eccellente e uno stratega imperfetto”.

Pronto a correggere i propri errori di fronte alla prova della realtà, fautore della creatività della politica a fronte della routine della burocrazia, Kissinger è appartenuto alla scuola realista di Morgenthau, ma si è ispirato a Tucidide, Machiavelli, Hobbes, Metternich, ed è riuscito nei pochi anni di politica attiva con Nixon e Ford, a lasciare un segno; cinicamente, per reagire al declino americano e disimpegnarsi da un teatro ormai perduto, ha intavolato trattative di pace con Hanoi pur conscio di abbandonare ad un destino atroce gli alleati del Sud e ricevendo per questo, nel 1973, un contestato premio Nobel per la pace, malgrado il coinvolgimento della Cambogia, destinata così al girone infernale dei Khmer rossi di Pol Pot; in quei momenti mentre Kissinger aveva una visione adattabile al contesto, Nixon possedeva il pragmatismo.

L’accordo di pace con il Nord diventa di fatto una sorta di fictio, dato che Hanoi si impossessa del Sud appena due anni dopo l fine del conflitto; è del resto anche vero che Kissinger e Nixon hanno ricevuto il legato vietnamita da Johnson, ben sapendo fin dapprincipio che sarebbe toccato a loro gestire il ritiro statunitense, una storia a stelle e strisce che si ripete ciclicamente.

Di fatto la strategia kissingeriana si dissolve quando il Congresso interrompe gli aiuti a Saigon; tra i voti quello di un senatore destinato per contrappasso a gestire un altro ritiro, Joseph Biden. Realisticamente, il sacrificio del Vietnam si è reso necessario per permettere l’apertura alla Cina, mossa che ha allontanato Pechino dall’orbita di Mosca e disposto le basi geopolitiche necessarie alla successiva debacle sovietica.

Diversa la sorte per Taipei, visto che la politica dell’engagement clintoniano verso Pechino, ha contribuito a determinarne la ribollente eredità politica, lungi dall’essere sopita. Significativa la decisione di iniziare il dialogo tra Israele ed Egitto che, sotto l’egida Carter, ha portato a Camp David, alla riapertura di Suez e all’affermazione egemonica americana in Medio Oriente, una presenza quanto mai pencolante come un aquilone tra Palestina, Tel Aviv e Riyadh. A ben vedere la storia si ripete; 50 anni fa Egitto e Siria hanno sorpreso Israele alla stregua di Hamas tanto da indurre Kissinger e Nixon da un lato ad assicurare il necessario sostegno militare premendo tuttavia al contempo su Tel Aviv perché non abusasse del leverage militare per evitare altri coinvolgimenti, cancellando ogni possibilità diplomatica successiva. 

Già nella sua tesi di dottorato2 Kissinger ha introdotto il concetto di legittimità equamente distribuita con la forza, principio vincolato ad un ordine internazionale accettato da tutti gli egemoni, dove il primato della politica estera rispetto alla diplomazia dà dignità all’assunto per cui, finché i decisori intendono accettare l'ordine internazionale, questo diventa legittimo, con un contestuale accantonamento della morale, a patto che tutti i protagonisti che hanno forza sufficiente per contare siano inclusi nell’ordine internazionale; alcuni storici hanno ipotizzato che amoralità e genio strategico siano stati sopravvalutati, come è forse solo aneddotico il suo desiderio di apparire un Metternich regalato ad un Paese così tanto più giovane ed idealista e non avvezzo alla legge della politica di potenza; un paese in cui integrarsi per volgersi al perseguimento del suo interesse. Di fatto, le asperità dell’ordine attuale stanno soprattutto nelle variazioni dei principi di legittimazione degli assetti politici.

Insomma, Henry è un europeo americanizzato, il campione di un realismo spesso andato contro le opinioni correnti di campioni come Morgenthau, Mearsheimer, Kennan; l’interprete, sulla breccia, di un momento in cui era necessario che qualcuno desse forma alla politica internazionale americana. Del resto, secondo il segretario di Stato, la politica estera statunitense, per avere successo, avrebbe dovuto fondere il realismo con gli ideali americani che rifiutano la ragion di stato come principio della politica estera e che vedono il legalismo al di sopra della geopolitica. Il suo geniale cinismo ha fatto sì che Henry stesso rappresentasse il punto di giunzione tra etica e stato di necessità delle relazioni internazionali, bisognose della conoscenza del contesto storico senza cui la diplomazia non può ottenere risultati, una vulnerabilità prettamente americana.

Se Kissinger, ispirandosi al Congresso di Vienna, cercava un sistema collettivo capace di preservare la pace, non si è però curato di spiegare come arrivarci; solo grazie all’individuazione di un punto di equilibrio è possibile raggiungere un ordine fondato su norme e risorse, un ordine infranto dal venir meno del consenso all’ordine internazionale.

Per Kissinger, quando l’equilibrio di potenza rimane irraggiungibile, il bilanciamento della minaccia rimane unico, anche perché equilibrio di potenza diventa un ossimoro, visto che le potenze si bilanciano con la guerra; quello che manca è una forma credibile di leadership, argomento approfondito in uno dei suoi testi, dove riprende sei figure politiche eminenti del XX secolo3, capaci di elevarsi, plasmandole, al di sopra delle contingenze storiche, in grado di apprezzare il passato ed immaginare il futuro. In loro Kissinger rivede sé stesso, un proveniente dalle classi inferiori dedito allo studio umanistico, visto realmente carente, dove la geopolitica catalizza le conoscenze e mette in relazione i soggetti per giungere ad una visione organica del tutto; un accademico premiato da un sistema meritocratico imperniato su valori nazionali ora sfocati da mode e oblio.

Come molti diplomatici Henry non ha propriamente mentito, ma ha detto altre verità per il suo paese, agendo oltre limiti usualmente concepiti, ma è sul rapporto tra valori, interessi ed uso della forza che vanno letti realpolitik ed idealismo in cui ha miscelato la comprensione del sapere storico con il sapere pratico portando alla ribalta originalità eclettica e prospettive inedite entro cui difendere l’autonomia della politica anche in stato di anarchia4. Rimane dunque sempre rilevante la teoria di Metternich plasmata sul principio dell’equilibrio tra gli Stati, qualcosa di diverso dalla sovranazionalità funzionalista della UE, illusa di poter transitare da entità economica a soggetto politico stretto da un lato dalla polarizzazione USA-Cina, e dall’altro dal multipolarismo regionale e del Global South.

Non è nemmeno così astratta l’idea per cui la politica di Kissinger abbia favorito l’arrivo sulla scena dei neocon oltrepassando il realismo e proponendo un inedito eccezionalismo in grado di plasmare la realtà nel contrasto tra essere e dover essere5 ; insomma, un idealista in nuce ed un realista sui generis che, dopo aver assistito alla liberazione di un campo di concentramento tedesco ammette di non riuscire a vedere il mondo se non per sfumature di grigio e dove la verità laica è relativa.

Kissinger è stato una figura polarizzante da esaminare con il suo stesso cinismo, valutandolo nel merito, considerando il fatto che non è riuscito a cogliere il cambiamento dei tempi.

Quale politico più realista del re, Kissinger è stato convinto che l’unico motore capace di sospingere la politica estera fosse l’interesse nazionale volto all’egemonia; una visione razionale ma limitante, dove il realismo si muta in cinismo, e dove né il sistema internazionale è riuscito a stabilizzarsi né le posizioni americane a rafforzarsi, tanto che una delle chiavi di lettura del successo presidenziale di Jimmy Carter è risieduta nel desiderio americano di riacquisire etica e moralità dopo il Watergate, pur avendo Henry contribuito ad aprire la crepa della distensione in campo sovietico secondo un pragmatismo che gli è sopravvissuto e che ha consigliato Reagan nel non esacerbare, al di là della retorica, tensioni capaci solo di limitare l’azione politica di Washington.

Alla fine delle fini, più dell’eredità dello statista vale l’eredità intellettuale, l’importanza della storia, il valore dell’ordine, quello legittimo dell’equilibrio tra egemoni non quello rivoluzionario, uno sbilanciamento che ha suggerito entente cordiale, non competizioni, grazie a cui auspicare di vedere una Cina non democratica ma comunque junior partner di un Paese non più in grado di mantenere l’ordine da solo6; è qui che si è manifestata la sua capacità geopolitica, nel contemperare la conoscenza accademica dello storico con l’esperienza dell’uomo di potere convinto del valore del diritto e del commercio in luogo della guerra, considerando il punto di vista terzo secondo equilibri che riempiano i vuoti venutisi a creare, cosa non avvenuta in Iraq.

Al di là della valutazione da stadera tra successi e fallimenti, rimane una proiezione del pensiero politico che ambisce a bilanciare isolazionismo e ingerenza, in momenti in cui, come ricorda ora Lloyd Austin, il mondo continua a guardare ad un’America viva e partecipe, capace di reagire alla politica del divide et impera evitando debacle come quella afghana, dove il costo dell’abdicazione soverchia sempre quello della leadership.

Rimanendo nel campo geopolitico e della longevità indotta, è interessante leggere il capo dell’Office of Net Assesment del Pentagono, Andrew W. Marshall, altrimenti detto Yoda, amante dell’indipendenza dalla burocrazia e dal potere, capaci solo di corrompere l’analisi, strumento esclusivo di diagnosi. Non a caso Yoda praticava assesment relazionali con l’intento di comparare, immedesimandosi, i rapporti di forza privilegiando la storia con fare scettico e guardando lontano non considerando nulla come definitivo ma inducendo e non deducendo soluzioni. Per lui l’analista guarda oltre l’orizzonte perché si occupa di strategia. Se si considera che nel ’72 Marshall è entrato al Pentagono su proposta di Kissinger per disporre di analisi olistiche e veritiere, si comprende meglio l’idea operativa dello scettico Henry, un geopolitico avvolto dal concreto e dal presente, non da assolvere, certo, ma tuttavia da comprendere.

1 Kissinger, Segretario di Stato e Guardasigilli dal settembre 1973, gestì le dimissioni di Nixon, l’ascesa di Gerald Ford e la sconfitta repubblicana nelle elezioni di medio termine del novembre 1974.

2 Peace, Legitimacy, and the Equilibrium (A Study of the Statesmanship of Castlereagh and Metternich)

3Leadership. Six Studies in World Strategy Konrad Adenauer, Charles de Gaulle, Richard Nixon, Anwar Sadat, Lee Kuan Yew, Margaret Thatcher

4 È il tema alla base del suo lavoro dottorale pubblicato nel ‘57, A World Restored: Metternich, Castlereagh and the Problems of Peace 1812-1822, a cui ha dedicato nel 2014 il suo libro, World Order.

5 Citato da lui stesso e da Nixon

6 A proposito dell’Ucraina nel 2022 ha raffreddato il convincimento di una sconfitta russa, temendo un congiungimento sino russo in chiave antagonista anti americana. In Diplomacy afferma: gli Stati Uniti non possono né ritirarsi dal mondo né dominarlo.