Il dilemma della battaglia di Gaza

(di Filippo Del Monte)
16/10/23

Fin dalle prime ore dell’operazione Al-Aqsa Flood, condotta da Hamas in territorio israeliano, era chiaro che la reazione di Tel Aviv, una volta sgomberate le forze palestinesi dai kibbutz alla frontiera con la Striscia di Gaza, sarebbe stata orientata alla sconfitta definitiva del nemico.

Per sconfiggere Hamas, trasformandola in un attore non più in grado di nuocere alla sicurezza di Israele, l’IDF non ha altra possibilità se non quella di entrare in forze nella Striscia di Gaza e combattere in città come Gaza City, Deir al-Balah, Khan Yunis e Rafah. L’area d’operazione non può essere, infatti, circoscritta esclusivamente alla zona settentrionale della Striscia, ma deve comprendere l’intero lembo di territorio palestinese oggi amministrato da Hamas.

Operazioni militari di tipo “chirurgico” non possono essere ammesse se si vuole dar credito alle parole del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, che ha annunciato l’inizio di una guerra lunga. La situazione, diversa rispetto agli anni precedenti, in cui non basta più un rapido blitz oltrefrontiera e con il rischio dell’estensione regionale del conflitto, ha riportato le lancette al 1948 e alla guerra del Kippur del 1973, viene affrontata con modi nuovi e richiede anche soluzioni politiche nuove. Ma è chiaro che le vicende legate ad Al-Aqsa Flood ed alla prossima risposta armata israeliana portino con sé anche problemi sotto certi aspetti “nuovi”, che stanno emergendo già con i bombardamenti aerei e d’artiglieria condotti dall’IDF.

Parte del dibattito interno ad Israele, mentre i corazzati con la Stella di David sono schierati al confine con la Striscia di Gaza, è proprio incentrato sugli strascichi politici che l’attacco senza precedenti di Hamas e la (ormai prossima) risposta armata di Israele lascerà nella regione.

Una volta entrati nella Striscia di Gaza, gli israeliani si troveranno dinanzi al leniniano dilemma del “che fare?” relativo al futuro di questa porzione di Palestina. Occuparla? Se sì, anche a fronte dell’aperta contrarietà di Washington? Per quanto tempo? Condurre semplicemente un’operazione chirurgica? Non sembra essere questo il caso.

Nel frattempo in Cisgiordania la tensione sale e le questioni politiche poste dai coloni (che hanno svolto un ruolo fondamentale nella difesa dei kibbutz e degli altri insediamenti nelle prime ore dell’attacco di Hamas, quando l’esercito sembrava quasi “paralizzato” di fronte all’emergenza e l’intelligence colpita dall’effetto sorpresa), che portano avanti una agenda “radicale”, sono al centro di importanti discussioni. L’agenda politica dei coloni, che già contava molto per il governo di Tel Aviv, tornerà ad essere prioritaria adesso che la tensione nei territori palestinesi sta aumentando.

Così come i rischi di escalation con il Libano di Hezbollah e l’Iran sono dietro l’angolo. Gli scambi di razzi e colpi d’artiglieria tra israeliani e miliziani di Hezbollah, ma anche i bombardamenti contro infrastrutture militari libanesi condotte dagli elicotteri dell’IDF, rendono evidente quanto sia labile il confine tra conflitto latente e guerra aperta alla frontiera settentrionale dello Stato ebraico, così come non è in dubbio il fatto che Teheran abbia l’intenzione di portare avanti una proxy war (della quale, per un particolare caso di scuola, non nasconde di essere mandante) contro Tel Aviv. L’Iran ha, anzi, minacciato chiare ritorsioni qualora l’IDF decida di varcare il confine con la Striscia di Gaza. È questo il segnale inequivocabile, assieme alla presenza del gruppo da battaglia statunitense guidato dalla USS Gerald Ford nel Mediterraneo orientale, ed all’annuncio dell’amministrazione USA di voler inviare una seconda portaerei nell’area, della “regionalizzazione” di una guerra che avrà sempre risvolti internazionali e non potrà mai restare confinata entro quel lembo di territorio chiamato “Terra Santa”.

Ma il ritmo della diplomazia e del tintinnio di sciabole accelererà o diminuirà a seconda delle scelte che il governo di Tel Aviv farà per condurre la propria offensiva su Gaza. È un raro esempio di come persino la tattica militare possa influire sulla “grande politica”.

La Striscia di Gaza, estesa per 140 miglia quadrate, ospita 2 milioni di abitanti, ed è uno degli agglomerati più densamente popolati nel mondo, almeno per quanto concerne Gaza City, con novemila residenti per chilometro quadrato. Nel corso della storia recente, città con una densità abitativa similare, sono state teatro di importanti battaglie e sono state utilizzate dai difensori per frenare l’avanzata – già prevista come rallentata nel momento in cui si pianifica un combattimento urbano – del nemico. Casi del genere sono quelli di Baghdad nel 2003, che hanno coinvolto talebani ed esercito statunitense, Fallujah nel 2004, tra miliziani di al-Qaeda e anglo-iracheno-americani, Mosul, tra iracheno-curdi e Stato islamico, e Marawi, tra esercito filippino e Stato islamico, entrambe nel 2017, e gli esempi più recenti delle battaglie di Kiev e Mariupol, nel 2022, durante la guerra russo-ucraina in corso.

L’ambiente di Gaza non è troppo diverso rispetto a quello delle battaglie sopra elencate. Occorre, però, rilevare come a Gaza l’esercito israeliano possa andare incontro a rischi nuovi rispetto al passato, anche per la migliore organizzazione e le accresciute capacità tattico-operative di Hamas. Innanzitutto la presenza di una vasta rete di tunnel sotterranei potrebbe causare problemi alle truppe israeliane, con i miliziani palestinesi che punteranno molto sulla rapidità negli spostamenti, la creazione di superiorità numerica in punti specifici, a combattimento in corso, e combattimento ravvicinato, attraverso l’utilizzo di punti strategici fortificati individuati principalmente negli edifici.

Inoltre, Hamas utilizzerà la popolazione civile come “scudo” per proteggere le proprie postazioni dagli attacchi israeliani. La libertà di aprire il fuoco, determinata dall’annullamento di qualunque regola d’ingaggio da parte dei vertici delle forze armate di Tel Aviv per i soldati che saranno impiegati a Gaza serve proprio ad evitare che la presenza di obiettivi civili sul terreno consenta ad Hamas di portare attacchi indisturbati contro l’IDF.

Altro capitolo è quello degli attacchi contro carri armati e blindati israeliani nelle vie di Gaza. L’IDF sarà obbligato a mandare avanti i corazzati, seguiti dalla fanteria, per sgomberare il terreno. Ma il rischio concreto è che i palestinesi possano comunque infliggere forti perdite alla “cavalleria” israeliana tramite missili anticarro guidati Malyutka (Urss), Konkurs (Urss), Fagot (Urss) e Kornet (Russia) e lanciarazzi anticarro come l’RPG-7 (Urss) ed il più moderno RPG-29 (Urss). Sono armi già utilizzate dalle milizie di Hamas e del Movimento per il Jihad Islamico Palestinese nel 2014, quando le truppe israeliane entrarono per l’ultima volta a Gaza, nell’ambito dell’operazione “Protective Edge” (8 luglio-26 agosto 2014), ancora presenti negli arsenali delle forze palestinesi.

Ultimo elemento da tenere in considerazione è quello della guerra di razzi e droni, che anche John Spencer, del Modern War Insititute, ha voluto evidenziare. Rispetto agli anni passati, oggi Hamas dispone di droni suicidi, utilizzati anche durante l’operazione Al-Aqsa Flood, con ampio spazio riservato a queste azioni dagli stessi media ufficiali del gruppo terroristico, con caratteristiche simili ai droni iraniani HESA Shahed 136, utilizzati anche dall’esercito russo in Ucraina con il nome di Geran-2. La principale caratteristica di questi droni è che essi possono essere utilizzati per rapide azioni, montati su qualunque piattaforma mobile, non solo militare ma anche civile, come il loro impiego sul campo in Yemen da parte delle milizie Huthi ha dimostrato. Si tratta, quindi, di sistemi estremamente adatti a condurre sia operazioni di guerra asimmetrica, sia scontri in “ambiente chiuso” come può essere una città.

Per quanto concerne l’arsenale missilistico a disposizione di Hamas, oltre ai noti vettori a corto raggio Qassam-1, Qassam-2 e Qassam-3, oltre al Badr-3 ideato dal Movimento per il Jihad Islamico Palestinese nel 2019, i gruppi terroristico-militari palestinesi a Gaza dispongono anche di quelli a medio raggio come il sovietico BM-21 Grad e gli iraniani Fajr-3 e Sejjil-55, o quelli a lungo raggio Qassam-75, J-90, l’iraniano Fajir-5, l’R-160, il siriano Kahibar-1 M302 e l’Ayyash-250. Molti dei missili in questione sono stati progettati e costruiti direttamente dagli esperti di Hamas, altri, come si è visto, provengono dagli arsenali iraniani e siriani o provenienti dalle scorte di Hezbollah. L’R-160 e l’Ayyash-250 sono, secondo gli esperti dell’International Institute for Strategic Studies di Londra, i missili che, auto costruiti direttamente a Gaza, mostrano i più evidenti progressi dell’ingegneria balistica di Hamas. Entrambi sono missili a lungo raggio, quindi inutilizzabili in uno scontro urbano. Per la prima volta, inoltre, Hamas ha schierato sul campo il suo sistema antiaereo a corto raggio, Mubar-1.

Da come l’IDF sceglierà di affrontare sul campo queste minacce dipenderanno l’evoluzione del conflitto con Hamas ed i principi di escalation in atto sia in Cisgiordania – dove, tra l’altro, si gioca anche la partita interna al movimento palestinese tra ANP-Fatah e il gruppo radicale composto da Hamas, Fossa dei Leoni e Jihad Islamico Palestinese – sia a livello regionale con l’Iran. La scelta di “liberalizzare” il fuoco dei militari israeliani nella futura operazione su Gaza serve a colpire il più rapidamente ed in profondità possibile la struttura militare di Hamas, evitando di allungare di troppo la battaglia, fino a costringere Israele a recedere dal suo piano iniziale per le pressioni internazionali.

Sotto questo aspetto l’allentamento del blocco di Gaza, con la riapertura del valico di Rafah da parte dell’Egitto su pressione statunitense, non giova a favore della strategia israeliana. Ma l’ipotesi di un conflitto lungo, come già spiegato sia da Netanyahu che dai vertici delle forze armate, è tenuta in aperta considerazione dallo Stato di Israele. Quel che conta non è dover mantenere una forza militare, anche di grosse dimensioni (nel 2014 l’IDF impiegò tre divisioni per una operazione limitata nel tempo e che già si era annunciata come tale), a Gaza, ma evitare, con una azione rapida che disarticoli militarmente Hamas ed i propri alleati in breve tempo, di ampliare i confini della guerra.

Immagine: IDF