Il consenso, quello perso, e la sua ricerca

(di Enrico Magnani)
18/08/22

Tra la seconda metà di luglio e gli inizi di agosto oltre una trentina di persone sono decedute (tra essi due militari marocchini e due poliziotti indiani) nel corso di incidenti molto violenti che hanno opposto civili delle Republlica Democratica del Congo (RDC) e ‘caschi blu’ della MONUSCO (Mission des Nations Unies pour la Stabilisation au Congo). I civili locali chiedevano a gran voce che le truppe dell’ONU lasciassero il paese e hanno attaccato diverse installazioni. La violenza e l’estensione degli incidenti lascia sospettare comunque che si trattasse di ben di più di iniziative spontanee e scoordinate. Questi incidenti mettono in evidenza le profonde crisi di consenso e legittimità di queste operazioni.

La MONUSCO – ha il debole consenso del governo per operare e esercitare la forza, ma non è riuscita a costruire legittimità e consenso tra le persone comuni, quelle più colpite da un conflitto interno e internazionale iniziato dalla fine del regime del maresciallo/presidente Mobutu nel 1997 e non ancora risolto.

Il governo di Kinshasa ha cercato di far partire la missione dal 2010 e l'ONU ha iniziato a ritirare la missione dal 2020, con un piano che dovrebbe proseguire lentamente, anche in considerazione della situazione instabile dell’est dell’immenso paese, l’elevato numero di militari coinvolti e le enormi installazioni logistico-operative. I manifestanti, nel frattempo, affermavano (e affermano tuttora) di volere che l'ONU se ne vada perché non è riuscita a proteggere i civili e garantire la pace.

A testimonianza di un clima divenuto tesissimo, dopo gli incidenti, un reparto dell’ONU, confrontato da una pacifica manifestazione di protesta dei civili, apriva il fuoco su essi uccidendone 2 ferendone olte una dozzina. Il fatto, piuttosto grave, ha imbarazzato New York e ha dato vigore alle richiesta del governo di Kinshasa per accellerare la fine della missione.

In realtà la MONUSCO, erede dalla MONUC, schierata a partire del 1999, è una entità in continua evoluzione, avendo modificato, anche pesantemente il suo mandato nel corso degli anni, sempre con lo stesso obiettivo: coooperare con il governo locale, contribuire alla protezione della popolazione civile, proteggere i profughi dalle violenze dei gruppi armati dell’est, disarmare questi ultimi (attraverso una speciale entità della missione, la Force Intervention Brigade istituita nel 2017, sebbene dopo molti tentennamenti), migliorare il dialogo politico interno.

Molte promesse pochissimi risultati

Il presidente Felix Tshisekedi, eletto nel 2019, ha un atteggiamento ambiguo nei confronti della MONUSCO, le sue forze armate e di sicurezza non sono in grado di fronteggiare le minacce esterne e interne nell’est, quindi necessita dei ‘caschi blu’ ma vuole ridurne la presenza al minimo necessario e ha grossi problemi di legittimità interna, cosa che rende ancora più difficile il dialogo con l’ONU poco disposta ad apparire, anche indirettamente, un sostegno per politiche interne (ed elettorali) ambigue.

Agli inizi di agosto il Consiglio di Sicurezza si è riunito per consultazioni dopo gli incidenti e il sottosegretario generale per le operazioni di pace, il diplomatico francese Jean-Pierre Lacroix ha informato il Consiglio in merito alla sua visita del 28-29 luglio a Kinshasa, dove ha incontrato alti funzionari congolesi e personale delle Nazioni Unite nel Paese. L'incontro, voluto dall'India, si è tenuto nel mezzo di accresciute tensioni tra la RDC, Ruanda e Uganda, accusate da Kinshasa di attività ostili nella regione orientale del Kivu attraverso sia l’infiltrazione di forze militari regolari, che nel sostegno a gruppi armati locali, entità oscure quali l’M23 a ADF (Allied Democratic Forces) implicate nello sfruttamento delle terre rare, diamanti e altro di cui la regione orientale è ricchissima.

Ma il rapporto tra l’ONU e gli Stati ospiti è incrinato anche altrove

In Mali, il consenso del governo per la MINUSMA (Missione di stabilizzazione integrata multidimensionale) è parimenti debole; il governo di Bamako aveva interrotto per un intero mese l’autorizzazione alla rotazione delle truppe per la missione e riattivarla alla metà del mese di agosto, con il risultato, ampiamente atteso, di accellerare il rientro dei altri contingenti di ‘caschi blu’, in questo caso quelli tedeschi. Inoltre espelleva il vice portavoce della missione (subito dopo gli incidenti in RDC, il governo di Kinshasa faceva lo stesso).

La missione attivata nel 2013, dal 2020, a seguito di un colpo di Stato naviga in cattive acque, sempre più mal sopportata dalla giunta militare, che prossima a Mosca, è riuscita ad accellare la partenza delle truppe francesi della operazione ‘Barkhane’, quelle della missione multinazionale europea ‘Takuba’ e quelle della missione di addestramento della UE, la EUTM-Mali.

Il recente dibattito al Consiglio di Sicurezza dell’ONU sul mandato di rinnovo della MINUSMA inizialmente si è bloccato sulla libertà di movimento nel paese e su come gestire il denunciato aumento delle presunte violazioni dei diritti umani da parte delle forze armate maliane e la presenza dei contractor russi della Wagner. I ‘caschi blu’ in Mali oggi operano in un contesto politico per il quale il loro mandato non è adatto, con un beneficio decrescente per la popolazione civile e con grande rischio per se stessi: per otto anni consecutivi, MINUSMA è stata la missione più letale al mondo tra le operazioni dell’ONU in quanto a caduti tra i suoi ranghi militari. Le proteste nella RDC sottolineano come il consenso delle popolazioni, e non solo dello Stato, sia centrale per il lavoro efficace delle operazioni di pace delle Nazioni Unite, mentre le turbolenze sui termini del dispiegamento di MINUSMA evidenziano come le questioni politiche, il non appropriato e contestualizzato esercizio della forza, rimangano al centro del dibatitto di come concepire e condurre le operazioni di pace.

Se gli Stati membri (quali? E su questo bisognerebbe aprire un serio dibatitto...) delle Nazioni Unite vogliono che le operazioni di mantenimento della pace multidimensionali sopravvivano, dovrebbero autorizzare operazioni di pace che creino consenso e sostegno per la pace e per la loro presenza e obiettivi a più livelli - incluso lo Stato e le sue popolazioni - e redigere mandati che siano ancorati a processi politici significativi e sensibili al contesto che centrino obiettivi diplomatici e umanitari.

Le operazioni di pace delle Nazioni Unite sono lo strumento contemporaneo più importante per la gestione multilaterale dei conflitti in tutto il mondo e storicamente si sono distinte da altri tipi di interventi militari aderendo a tre principi fondamentali quali il consenso delle parti; l’imparzialità e l’uso limitato (e appropriato) della forza.

MONUSCO e MINUSMA, così come MINUSCA, la missione delle Nazioni Unite nella Repubblica Centrafricana (CAR), sono operazioni di pace di ampie dimensioni con mandati di stabilizzazione, raccolgono il grosso dei ‘caschi blu’ schierati un tutto il mondo, ma sono al centro di crescenti pressioni interne ed esterne che fanno intravedere come prossima la loro fine, o nel migliore dei casi un loro ridemnsionamento. A differenza delle vecchie missioni che si concentrano sul mantenimento degli accordi di pace tra le parti in guerra, MONUSCO, MINUSMA e MINUSCA sono tutte incaricate di aiutare il governo statale a gestire gli sfide interne violente e ad affermare il proprio primato, riflettendo il drammatico cambio della natura dei conflitti emersi dalla fine della Guerra Fredda, dove i conflitti predominanti sono quelli intrastatali a discapito, sinora, di quelli interstatali. In queste missioni, l'ONU sta intervenendo esplicitamente dalla parte dello Stato e le forze di pace sono state accusate di usare la forza in difesa dell'autorità statale, carente di legittimità. Ma le operazioni di pace che intraprendono un'azione militare offensiva (applicando il capitolo VII della Carta dell’ONU) sfidano i principi di imparzialità e l'uso limitato della forza, lasciando solo il consenso per distinguere le operazioni delle Nazioni Unite da altri tipi di interventi militari.

Il consenso è fondamentale

Tradizionalmente, il consenso si basa sull'approvazione del governo ospitante, anche quando lo Stato stesso che viene soccorso dall’azione dell’ONU è un notorio violatore dei diritti umani (ma anche di quelli economici e sociali) della sua popolazione.

Mentre la MONUSCO oggi opera ancora con il consenso del governo congolese, appare chiaro che la popolazione civile è poco favorevole alla presenza dei ‘caschi blu’ e questo soprattutto nella ribollente regione orientale, dove enermi ricchezze naturali, interessi di dei paesi confinanti rendono l'area esplosiva. La missione non è riuscita ad affrontare i problemi di sicurezza delle popolazioni civili nell’est e per decenni (la MONUC, la missione che ha preceduto la MONUSCO ha iniziato ad operare schieramento nel 1999 [sic]) si sono visti ruotare migliaia di soldati da mezzo mondo ma nulla è cambiato sul campo. Inoltre il comportamento dei soldati internazionali nei riguardi della popolazione civile che dovrebbero proteggere dalle violenze è talmente deprecabile che aperto ferite profonde a causa di abusi gravi e prolungati e che possono essere facilmente strumentalizzati da chi vuole indirizzare contro l’ONU una popolazione esasperata.

Quale aspirazione generale, gli interventi delle Nazioni Unite sono intrapresi al servizio delle persone, non solo degli Stati. In un'interpretazione, un intero corpo di obblighi internazionali discende dalla dichiarazione iniziale della Carta delle Nazioni Unite secondo cui i popoli, non gli Stati, stipulano un patto per salvare le generazioni successive dal flagello della guerra. In questa interpretazione, il mandato delle Nazioni Unite non riguarda semplicemente la difesa della sovranità statuale e delle preferenze degli Stati membri, ma riguarda la sicurezza, la dignità e la protezione delle persone, idee che si riflettono nel mandato di proteggere i civili che ogni missione multidimensionale autorizzata dal 1999 ha ricevuto dal Consiglio di Sicurezza. In pratica, sia gli attivisti locali che gli studiosi hanno sostenuto che la pace si radica solo quando gli attori internazionali investono nelle comunità locali e quando le soluzioni politiche che centrano le preoccupazioni della popolazione locale hanno modo e maniera per svilupparsi.

Le missioni incentrate sulla sicurezza dello Stato anziché sulla volontà e sulla sicurezza delle persone rendono rendono esplicitamente le forze di pace un'altra potenziale fonte di instabilità in aree già piene di minacce per la gente comune. Questa versione più cartolarizzata e coercitiva delle operazioni di pace va contro la visione del mantenimento della pace e della costruzione della pace delle Nazioni Unite che sottolinea il "primato della politica". Le missioni in Mali, RDC e CAR, d'altra parte, agiscono con il consenso esplicito dello Stato ospitante al fine di sostenere ed estendere il potere della nazione spesso lavorando a fianco delle forze statali per contrastare i gruppi che quello stesso ha identificato come ribelli.

In Mali, la sostenibilità di MINUSMA era in discussione molto prima dei colpi di Stato militari: come osservava il rapporto del segretario generale dell’ONU del 2018, un'analisi indipendente di quell'anno concludeva che la missione “si trovava di fronte a un dilemma tra la necessità di riformare e ricostituire le forze di difesa e di sicurezza maliane e contemporaneamente sostenere le forze esistenti nell'affrontare l'attuale situazione di stabilità”, e che solo un “quadro politico regionale chiaro” renderebbe realizzabili gli obiettivi della missione.

Oggi, come si è visto, la missione non può muoversi liberamente; non può indagare su presunte violazioni dei diritti umani; solo dopo un mese di sospensione avvicendare le truppe; infine mentre sulla carta esiste un processo politico sottostante, nella pratica è vuoto. Inoltre, l'instabilità degli accordi di sicurezza regionale solleva ulteriori interrogativi sulla capacità della missione di attuare il proprio mandato.

La MINUSMA dipendeva massicciamente dalle operazioni antiterrorismo francesi, europee e africane nel Sahel, che avevano costituito una architettura unica di forze esterne con oltre 21.000 soldati dispiegati in tutta la regione. Questa architettura è in mutamento, essendosi dimostrata inefficace e ampiamente impopolare (bisogna ammettere che la narrativa di certi media sul benvenuto da parte delle popolazioni locali per le forze internazionali, ovunque esse si trovino, è una leggenda alimentata a fini di politica interna da parte di molti Stati che partecipano a quelle operazioni per renderle accettabili alle proprie opinioni pubbliche). Inoltre gli stessi Stati che invitano formalmente l’ONU a dispiegarsi, molto spesso non hanno altra scelta e molti governi non vedono di buon occhio che militari stranieri circolino liberamente sul proprio territorio.

Il Mali non è il primo Stato ospitante ad essere così apertamente ostile nei confronti delle forze di pace. Forse l'esempio più noto è l'operazione delle Nazioni Unite in Sudan nei primi anni 2000, compiuta senza il consenso del governo sudanese, che fatto di tutto per sabotarne il lavoro e la libertà di movimento. Eppure il mandato di stabilizzazione del Mali da parte della MINUSMA rende la situazione insolita: i ‘caschi blu’ sono sul campo per aiutare il governo maliano a combattere jihadisti e terroristi mentre sono accettati con sempre maggiore difficoltà dallo stesso governo che dovrebbero aiutare (e questo malessere nei confronti dei ‘caschi blu’ è presente sia DRC e CAR, a livello governativo e di opinione pubblica locale). Il contesto politico è cambiato in misura così radicale che la MINUSMA potrebbe non essere più in condizione di operare nella sua attuale forma e mandato. Anche le rinegoziazioni del mandato di quest'anno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si sono rivelate difficilissime: il governo di transizione e i mercenari russi sono stati accusari di essere coinvolti in atrocità contro i civili e la Russia inizialmente si è opposta alla bozza di risoluzione che affrontasse le violazioni dei diritti umani e le restrizioni locali sui movimenti della MINUSMA e si è arrivati a una soluzione attenutata per evitare il veto di Mosca, che avrebbe significato la fine totale della misisone e quindi si è scelto il male minore.

Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, oramai sempre più diviso al suo interno tende semplicemente a rinnovare i mandati e ripetere il linguaggio e i termini di impegno quando possibile, invece di dover rinegoziare completamente i termini di un intervento, e questo approccio favorisce soluzioni di compromesso al ribasso. Nel caso del Mali, RDC e CAR, questo approccio pone le forze di pace in un ambiente sempre più ostile con scarsi benefici evidenti lasciando aperta la porta a una loro prossima fine o a una irrilevanza (costosa).

Per queste tre missioni sono aperte due potenziali opzioni: essere riautorizzate come più efficaci e con mandati chiari, applicabili e negoziati chiaramente con le nazioni ospiti, o porvi un termine. Una "terza opzione" consisterebbe nel dare priorità alla protezione dei civili e nel documentare le violazioni dei diritti umani, compiti che richiedono il consenso che i governi sono chiaramente riluttanti a dare.

In termini più generali le proteste avvenute nella RDC sollevano interrogativi sulla natura attuale e le prospettive delle operazioni di pace. Queste non possono svolgere il loro lavoro quando la popolazione locale non le vuole lì, e le operazioni delle Nazioni Unite senza il consenso delle popolazioni locali sono semplici esercizi per difendere la sovranità statale, non tentativi di costruire una pace duratura. E operare in circostanze pericolose senza il consenso dello Stato ospitante o la capacità di proteggere le persone dalla violenza dello Stato o una pace chiara da mantenere, come stanno facendo in Mali, RDC e CAR, rischia di danneggiare ulteriormente la posizione dell'ONU e il suo residuale prestigio. Costruire il consenso a più livelli è la chiave per il successo duraturo delle operazioni di pace delle Nazioni Unite e il punto nodale per trovare soluzioni politiche durature ai conflitti.

L'ONU dispone di strumenti e tecniche per promuovere gli sforzi locali di costruzione della pace e concentrare questi strumenti e tecniche per creare consenso e consenso sulla presenza dell'ONU nelle comunità locali dovrebbe essere una parte fondamentale di ogni missione. E, laddove il consenso dello Stato ospitante non è possibile, gli obiettivi umanitari e diplomatici – non gli obiettivi di sicurezza – dovrebbero essere l'asse centrale degli sforzi dell’ONU in un conflitto. In caso contrario, le operazioni di pace delle Nazioni Unite rischiano di restare in un pantano tra obiettivi divergenti e irraggiungibili, quali il proteggere le persone e la soluzione dei problemi di sicurezza.

Ma se l’ONU è in via di perdere il consenso in Africa, gli USA, uno degli Stati più importanti dell’organizzazione, in uno dei numerosi, ma sinora poco concludenti ritorni, sono alla sua ricerca. Il segretario di Stato americano Antony Blinken è stato in tournée in Africa con l'annuncio della politica dell'amministrazione Joe Biden nei confronti del continente come momento clou della visita. La nuova strategia è stata lanciata durante la tappa sudafricana del giro che ha portato Blinken anche in RDC e in Ruanda tra il 7 e il 12 agosto. Le discussioni specifiche per paese di Blinken in Sud Africa, Repubblica Democratica del Congo e Ruanda non devono essere definite come come irrilevanti, ma come una parte della strategia globale degli USA di contenere la pressione russa e cinese, e consolidare il fronte anti Mosca e Pechino in ogni ambito, incluso quello delle Nazioni Unite, considerato da Washington, come basilare e legittimante. Tuttavia, l'annuncio della nuova politica per l'intero continente è lo sviluppo più significativo con ramificazioni di vasta portata nell'immediato, nel medio e nel lungo termine.

È tradizione della maggior parte delle amministrazioni americane istituire progetti e iniziative politiche ed economiche nei confronti dell'Africa, siano esse ben strutturate e articolate o semplicemente ad hoc e disordinate. L'importanza di queste politiche è che modellano le relazioni attraverso il commercio e gli investimenti, gli impegni politici e diplomatici, l'assistenza attraverso varie agenzie e iniziative umanitarie e le relazioni militari. Secondo una vulgata impropria, l'amministrazione di Donald Trump (2016-2020) avrebbe fatto scomparire l’Africa dalla sua agenda politica globale. A dire il vero, l'amministrazione Trump non ha trascurato del tutto l'Africa. Uno dei punti positivi dell'impegno dell'amministrazione Trump con l'Africa è stato il lancio nel 2018 di Prosper Africa, un'entità interagenzia che fornisce un meccanismo di coordinamento per i programmi commerciali e di investimento.

Che Prosper Africa continui ad esistere durante l'era Biden, così ideologicamente agli antipodi, mostra che qualcosa di buono per l'Africa è venuto anche dall'amministrazione Trump. Tuttavia, l'amministrazione Trump non ha progettato una strategia globale, a parte dichiarazioni casuali di funzionari di allora - come l'ex consigliere nazionale John Bolton - spesso basate sulla necessità esclusiva per gli Stati Uniti di contrastare la Cina e la Russia nel continente.

In sostanza manca un approccio costante, rimpiazzato da momenti di interesse e fasi di stagnazione. L'ultima strategia globale degli Stati Uniti nei confronti dell'Africa è stata formulata dieci anni fa nel 2012 dall'amministrazione Barrack Obama. Quella politica aveva dato la priorità al rafforzamento delle istituzioni democratiche; stimolare la crescita economica, il commercio e gli investimenti; promuovere la pace e la sicurezza; e, promuovendo opportunità e sviluppo attraverso iniziative in materia di salute, sicurezza alimentare, cambiamento climatico. Sebbene questi problemi rimangano rilevanti per le relazioni Africa-USA nel 2022, le circostanze politiche, economiche, di sicurezza e geopolitiche siano cambiate esponenzialmente negli Stati Uniti, Africa e nel mondo.

Durante i primi mesi della presidenza Biden, in Africa si nutriva ottimismo su migliori relazioni con l'allora nuova amministrazione. Alcuni degli ottimismi sono stati sostenuti dalla nomina di personalità ritenute in sintonia con le cause e gli interessi africani a cominciare da Linda Thomas-Greenfield, ambasciatrice degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite.

Mentre analisti, studiosi e strateghi attendono la politica formale, ci sono prime indicazioni sugli aspetti chiave, che richiamano quanto proposto da Washignton in occasione del Summit panamericano di Los Angeles e il viaggio di Biden in Corea e Giappone: democrazia, buon governo e rispetto dei diritti umani, sostegno alla sicurezza (attraverso l’AFRICOM), ci si dovrebbe aspettare che la politica includa il tema della “prosperità economica”, che sia inclusiva e consideri non solo gli interessi delle imprese americane, cosa che ha reso le offerte verso l’IndoPacifico e America Latina piuttosto deboli.

Foto: United Nations Mission in the DR Congo - Monusco