Demografia e Potenza: quale futuro per l'Ungheria?

(di Andrea Gaspardo)
28/07/22

Nel corso della nostra precedente analisi avevamo parlato di come il leader del partito politico Fidesz, Viktor Mihály Orbán, avesse col passare degli anni creato un sistema di potere centrato attorno a se, che lo ha di fatto trasformato in una sorta di “uomo indispensabile” del “sistema-paese Ungheria”. Eppure, come recita un certo adagio: “nessun uomo è inscindibile dal contesto che lo ha partorito” e, da questo punto di vista, Orbán non rappresenta affatto un'eccezione. Ecco perché è arrivato ora il momento di studiare approfonditamente l'Ungheria, paese che ha dato i natali ad Orbán e che in un modo o nell'altro lo ha scelto come suo “duce”.

Il nome ufficiale dell'Ungheria è “Magyarország” che nella lingua nazionale significa, per l'appunto, “terra dei Magiari” e la “magiarità” è un elemento imprescindibile per descrivere la cifra culturale del paese. Non per niente il termine “ungherese” è in realtà un termine improprio perché “straniero” e tuttalpiù può essere utilizzato per descrivere la totalità dei cittadini dello stato, indipendentemente dalla loro origine etnico-religiosa (tra questi meritano di essere menzionati i tanto disprezzati rom), tuttavia quando gli abitanti dello stato danubiano parlano tra loro e si riferiscono gli uni agli altri in termini identitari allora la scelta cade immancabilmente sul termine “magyarok”, che significa appunto “magiari”, e come tali vogliono essere chiamati.

Dal punto di vista dell'analisi genetica e dell'organizzazione sociale basata su un modello famigliare definito come “comunitario esogamo”, gli abitanti dell'Ungheria sono pressoché identici a quasi tutti i loro vicini, e questo fa sospettare l'esistenza di un'antica origine comune risalente al tempo dell'Impero Romano e dei successivi sommovimenti delle genti germaniche prima e slave dopo. Allo stesso tempo però, le lande che un tempo furono della Pannonia, vennero successivamente interessate da un fenomeno che, alla lunga, ne ha completamente cambiato i connotati culturali creando un universo assai particolare. Il processo che portò le tradizionali sette tribù magiare (a loro volta divise in ben 108 clan) alla conquista delle pianure centrali del bacino danubiano iniziò già nell'anno 830, con l'unificazione di queste tribù in un unico popolo, e si concluse attorno all'anno 1000 con la costituzione del Regno d'Ungheria sotto la corona di Stefano I (Szent István in lingua magiara), atto benedetto dal papa Silvestro II dopo la completa conversione della nobiltà magiara al Cristianesimo Cattolico.

Furono questi centosettanta anni turbolenti, segnati da lotte feroci che i magiari (popolo ugro-finnico caratterizzato da numerose affinità con le genti turcofone dell'Asia Centrale) intrapresero contro tutte le popolazioni a loro finitime e anche tra loro stessi e che hanno tramandato l'operato di grandi leader guerrieri come Ügyek, Előd, Álmos e, soprattutto, Árpád, nomi che ad un occidentale dicono poco ma che tutt'ora colorano il folklore popolare ungherese e ne rafforzano il sentito patriottico.

Ciò che è avvenuto nei mille anni successivi, sino al giorno d'oggi, è stato un processo che ha portato i magiari originali (per la verità niente più che un'élite guerriera niente affatto numerosa) letteralmente a “sciogliersi” nel mare assai più vasto di abitanti di origine romana, germanica o slava di quelle terre ma cambiandone al contempo i connotati linguistici e culturali fino a dare vita ai magiari moderni, comunemente, ma impropriamente, chiamati anche “ungheresi”.

La “magiarizzazione” è stata un processo lento che ha pochi eguali al mondo (forse comparabile veramente solo con la “turchizzazione”) e che è andato avanti, ora imposto dall'alto, ora per semplice inerzia popolare, per un arco temporale lunghissimo, tanto che all'interno di esso possono essere individuate diverse “fasi”. Quella senza dubbio più interessante venne inaugurata all'indomani del cosiddetto “Compromesso del 1867” quando con una mossa molto intelligente, l'imperatore Francesco Giuseppe I riformò il suo impero, precedentemente unitario ed accentrato, in una sorta di “impero confederale” costituito da due entità ben definite: l'Impero Austriaco propriamente detto, anche noto con il nome di “Cisleitania” ed il ricostituito Regno d'Ungheria, anche noto come “Transleitania”. All'interno delle loro rispettive “aree di dominio” dell'impero comune, le autorità di Vienna e di Budapest continuarono in ogni caso a portare avanti il secolare modus operandi del “divide et impera”.

Se da un lato esse proclamarono per la prima volta a livello europeo i diritti delle minoranze etniche e promulgarono le prime leggi a tutela delle stesse (l'unico altro paese europeo a farlo nel corso del XIX secolo sarebbe stato con qualche decennio di ritardo il Belgio!), dall'altro per cementare la presa sui loro territori esse non furono affatto timide nel portare avanti anche sostenute politiche di “germanizzazione” e “magiarizzazione”.

In un'epoca nella quale il continente europeo veniva investito dal fenomeno del “Romanticismo”, onda lunga della precedente Rivoluzione Francese, e nel quale i sentimenti nazionalistici e patriottici delle popolazioni oppresse dai grandi imperi stavano emergendo prepotentemente, era solo una questione di tempo prima che le politiche di tutela delle minoranze etniche e le politiche di “germanizzazione” e “magiarizzazione” entrassero in cortocircuito.

Nelle Terre della Corona di Santo Stefano (nome formale ed istituzionale del Regno d'Ungheria) i primi a ribellarsi a tale stato di cose furono i romeni, i serbi e gli slovacchi, seguiti poi a ruota dai ruteni subcarpatici e dai croati e questo contribuì a creare un solco ancora più grande tra i magiari e gli altri popoli a loro assoggettati.

Il primo dei quattro shock che colpirono l'Ungheria nel corso del XX secolo fu la Prima Guerra Mondiale ed il successivo Trattato di pace del Trianon. Non solo l'Ungheria dovette sopportare il lutto per la perdita di circa la metà dei 2.081.200 morti sia militari che civili che la guerra causò all'Impero Austro-Ungarico nel suo complesso, ma il neonato stato ora completamente indipendente partorito dal collasso della monarchia asburgica dovette subire, ai sensi degli articoli di uno dei trattati di pace più iniqui e punitivi della Storia, delle amputazioni territoriali che risultarono nella perdita del:

  • 60% della sua popolazione totale;
  • 30% della popolazione di madrelingua magiara;
  • 72% del suo territorio;
  • 43% delle sue terre a maggiore produzione agricola;
  • 38% delle sue aree vinicole;
  • 70% delle sue mandrie di bovini;
  • 89% delle sue foreste;
  • 83% delle sue riserve di minerali ferrosi;
  • 100% delle sue miniere di sale;
  • 99% delle sue miniere di oro ed argento;
  • 58% delle sue linee ferroviarie;
  • 65% della sua produzione di carbone;
  • 60% della sua capacità produttiva di ferro ed acciaio.

Sebbene l'Ungheria così nata nel 1920 avesse una non disprezzabile popolazione di 7.940.000 persone per l'assoluta maggioranza composta da magiari (che invece assommavano al 48,1% della popolazione del Regno d'Ungheria così come era all'interno dell'Impero Austro-Ungarico), le note positive si esaurivano lì perché per il resto il paese aveva perso letteralmente qualsiasi attributo che per tutta la sua Storia lo aveva reso una grande potenza internazionale. Ma ciò che bruciava maggiormente alla nuova leadership di Budapest fu la perdita di 3,3 milioni di magiari etnici il cui destino venne brutalmente separato dal resto della madrepatria e che, al termine di questi sommovimenti, si ritrovarono ad essere cittadini del Regno di Romania, della Cecoslovacchia e del Regno di Yugoslavia, tutti paesi che guardavano come fumo negli occhi la possibilità di una rinascita della potenza dell'Ungheria e che trattavano i loro cittadini di lingua, cultura ed origine etnica magiara come potenziali quinte colonne di Budapest.

Per la verità, tali timori non erano del tutto infondati dato che nel corso degli anni '20 e '30, il nuovo uomo forte del regime di Budapest, l'ammiraglio Miklós Horthy de Nagybánya, si dedicò anima e corpo al progetto di restaurare la potenza perduta.

Nel corso del ventennio, Horthy venne aiutato nei suoi propositi dal fatto che i tassi di fertilità della popolazione del suo paese rimasero alti e compresi tra un massimo di 3,84 figli per donna nel 1920 e 2,42 figli per donna nel 1937. Non solo, la politica di incentivo all'immigrazione da parte dei magiari etnici residenti negli stati vicini ebbe un certo successo, compensando l'emigrazione verso i paesi dell'Europa Occidentale e gli Stati Uniti.

Grazie a questo mix di elevati tassi di fertilità totale e di immigrazione di magiari etnici, la popolazione dell'Ungheria passò da 7.940.000 persone nel 1920 a 9.100.000 nel 1937, con una crescita di oltre 1.160.000 unità (pari ad oltre il 14,5%).

Alla vigilia e durante la Seconda Guerra Mondiale, il regime di Budapest decise di allinearsi completamente con il Terzo Reich hitleriano al fine di recuperare il perduto status di potenza. Per un certo numero di anni, tale politica ebbe successo perché nel periodo tra il 1938 ed il 1941 l'Ungheria riuscì a tornare in possesso delle regioni di Prekmurje, Međimurje, Baranja e Bačka situate in Yugoslavia, della Transcarpazia ed di altre aree della Slovacchia abitate da popolazioni magiare e, soprattutto, di tutta l'area settentrionale della Transilvania, situata in Romania.

Anche se le “riconquiste” in oggetto furono ben lontane dalla tanto sognata “ricostituzione del Regno d'Ungheria”, esse ebbero comunque il merito (esclusivamente agli occhi dei magiari) di dare nuovo impulso allo spirito patriottico ed al fervore nazionalista.

In ogni caso tali successi si rivelarono effimeri perché la catastrofica sconfitta finale riportata dalle forze dell'Asse, e dall'Ungheria stessa, al termine del conflitto ebbero come effetto la nuova e definitiva perdita dei suddetti territori, con conseguente ritorno per Budapest ai confini del 1920 (che perdurano tutt'ora), l'afflusso di un grande numero di magiari etnici espulsi dai paesi vicini nell'immediato dopoguerra e l'instaurazione di un regime comunista fortemente legato all'Unione Sovietica. Nonostante questo secondo shock, l'Ungheria riuscì a sopravvivere e, complici tassi di fertilità ancora relativamente alti (2,67 figli per donna nel 1946; 2,77 nel 1950; 2,53 nel 1955), nel 1956 la popolazione del paese raggiungesse i 9.911.000 abitanti.

Quell'anno l'Ungheria venne colpita dal suo terzo shock quando il paese fu teatro della fallita “Rivoluzione Ungherese del 1956”. La violenta repressione provocò la fuga di 200.000 abitanti, per la maggior parte appartenenti all'élite, ed una generale demoralizzazione della società. A questo tentò di porre rimedio il nuovo leader del paese che ne resse le sorti dal 1956 fino al 1988, Giovanni Giuseppe Czermanik, meglio noto in patria ed internazionalmente con il suo nome “magiarizzato” di János József Kádár. Fedele alleato dell'URSS in politica estera, nondimeno Kádár riconobbe che per poter essere in grado di marciare da solo, il suo paese doveva adottare una propria autonoma linea di sviluppo economico che permettesse un miglioramento degli standard di vita della popolazione e rendesse l'Ungheria più competitiva nel commercio internazionale.

Il relativo successo (almeno negli anni '60 e '70) del cosiddetto “Comunismo Goulash” fece sì che, a livello demografico, l'Ungheria continuasse a mantenere degli indicatori sostanzialmente positivi, con i tassi di fertilità totali piuttosto alti anche quando avevano sforato al ribasso la soglia dei 2,11 figli per donna, ed una popolazione che continuava a crescere in maniera pressoché costante, fino all'anno 1981, allorché con 10.711.848 abitanti, l'Ungheria raggiunse il culmine della sua potenza demografica.

In ogni caso, i nodi di ogni sistema comunista vengono sempre al pettine, ed anche il “Comunismo Goulash” entrò in crisi nel corso degli anni '80 ed è indicativo che le prime avvisaglie di questo “cambio di passo” furono avvertite proprio a livello demografico. Il 1977 fu l'ultimo anno della Storia d'Ungheria in cui il tasso di fertilità totale superò la soglia di sostenibilità di 2,11 figli per donna (quell'anno il TFR fu di 2,15).

Dal 1978 al 1991, nonostante il TFR fosse inferiore alla soglia di sostenibilità, esso si mantenne comunque a livelli rispettabili in un intorno altalenante tra 1,80 e 1,90 figli per donna. Parallelamente, la popolazione totale subì una contrazione a causa di un differenziale negativo tra numero di nati e numero dei morti e un'accresciuta propensione all'emigrazione. Da un massimo di 10.711.848 abitanti registrati nel 1981 si passò a 10.373.400 nel 1991, con una diminuzione di 338.448 unità.

Presi nella loro complessità questi dati sono tipici di quelli di una società in transizione e nel pieno di una trasformazione sociale ed ideologica. E tale trasformazione effettivamente ci fu ed avvenne contestualmente al crollo dei regimi comunisti nei paesi dell'Europa dell'Est; ma in Ungheria tale trasformazione avvenne in maniera se possibile ancora più brutale per l'economia e la società del paese aprendo, tra l'altro, un “vuoto ideologico” che permane tutt'ora e causando al paese il suo quarto ed ultimo shock degli ultimi 100 anni. Anche in questo caso la demografia ci aiuta ad inquadrare meglio quanto è avvenuto e sta ancora avvenendo. Il differenziale negativo tra numero di nati e numero di morti è continuato sino ad oggi così come il declino generale della popolazione.

Oggi, anno 2022, l'Ungheria registra una popolazione di 9.689.000 abitanti, ben 1.022.848 in meno rispetto al massimo “splendore demografico” del 1981, ma ciò che colpisce ancora di più è l'abbassamento dei tassi di fertilità che hanno toccato il fondo nel 2011 con 1,23 figli per donna per poi avere un rimbalzo verso l'alto a 1,59 nel 2021. Certamente l'attuale leader del paese, Viktor Mihály Orbán è stato molto lesto ad attribuire questo “rimbalzo” al successo delle sue politiche pro-nataliste ma la realtà è assai più complessa.

Innanzi tutto è necessario puntualizzare che, a detta di diversi economisti ed esperti di questioni magiare, tale “Orbanomics” risulterebbe assolutamente insostenibile nel lungo periodo senza i generosi finanziamenti provenienti dall'Unione Europea.

Secondariamente, sebbene sia vero che negli ultimi anni vi sia stato un leggero incremento nel livello delle nascite (93.038 nel 2021, rispetto alle 88.049 dell'annus horribilis 2011) bisogna altresì specificare che questi sono dati lontanissimi rispetto ai 177.574 bambini nati nel 1977 (ultimo anno caratterizzato da un TFR superiore a 2,11 figli per donna).

Non solo, un'altra cosa che è necessario notare è che le politiche di incentivo alla natalità stanno avendo un effetto scarso o nullo su quella che viene definita “fertilità matrimoniale” (cioè sul numero di figli nati in una normale unione matrimoniale ufficialmente sanzionata) laddove, per esempio, ben il 47,9% dei 91.690 bambini nati in Ungheria nel 2015 sono nati da donne non sposate. Ora, è vero che la dizione “donne non sposate” non è sinonimo di “madri single”, però tale dato riveste comunque una sua importanza sociologica perché, storicamente parlando, la crescita del numero di bambini nati ad di fuori del normale contesto matrimoniale viene associata dai sociologi alle cosiddette “società alla deriva”, nelle quali cioè sono in atto processi più o meno palesi di disgregazione sociale.

Dato che, come insegna la sociologia, la famiglia è la base della società, è ovvio che una società caratterizzata da tali fenomeni disgregativi diventa maggiormente instabile e facilmente preda di tentazioni “autoritarie”. Da questo punto di vista, l'ascesa al potere di Orbán calza a pennello con l'attuale fase di deriva ideologica e sociale che l'Ungheria sta vivendo da quarant'anni a questa parte.

Un ultimo dato sul quale vale la pena di riflettere è quello relativo alla “nostalgia per il passato comunista”. Tale affermazione può sembrare un'aberrazione presa di primo acchito ma, una volta analizzati i dati di un interessante sondaggio condotto nel 2020 dall'istituto di ricerche politiche progressista “Policy Solutions” in collaborazione con la fondazione Friedrich-Ebert-Stiftung, si nota che il 54% dei magiari ritiene che la maggioranza della popolazione vivesse meglio sotto il regime di Kádár rispetto al 31% che preferisce la situazione odierna. Se si va poi a scavare più a fondo si nota come tale convincimento non caratterizzi solamente gli elettori del partito socialista MSZP (70%) o del partito liberale di sinistra DK (71%), ma persino quelli del partito ultranazionalista di destra Jobbik (54%!).

Per quanto riguarda invece gli elettori di Fidesz, il partito di Orbán, sebbene il 50% preferisca senza dubbio le condizioni di vita odierne rispetto a quelle del periodo comunista, vi è comunque un importante 30% che non rifugge la “nostalgia dei buoni vecchi tempi andati”.

Interessante notare poi che, restringendo l'analisi a coloro che sono dotati di almeno una laurea, la percentuale di nostalgici del passato raggiunge comunque un ragguardevole 45%!

Insomma, da qualsiasi punto noi la vogliamo analizzare, la società magiara ha tutte le caratteristiche di una società in preda a profonde convulsioni che, sopravvissuta a quattro shock esistenziali nel breve arco di 100 anni, fatica ancora a trovare una sua via autonoma di sviluppo ideologico coerente. Questo pericoloso mix deve essere tenuto costantemente d'occhio dagli osservatori internazionali perché le società di questo tipo si dimostrano tendenzialmente assai più propense di altre a cadere preda di tentazioni militaristiche laddove le leadership politiche valutino che tali opzioni presentino dei costi che essi stimano essere più accettabili rispetto ad un lungo e doloroso, ma necessario, processo di riforma del sistema-paese preso nel suo complesso.

Foto: hmzrinyi.hu