Cina e Giappone: c'eravamo tanto odiati

(di Gino Lanzara)
10/08/23

L’Asia si appresta a far vivere momenti di fibrillazione. Due gli egemoni, Pechino e Tokio, con prospettive e conclusioni dai colori cangianti.

Mentre le economie occidentali tentano un difficile soft landing, l’influenza delle vicende cinesi si avverte nitidamente a cominciare da un’economia dalla ripresa poco brillante che avrebbe bisogno di investimenti più selettivi. La sofferenza del segmento immobiliare si è accoppiata ad una marcata debolezza industriale e con una disoccupazione giovanile da record; una situazione la cui gravità è indicata dal calo sia del consumo di beni durevoli che dei tassi di investimento del settore privato, e dalla crescente preferenza a depositare una quota maggiore dei risparmi in conti bancari; il virus non è la sola causa del COVID economico, caratterizzato da esigua propensione agli investimenti e scarsa reattività alle politiche macroeconomiche di sostegno, ma va considerata anche l’azione dello Stato che ha privato l’economia di dinamismo; la protezione dagli shock macroeconomici è diminuita e la percentuale di società che hanno richiesto prestiti è rimasta bassa nonostante gli sforzi della banca centrale1, anche alla luce della precedente politica economica che ha irreggimentato l’iniziativa privata.

Il fatto che il parlamento cinese abbia modificato le procedure legislative per facilitare l'approvazione della legislazione di emergenza non induce all’ottimismo, tanto che la società cinese soffre di timori assenti dai tempi di Mao2. Immaginate uno splendido paradosso: risparmiatori cinesi che convogliano liquidità sul mercato yankee mentre la BRI si sgretola perdendo di mordente e credibilità.

Sull’altra sponda del Mar Cinese Orientale, la Bank of Japan interviene sull’inflazione e ritarda l’abbandono delle politiche dei tassi negativi confermando il controllo della curva dei rendimenti e, soprattutto, preservando prospettive più promettenti di quelle cinesi. L’aspetto da economic warfare pechinese si sostanzia nel beggar thy neighbor, dato che le sue politiche economiche peggiorano o comunque non migliorano i problemi altrui aumentando la domanda di export e riducendo la dipendenza dall’import3; la Cina considera politica ed economia sostanzialmente caratteristiche militari, e le azioni belliche come politico-economiche.

Gli scambi sino giapponesi sono stati sempre intensi, per cui l’uno è partner commerciale rilevante per l’altra e viceversa, benché l’interdipendenza economica non abbia agevolato l’armonia relazionale, complice anche (e non solo) la sovrastruttura confuciana per cui il passato incide sul presente, condizionato anche da pressioni volte a costringere Tokyo ad arrendevolezze che mal si coniugano con il temperamento nazionale.

Dunque non è tutto e solo economia, sia pur spicciola; rivendicazioni territoriali, riarmo nel Pacifico, tensioni politico diplomatiche, hanno indotto Tokyo ad una revisione strategica caratterizzata da una riconsiderazione del pacifismo costituzionale da passivo a proattivo, un pacifismo fondato sull’anacronistico art. 9 della Costituzione che non tiene conto dell’ascesa cinese, di Taiwan e delle sue prossime elezioni sotto assedio, della minaccia nord coreana che blocca gli USA sul 38° parallelo, dell’assertività russa sulle isole Curili.

Come già accaduto in passato, la geopolitica sta conducendo il Giappone ad interventi sostanziali in tema di relazioni internazionali che non possono non riverberarsi sulla società. L’elemento che spezza gli equilibri continentali è la Cina; l’espansionismo del Dragone sulle isole giapponesi Senkaku, ha indotto Tokyo a rivedere il sistema di sicurezza arcipelagico e non solo: la crescita pacifica (sic!) di marca cinese mal si concilia con gli interessi nippo-americani.

Il concetto di Indo Pacifico si delinea nel 2006, quando Abe Shinzo, in un discorso al Parlamento indiano parla della confluenza di due mari, un’immagine utile a comprendere il richiamo alla necessità di assicurare libere navigazione e circolazione altrimenti minacciate dal revanscismo cinese; a fronte della BRI si staglia dunque l’Arco della libertà e della prosperità che, oltre al Giappone, raccoglie Australia, India, USA, una proposta di alleanza poi divenuta il Quadrilateral Security Dialogue, cui va collegato il concetto di FOIP4. Lo spazio di maggior competizione economica sino-giapponese è quello del Sudest Asiatico, soprattutto in ambito infrastrutturale; mentre la Cina ha sostenuto l’Asian Infrastructure Investment Bank, il Giappone ha risposto con la Partnership for Quality Infrastructure.

Ma è la sovranità a giocare un ruolo fondamentale in Giappone, a partire dal Trattato di San Francisco del 1951; malgrado la diffidenza nei confronti dell’apparato militare, l’anomalia di un paese privo di forze armate ha indotto a ripensare la questione sia pur sotto un’ottica autodifensiva e ha contribuito, con lo sganciamento dai vari impegni militari all’estero, alla convinzione che il governo nipponico fosse maestro indiscusso della sola diplomazia del libretto degli assegni, prassi che non ha impedito di ipotizzare sostanziali modifiche costituzionali soprattutto grazie ad Abe.

Considerato che durante la Guerra fredda il pacifismo era funzionale alla stabilità del territorio interno, o relazionabile ad un ruolo internazionale diplomatico, con il crollo del muro di Berlino si è acceso un dibattito sulla necessità che il Giappone partecipasse attivamente al mantenimento della pace anche attraverso lo strumento militare. La novità di rilievo, in un Paese che si percepisce lento e riflessivo nelle decisioni capitali, è consistita nel principio della salvaguardia della sicurezza comunque e dovunque minacciata, al netto di utopie filosofiche sul modello de la ricerca della felicità alla Will Smith, cui si contrappone una concreta capacità di contrattacco la cui acquisizione, disponendo di idoneo armamento missilistico, non richiede lunghe e complicate riforme costituzionali.

Non è l’unica novità; le dinamiche in corso stanno portando a considerare sotto un’altra prospettiva ulteriori interazioni tra partner statunitensi nell’Indo Pacifico e Alleanza Atlantica, una conseguenza da 3^ principio della dinamica delle relazioni internazionali alla luce delle liaison sino russe.

Ed ora, altro colpetto alle fondamenta del celeste PCC, dove gli imprevisti e gli incidenti di percorso minano la salute di chiunque. Dopo la dipartita del ministro degli esteri, è stata la volta di due altissimi vertici militari; il generale Li Yuchao, comandante della forza missilistica5 convenzionale e nucleare6 del PLA e il suo vice, generale Liu Guangbin, secondo la BBC scomparsi7 da tempo e probabilmente sotto la custodia del braccio secolare dell’anticorruzione8, e rilevati dall'ex vice capo della marina, Wang Houbin9, e da Xu Xisheng, proveniente dal comando meridionale dell’Esercito di Guangzhou, destinato all’incarico di commissario politico. Particolare interessante: l’indagine dell’anti corruzione è iniziata dopo le dimissioni di Wei Fenghe da ministro della Difesa cosa che fa maliziosamente pensare ad un oscuro desiderio di rafforzare il controllo politico su forze armate che giurano fedeltà al Partito ma non allo Stato.

Le sostituzioni quasi contemporanee di stellati e feluche, una possibile sfida per Xi, hanno visto il ritorno in scena di Wang Yi10, il più alto diplomatico del servizio estero; il tutto dopo l’umiliante giubilazione di Hu Jintao avvenuta durante il Congresso che ha consegnato a Xi e ai suoi fedelissimi il Partito, ovvero l’espressione imperiale più autentica, trasformista ed adattabile del corso politico cinese passato e presente: tra la repressione in Tibet e quella in Xinjiang non cambiano né logica di governo né la scelta dei migliori partner, Francia e Germania11 über alles, malgrado la francese RF1, nel 2020, abbia definito la nuova campagna di epurazione e rettifica contro la corruzione molto vicina ad una purga stalinista, ripetizione ideale del Movimento di rettifica Yan’an, che nel 1942 servì al consolidamento della posizione di Mao.

La lotta alla corruzione è spesso stata un mezzo per occultare conflitti interni; lo stesso Xi ha tenuto a ricordare che il ruolo di guida sulle forze armate spetta solo al partito. Sia chiaro, malgrado le rimozioni i programmi imperiali – forse – non cambieranno, benché non possa non tenersi conto del crollo del 14,5% delle esportazioni e del fatto che non è possibile tollerare ulteriori stagnazioni dovute ad una sindrome economica che si preannuncia lunga e sottovalutata, con un’economia volatile ed un elevato debito pubblico; piazza Tienanmen ha insegnato a temere i terremoti sociali e le loro conseguenze.

Da una sponda all’altra: il Giappone, paese a lungo concentrato sulla sua innenpolitik, e con un’aussenpolitik12 determinata dal sole atomico acceso a Hiroshima e Nagasaki che ha portato il Paese fuori dalla storia dove sta rientrando ora; oggi Tokyo sta riprendendo coscienza della sua forza nel Pacifico in funzione di contingenze geopolitiche che, sotto la pressione americana, la stanno spingendo verso nuove responsabilità determinate dalla necessità di preservare la libertà delle vie marittime minacciate da Pechino.

Ma quanto può reagire il Giappone a fronte di un’evidente difficoltà di influenzare gli eventi nella sua area geostrategica? E poi: se gli USA puntano ad utilizzare Tokyo come punta avanzata, quanto sono disposti a dimenticare i suoi passati fasti imperiali?

Se la geoeconomia è disciplina agevole per il Giappone, che deve contrastare la politica strategica-assistenziale cinese verso i paesi più poveri del quadrante, più difficile è il ritorno non ad una nuova militarizzazione, ma ad un riarmo divenuto necessario per garantire il traffico mercantile proiettando potenza ed esercitando deterrenza al di là di logiche puramente difensive.

Quel che è certo è che il Giappone ha sempre saputo adattarsi alle circostanze, anche ora che scopre vocazioni che oltrepassano la sfera finanziaria ed economica. Non a caso Tokyo ha reso noti tre documenti strategici: la nuova National Security Strategy (NSS), che va a sostituire quella del 2013 emessa sotto Abe, la National Defense Strategy (NDS) (nota come National Defense Program Guidelines) e il Defense Buildup Program (DBP) (l’ex Medium-Term Defense Program), una vera e propria inversione di tendenza.

La strategia giapponese, malgrado i cambiamenti, è di fatto in continuità con il processo di normalizzazione di Abe, con disponibilità di budget fino al 2% del PIL che devono trovare sia costante copertura finanziaria13 sia l’acquisizione di equipaggiamenti in grado di assicurare una capacità di contrattacco, ipotizzabile comunque entro uno scenario di auto-difesa, escludendo la praticabilità di attacchi preventivi.

Da rimarcare l’inscindibilità tra economia e sicurezza, senza dimenticare la difesa delle supply chain e l’intento di giungere ad un decoupling con la Cina con cui affrontare un mutevole equilibrio di potere ed una competizione strategica che tiene conto delle defaillance ucraine14.

Da tempo il governo giapponese esprime preoccupazione per l’espansionismo cinese foriero di pericolose reazioni non intenzionali, innescando repliche irate da parte di Pechino che accusa Tokyo di interferenze politiche. Eppure, mai come stavolta il libro bianco qualifica la Cina come una sfida strategica senza precedenti che ha incrementato le spese per gli armamenti e variato unilateralmente lo status quo nel Mar della Cina con operazioni congiunte con la Russia negli spazi antistanti il Giappone, e nello Stretto di Taiwan.

La replica cinese non si è fatta attendere, anche se è sembrata tradire una qualche apprensione sulla riacquisizione delle capacità belliche giapponesi in generale e delle già citate capacità di contrattacco in particolare; in sintesi, mentre la cooperazione con la Russia, ora rivista criticamente da Xi alla luce degli eventi ucraini, si basa sulla non alleanza, sul non confronto e non prende di mira terzi, il Giappone attenta comunque alla pace pur non ponendo linee rosse che invece, generosamente, Pechino traccia a Taiwan impartendo lezioni etico politiche a geometria variabile e, peraltro, rivolte ad un Paese che ha serbato parte di un’idea imperiale sublimata, storicamente, nella Marina, l’arma più vicina all’anima più profonda del Giappone, quella ancora una volta più idonea all’interpretazione del nuovo concetto strategico in concorrenza con l’insorgente navalità cinese.

Troppo spesso distratti dalla nascente Marina d’altura del PLA, ci si dimentica che il Sol Levante, sul mare, già detiene spiccate capacità operative di comando e controllo, è un capace interprete della lotta antisom, e sta ricostituendo forze aeronavali che dovrebbero far rammentare come nel Pacifico i primi custodi delle lesson learned della guerra con strike carrier group siano stati proprio i giapponesi.

Quanto vale, allora, la muraglia d’acciaio di soldati invocata dal presidente Xi? Qual è il livello di affidabilità, se è così impellente rafforzare il controllo disciplinare sui militari?

La presuntuosa lectio magistralis impartita a seguito dell’uscita del nuovo libro bianco giapponese da Tan Kefei, portavoce del ministero della Difesa nazionale cinese, suona come atto politico interno dovuto: per principio il Dragone non può accettare nulla che non sia confacente alla sua linea; il problema si pone tuttavia secondo una notevole varietà di termini che non possono essere trascurati. alzare la voce è generalmente esercizio rischioso, sia perché è necessario poter disporre di retroterra solidi, sia perché i destinatari degli acuti, ed i loro più o meno potenti sodali, potrebbero mal recepire i messaggi lanciati, specie se fondati su trascorsi storici rimossi e controversi che alimentano mai sopite rivalità e che soprattutto vanno a risvegliare reminiscenze altrui molto più recenti di atti di forza ugualmente opinabili. In sintesi, sembra proprio che nessuno possa arrogarsi il diritto di scagliare pietre né prima né dopo.

Posto che il potenziamento militare cinese si poggia sull’espansione economica e sulla capacità di attrarre investimenti aprendo il mercato, l’irrigidimento imposto dal Partito, unito agli sconquassi pandemici, non aiuta un granché, specie ora che l’export è in forte sofferenza ed il Paese sta scivolando in deflazione.

Altro aspetto che è opportuno ricordare, riguarda la sindrome di Kronborg15, che ha ispirato le rimozioni dei vertici militari e di partito, una patologia che, indotta dalla pervasività del Partito nello Stato, non trova eguali sulle sponde di Tokyo.

Lo strumento militare, infine, è l’altro cardine su cui poggia la querelle; il fatto che la Cina stia procedendo da tempo ad un massiccio riarmo in modo peraltro poco trasparente, non può certo autorizzare un’esclusività tale da impedire che lo faccia anche il Giappone che, tra l’altro, padrone dei fondamenti geopolitici che lo renderebbero nuovamente protagonista, è già in possesso non solo dei mezzi che rendono una Marina una Blue Navy, ma anche del know how e del personale necessari. Razionalmente, una condotta belligerante non sembra pagante per nessuno, specie se rivolta nei confronti di una nazione, il Giappone, che mal tollera strumentalizzazioni di qualsiasi tipo, specie quella del senso di colpa indirizzato a strappare concessioni di tipo economico.

Il riarmo giapponese, infine, oltre alle considerazioni più strettamente d‘area, porta necessariamente ad espandere il quadro, valutando non solo una possibile e rinnovata effettività del pivot to Asia degli USA, che possono contare su un alleato proattivo, ma anche l’allargamento politico militare verso l’India da un lato, e verso l’Oceania dall’altro, un’espansione che in termini geografici deve far prestare la più profonda attenzione a coloro i quali è demandato il controllo geografico dei passaggi obbligati, magari a soggetti politici che, nella scala delle priorità nazionali, pongono la suscettibiltà cinese nel basso lato destro della classifica. Alla luce del fatto che le rispettive percezioni politico-sociali non sono certo migliorate, può essere utile ricordare la teoria dell’ascesa pacifica e legittima della Cina di Barry Buzan, che nel definire Pechino potenza revisionista insoddisfatta del proprio posizionamento internazionale, non può fare a meno di migliorare i rapporti con Tokyo. Più chiaro di così.

1 Bank of America, Economist Intelligence Unit e Goldman Sachs hanno ribassato le loro previsioni sulla crescita del PIL 2023, riducendole di almeno 0,4 punti percentuali. 

2 Murong Xuecun pseudonimo dello scrittore cinese Hao Qun ha paragonato l'esperienza del Covid a una campagna di imprigionamento di massa. 

3 Una guerra valutaria è un esempio di beggar thy neighbor.

5 La Forza missilistica è essenziale e ha la responsabilità di garantire la sicurezza di tutti i vettori nucleari strategici del Paese, oltre che di schierare tutte le testate nucleari in posizioni specifiche secondo le istruzioni del Partito; possiede un ruolo centrale sia in relazione all’invasione di Taiwan sia in quello di un conflitto con gli Stati Uniti nel Pacifico occidentale. Secondo le stime del SIPRI, le dimensioni dell’arsenale nucleare cinese sarebbero aumentate da 350 testate nel gennaio 2022 a 410 nel gennaio 2023 – un numero destinato a crescere.

6 La dottrina nucleare cinese è stata caratterizzata, da una natura difensiva, basandosi sul caposaldo del no-first-use, senza però escludere risposte immediate ed efficaci. Dopo la morte di Mao (1976), l’innovazione avviata da Deng Xiaoping coinvolse anche l’arsenale nucleare; la Commissione Militare Centrale diede il proprio assenso alle fasi di studio, sviluppo, test e schieramento di due ordigni innovativi rispetto alla tradizione maoista: le armi nucleari tattiche e la bomba al neutrone.

7 Secondo Cercius, una società canadese che monitora la politica cinese, lo stato di circa una decina di funzionari della forza missilistica del Pla non è chiaro.

8 Si sono diffuse anche altre voci per cui Li Yuchao è stato coinvolto in indagini per sospetto spionaggio riguardante suo figlio che studiava negli Stati Uniti.

9 Gode della fiducia di Xi nelle sue capacità di condurre una guerra ibrida.

10 Recentemente Wang ha tentato di dissuadere Giappone e Corea del Sud dall’intrattenere rapporti con USA e NATO appellandosi ai comuni tratti somatici e culturali in comune tra i tre paesi.

11 Annalena Baerbock, Ministro degli esteri: "per la Germania, la Cina rimane un partner, un concorrente e un rivale sistemico, ma negli ultimi anni l'aspetto della rivalità sistemica è sempre più emerso".

12 Politica interna e politica estera

13 Per finanziare l’incremento del bilancio il premier Kishida propone un progressivo aumento fiscale, controbilanciata da chi suggerisce l’emissione di titoli di stato.

14 Fumio Kishida: “Quello che sta succedendo in Ucraina, domani potrebbe accadere nell’Asia orientale”.

15 Castello di Amleto

Foto: JMSDF / Japan MoD / Xinhua / U.S. Navy / China MoD