Aspetti strategici del riscaldamento globale

17/08/20

Con l’arrivo dell’ondata di caldo ferragostana, ogni anno più intensa, e mentre oggi la maggior parte dei paesi del globo sta faticosamente uscendo dall’emergenza del coronavirus, insieme alle preoccupazioni per la salute pubblica nel caso di una seconda ondata epidemica, l’attenzione si è nuovamente concentrata sul riscaldamento globale. Mentre la maggior parte degli articoli si sofferma sulle sue ricadute negative sull’ambiente e sulla biodiversità, non va sottaciuto che il riscaldamento globale ha anche delicate implicazioni geopolitiche.

È a tutti noto che il riscaldamento globale viene definito come l’aumento della temperatura media dell’atmosfera a livello mondiale ma è meno noto che riscaldamenti e raffreddamenti del globo terracqueo sono sempre esistiti. La Terra è, infatti, sempre stata interessata da schemi altalenanti di cambiamento climatico e, anche se l’attuale periodo cade sotto la voce “riscaldamento”, in futuro il nostro pianeta sarà sicuramente interessato da nuove glaciazioni, seguite da nuovi riscaldamenti. Si tratta, quindi, di variazioni climatiche che la Terra ha già visto compiersi innumerevoli volte in passato, e che si verificheranno ancora molte volte in futuro.

Queste variazioni si sono sempre verificate, tuttavia, nell’arco di migliaia o milioni di anni, un tempo talmente lungo che l’essere umano non ne ha attraversato che una minima parte. Oggi, invece, si sviluppano con una velocità crescente e sensibilmente maggiore che in passato, influenzate e accelerate dalle attività umane, in particolare quelle che causano un aumento dell’emissione dei cosiddetti gas serra.

Sotto il profilo geopolitico possiamo dire che l’effetto a lungo termine più evidente dei cambiamenti climatici riguarderà le linee di costa, più vulnerabili, che già oggi stanno “arretrando” a un ritmo mai visto in precedenza.

Alcune stime attendibili indicano un innalzamento degli oceani di circa 6-9 cm ogni 10 anni. Tuttavia alcuni esperti ritengono che il ritmo potrebbe aumentare considerevolmente in futuro, arrivando anche a 30 cm per decennio. In tale ambito, un innalzamento di circa 30 metri del livello del mare determinerebbe l’allagamento della maggior parte delle attuali aree pianeggianti, spostando anche di chilometri le linee di costa o facendo scomparire territori che oggi consideriamo interni e perfino interi Stati. In tale ambito il delta del Nilo, per esempio, verrebbe completamente sommerso e Stati come i Paesi Bassi, il Bangladesh, la Florida o le Maldive, semplicemente non esisterebbero più. In Italia, la Pianura padana potrebbe scomparire, sprofondando in un mare poco profondo. Linee di costa arretrate significherebbero anche arretramento delle acque territoriali e conseguente accensione delle dispute circa lo sfruttamento delle risorse marine contenute nelle aree diventate internazionali.

Tuttavia, questi effetti verranno avvertiti in un futuro per noi così lontano che, avventurarsi ora in ipotesi geopolitiche, sarebbe come sconfinare nella fantascienza. Soltanto chi ci sarà, vedrà. E non sarà certamente la nostra generazione e neanche quella successiva.

Guardando a periodi decisamente più vicini ai nostri giorni e di nostro più diretto interesse, possiamo dire che, sotto il profilo geografico, nei prossimi cento anni l’aspetto della Terra non cambierà significativamente. Tuttavia, le conseguenze del riscaldamento globale in questo arco di tempo saranno tali da influenzare comunque la vita di molte centinaia di milioni di persone.

Dopo circa mille anni di ghiaccio invernale, per esempio, le acque del porto di Ilulissat (Groenlandia) da quattro anni non si ghiacciano più e continueranno a non ghiacciarsi per molti anni a venire, mentre d’estate il paese è oggi invaso dalle zanzare, sconosciute fino a ieri. L’enorme arretramento dell’immenso ghiacciaio (oltre 9 chilometri negli ultimi 5 anni) permette oggi di mantenere aperto tutto l’anno il porto della città, diventata meta turistica.

Il crescente riscaldamento degli oceani e il conseguente arretramento delle aree marine ghiacciate, in un prossimo futuro avrà poi un altro effetto economicamente e strategicamente rilevante, l’apertura del passaggio a nord-ovest. Si tratta, infatti di una rotta marittima che collega, nell'emisfero boreale, l'Oceano Atlantico all'Oceano Pacifico, passando all'interno del Mar Glaciale Artico e attraverso l'arcipelago artico canadese. Ad oggi è ancora una rotta soggetta al blocco dei ghiacci ma, ciò nonostante, è in corso una disputa territoriale tra Canada e Stati Uniti. Gli USA, infatti, considerano il passaggio a nord-ovest come acque internazionali, mentre il Canada ritiene che siano da trattare come acque territoriali canadesi. La disputa assume particolare importanza, commerciale ma anche militare, se si considera che, rispetto alle attuali rotte passanti per il Canale di Panama, le rotte dall'Europa all'Estremo Oriente attraverso il passaggio farebbero risparmiare alle navi più di 2.000 miglia nautiche (circa 4.000 km).

Il riscaldamento odierno causa, come abbiamo visto, l’aumento della temperatura degli oceani e la diminuzione della superficie della banchisa polare ma anche dello strato di ghiaccio antartico, ed è responsabile del ritiro e della diminuzione dello spessore dei ghiacciai montani. Come suggeriscono alcuni modelli matematici, continuando con l’attuale ritmo di riduzione dei contrasti di temperatura del mare si potrebbe indebolire o anche interrompere la Corrente del Golfo, che permette un clima relativamente mite in nord-Europa. Ironicamente, la conseguenza immediata di ciò sarebbe un immediato e sensibile raffreddamento delle isole britanniche e dell’Europa settentrionale. In maniera analoga potrebbero essere influenzate altre correnti oceaniche, come quella che dall’Oceano Indiano raggiunge l’Atlantico meridionale passando per il Corno d’Africa, causando una variazione simile nel mite clima sudafricano e un cambiamento del regime di piogge monsoniche che mantengono umide e fertili varie parti dell’Asia.

Nonostante il 70 percento del globo sia ricoperto dall’acqua, infatti, quella dolce rappresenta un bene la cui disponibilità è un prerequisito per l’esistenza della vita e la sua scarsità può far deflagrare contrasti di proporzioni inimmaginabili. Per renderci conto delle proporzioni, basti ricordare che il volume totale dell’acqua del pianeta è di circa 1,41 miliardi di chilometri cubi, ma il 97 percento di questa è acqua salata. In sostanza, per rendere il discorso ancora più chiaro, se la disponibilità complessiva di acqua sulla Terra fosse pari a 100 litri, l’acqua dolce immediatamente impiegabile ammonterebbe a solo 0,003 litri, sostanzialmente mezzo cucchiaino da tè. Inoltre, la desalinizzazione, processo attraverso il quale l’acqua salata può essere resa utilizzabile per il consumo umano, comporta ancora una spesa e il consumo di energia.

Da aggiungere che l’acqua dolce disponibile non è impiegata solo per il consumo umano ma una certa percentuale (82% in Asia, 40% negli USA, 30% in Europa) è utilizzata per le produzioni agricole. In tale ambito, Cina e India utilizzano fino al 90% della loro disponibilità di acqua dolce per uso agricolo e industriale. Per meglio comprendere le dimensioni del fenomeno ricordo che, per l’uso agroalimentare, ci vogliono circa 214 litri d’acqua per un kg di pomodori, 790 per le banane, 1.850 per la pasta, 2.500 per il riso, 15.000 per la carne bovina e 18.900 per il caffè. L’industria, invece, ne utilizza quantità ben maggiori, che vanno dai 2.000 litri per un litro di benzina, ai 5.000 litri per una tonnellata di cemento, ai 150.000 litri circa per una tonnellata di acciaio. Per fabbricare una bottiglietta di plastica, in cui si compra l’acqua che poi beviamo, ne sono necessari circa quattro litri, mentre per produrre un telefono di ultima generazione servono quasi 13.000 litri d’acqua.

Ciò implica che le nazioni industriali consumano molta più acqua dolce delle nazioni agricole. Inoltre, se la produzione industriale è intuitivamente causa di inquinamento di aria e acqua, bisogna sottolineare che anche i moderni metodi di coltivazione agricola intensiva causano inquinamento del terreno e delle falde acquifere, per effetto dell’uso intensivo di pesticidi e dei fertilizzanti industriali.

Tutto ciò riduce drasticamente la quantità di acqua dolce disponibile per l’uso domestico, che ammonta al solo 8 percento della disponibilità complessiva di acqua dolce. Una quantità che viene utilizzata in misure variabili a seconda degli standard igienici, di vita, culturali e climatici di ogni Paese.

Si comprende, pertanto, come la disponibilità di acqua dolce e il suo uso siano fattori che influenzano direttamente i rapporti sociali di un Paese, il suo sviluppo economico e i suoi rapporti con gli altri Paesi, e come siano in grado di scatenare feroci dispute, qualora le riserve idriche non siano sufficienti o non ricadano sul territorio di un unico Stato. Un problema talmente sentito che ha portato alcuni studiosi a dichiarare che, in un prossimo futuro, il petrolio verrà sostituito dall’acqua quale principale causa di conflitto armato tra Stati.

La più recente disputa per l’acqua è sorta in Africa, continente già martoriato da innumerevoli contrasti violenti, da contese razziali e dal terrorismo di matrice religiosa. Dal 2011 il governo etiope sta procedendo alla costruzione di una gigantesca diga sul Nilo azzurro. La Grand Renaissance Dam, una volta ultimata, azionerà la centrale idroelettrica più grande di tutta l’Africa, garantendo l’indipendenza energetica del paese e un ulteriore guadagno tramite la vendita del surplus. L’acqua proveniente dagli altopiani etiopi lungo il corso del Nilo azzurro assicura, però, circa l’80 per cento della portata media del Nilo che, nei mesi estivi, diventa quasi la totalità dell’acqua che scorre nel fiume. Il futuro riempimento dell’invaso, che avrà una capacità finale di ben 74 miliardi di litri d’acqua, comporterà una sottrazione di acqua dal normale flusso del fiume, causando una significativa diminuzione della fruibilità da parte dei Paesi africani a valle della diga, più precisamente Sudan ed Egitto, interessando oltre cento milioni di abitanti, tutti dipendenti più o meno direttamente dal Nilo. Il Cairo, nel ritenere che un riempimento condotto rapidamente potrebbe causare un’insufficiente portata durante i mesi estivi e una conseguente gravissima emergenza idrica, economica e sociale alle popolazioni, chiede con forza che il riempimento avvenga molto lentamente e che interessi un periodo di non meno di undici anni, meglio se quindici. L’Etiopia, invece, avendo come obiettivo di iniziare la produzione idroelettrica quanto prima possibile, si sta organizzando affinché il riempimento del bacino avvenga in un periodo sensibilmente inferiore, tra i quattro e i sette anni. La questione ha intuibili importanti implicazioni di sicurezza nazionale per l’Egitto e l’intransigenza di Addis Abeba rischia di trascinare l’intera regione in una disputa dagli esiti imprevedibili, con possibili eventuali azioni muscolari da una parte e prevedibili controreazioni dall’altra. Prima di diventare Segretario Generale delle Nazioni Unite, l’allora Ministro degli Esteri egiziano Boutros Boutros-Ghali, ha affermato senza mezzi termini che “…l’unica cosa che potrebbe ancora portare l’Egitto in guerra sarebbe il tentativo dell’Etiopia o di qualunque altro Paese di deviare il corso del Nilo…”. Tutto ciò ci preoccupa e ci interessa, perché avviene in una parte del mondo già afflitta da enormi problemi politici, economici e sociali, che non ha alcun bisogno di ulteriori tensioni. Una diatriba che rischia di innescare nella regione una guerra dell’acqua che avrebbe inevitabili ripercussioni politiche ed economiche anche sui paesi del Mediterraneo.

Il problema della disponibilità di risorse d’acqua è molto sentito anche nel Medio Oriente. Alcune analisi demografiche indicano che la crescita della popolazione in territori notoriamente poveri di acqua come Iraq, Siria, Giordania e Arabia Saudita ammonta al 3-4% all’anno. Ciò significa che, nei prossimi venti anni, la popolazione di questi Stati raddoppierà. Tale fatto, unito alla crescita demografica di Paesi come Turchia, Libano, Kuwait o Israele, il cui rateo di crescita è di circa 1,5-2%, comporterà una crescente richiesta di acqua, a fronte di una sua prevista diminuzione per effetto della siccità indotta dal cambiamento climatico, ponendo con molta probabilità tali Paesi al di sotto della disponibilità minima di acqua pro-capite. Se si tiene conto che tutta l’area mediorientale dipende dalla capacità di soli sei bacini idrici (Tigri, Eufrate, Nilo, Giordano, Oronte e Leonte), che sono peraltro in condominio tra vari Paesi, si comprende come il problema della suddivisione delle risorse idriche sia molto sentito e rappresenti un aspetto estremamente complesso dei rapporti tra Stati.

In tale ambito, particolare delicatezza riveste il bacino idrico del Giordano, la cui riserva di acqua è fondamentale per la Giordania e per Israele e che secondo John K. Cooley, un corrispondente americano, è stato la reale origine della guerra del 1967, causata dall’infruttuoso tentativo di dirottare il suo corso a monte verso territori completamente arabi, con l’obiettivo di privare Tel Aviv di una risorsa vitale. In tale ambito, l’occupazione delle alture del Golan ha consentito a Israele di scongiurare futuri simili tentativi e gli ha permesso, inoltre, di accedere all’altrimenti inaccessibile fiume Yarmuk, il principale affluente del Giordano.

Ma c’è un’altra area del mondo dove l’approvvigionamento di acqua dolce ha rappresentato motivo di conflitto in passato e dove potrebbe esserlo in futuro. Nel 1947 il fiume Indo rappresentava la linea di demarcazione del confine tra India e Pakistan. Un anno dopo la provincia indiana del Punjab tentò di proclamare la sua sovranità sulle acque che transitavano sul suo territorio, dirottando a proprio uso il flusso di due canali che fornivano acqua al territorio pakistano. La disputa che ne nacque per poco non provocò una guerra, ma fu fortunatamente risolta dopo 13 anni di intensi incontri diplomatici, con la firma di un Trattato per un equo approvvigionamento dei due Paesi.

Anche l’accesso alle acque dei bacini del Mekong e del Gange hanno già causato accese dispute che solo per caso non sono ancora sfociate in conflitto armato tra Tailandia, Cambogia, Vietnam e Laos nel primo caso e tra India e Bangladesh nel secondo. Sulla prima via d’acqua, dalle sorgenti cinesi fino all’immenso delta vietnamita, dalla quale dipendono la vita e le attività di circa 340 milioni di persone, si gioca ancora oggi una partita strategica per gli spazi e le risorse idriche da destinare all’energia, all’agricoltura, ai commerci, alla difesa. Una partita che non si è ancora conclusa con un accordo tra le parti e che lascia aperti numerosi interrogativi circa la possibile evoluzione futura, visto che quelle riserve idriche potrebbero complessivamente diminuire.

Anche la Cina ha sete e abbondante bisogno di acqua, sia per il suo miliardo e mezzo di abitanti, sia per le sue attività agricole e industriali. Il bacino del Fiume Giallo e parte dello Yangtze Kiang non riuscivano a sopperire al fabbisogno nazionale, anche perché il primo era soggetto a forte inquinamento (oggi è così pieno di scarichi tossici che a volte fatica ad arrivare al mare). La Cina risolse il problema nel 1951 con il suo consueto approccio autoritario, occupando militarmente il Tibet e assicurandosi il controllo di un enorme serbatoio d’acqua, con le sorgenti del Fiume Giallo, dello Yangtze Kiang e del Mekong. Da allora il Dalai Lama conduce una battaglia politica contro l’occupazione di quel territorio, sostenuta con diversa intensità da buona parte della comunità internazionale, ma la seconda economia globale, che si appresta a diventare la prima della classe, non sembra avere l’intenzione di andarsene da quelle montagne, avendo anzi avviato un programma di colonizzazione del Tibet da parte dei cinesi di etnia Han. Per Pechino non si tratta di una questione di diritti umani, ma di una questione di approvvigionamento idrico e di sicurezza geopolitica, per cui pensa che la lotta del movimento per la libertà del Tibet stia solo tentando di mettere a repentaglio la sicurezza nazionale. Ciò nonostante, il ritmo di crescita industriale del Paese, e il conseguente crescente fabbisogno idrico, lascia intravvedere la possibilità di nuovi contrasti per il reperimento di ulteriori fonti.

Come abbiamo visto, le controversie correlate alla minore disponibilità di acqua sono molteplici, ma non sono le sole conseguenze dei cambiamenti climatici. A quanto detto, infatti, si aggiungeranno in maniera sempre più significativa gli effetti della diminuzione delle aree coltivabili per effetto della desertificazione dovuta alla crescente siccità. Già oggi, per esempio, la parte settentrionale del deserto del Sahara si sta spostando sempre più a nord, ricoprendo di sabbia le aree fertili del Marocco. La perdita di sempre più vaste aree ora utilizzate per l’agricoltura e per l’insediamento urbano avrà intuibili implicazioni produttive e sociali, ampliando sensibilmente il fenomeno delle migrazioni clandestine di massa verso nord, già oggi di drammatica attualità, e mettendo sotto ulteriore pressione il sistema sociale dei Paesi di destinazione dei migranti.

Da non sottacere che tali migrazioni di massa verranno abilmente sfruttate anche dai gruppi criminali e dai terroristi, che coglieranno tali occasioni per sviluppare le loro attività illecite (anche la stessa tratta dei migranti clandestini) o per infiltrarsi nei Paesi “bersaglio” dei loro attentati, causando ulteriore instabilità e tensioni sociali.

Anche secondo le Nazioni Unite, la diminuzione della disponibilità di risorse idriche e la riduzione delle terre coltivabili saranno sempre più causa di conflitto, sia interno che tra Stati.

Se è vero come è vero che gli esseri umani non possono fermare i cambiamenti climatici più di quanto non possono variare la temperatura del Sole, hanno certamente la possibilità di influire sulla velocità con cui progrediscono tali cambiamenti, adottando comportamenti virtuosi che permettano al nostro ambiente di far fronte alle naturali variazioni di temperatura, rallentandoli o mantenendo queste fluttuazioni entro i limiti di sostenibilità della vita.

Perché una cosa è certa, continuando sulla strada dell’indifferenza indirizzeremo questo pianeta verso situazioni di cui non sappiamo l’evoluzione, e i cui imprevedibili esiti potrebbero condurci a devastanti tensioni sociali e al confronto violento generalizzato, facendoci pagare un prezzo salatissimo per la nostra stupidità. Come insegnano i dinosauri, quando ci sono grandi cataclismi ambientali chi paga il prezzo maggiore sono proprio agli animali più grandi, umani inclusi, mentre i microrganismi trovano sempre e comunque il sistema per sopravvivere.

La Terra ha un’enorme capacità di recupero, e le statistiche emerse durante il lockdown mondiale per coronavirus ne sono un lampante esempio, ma l’ingordigia umana la sta mettendo a durissima prova. La sconsiderata cancellazione delle foreste pluviali tropicali, la metodicità con cui consumiamo le risorse marine, l’incessante e meticolosa distruzione degli habitat del globo, il consumo indiscriminato di acqua e l’inquinamento dei mari e delle falde di acqua dolce non fanno altro che aumentare la velocità con cui il clima cambia.

La storia geologica della Terra ci dice che il riscaldamento globale, lo scioglimento dei ghiacci polari, l’aumento del livello del mare non sono una novità. La Terra ha vissuto oltre 4,5 miliardi di anni di trasformazioni violente prima che arrivassimo noi ad aggiungere problemi e ad alterarne gli equilibri per pura voracità. Dobbiamo prendere coscienza che stiamo andando verso un progressivo peggioramento della situazione ambientale e verso uno squilibrio crescente nella distribuzione delle risorse, idriche in particolare.

Alla conferenza di Parigi (COP21), tenutasi nel dicembre 2015 con la partecipazione di 198 Paesi, si è affermato il principio che i problemi in materia ambientale hanno implicazioni che riguardano tutte le economie e tutte le società. Oggi, di fronte al fenomeno di crescente surriscaldamento del pianeta e alle conseguenze sempre più gravi che ne derivano per l’ecosistema nel suo complesso e per la pacifica convivenza dei popoli, si avverte l’esigenza di una più convinta azione internazionale, alla quale partecipino tutti i governi del mondo, ognuno per la propria parte di responsabilità. Di fronte a problemi globali come i cambiamenti climatici e alla scarsità delle risorse sono quindi necessarie risposte altrettanto globali, come è chiaro che è necessario anche un alto grado di coesione e di volontà politica, soprattutto da parte dei Paesi avanzati, per attenuare i conflitti correlati alle implicazioni dei cambiamenti climatici.

La lotta contro gli effetti di un così veloce cambiamento climatico non è solo una questione scientifica, tecnologica o economica. È anche una questione geostrategica, una questione che potrebbe influire sulla sicurezza degli Stati in maniera molto più profonda di quanto possono fare il terrorismo o la proliferazione delle armi di distruzione di massa.

Nel 2007 il premio Nobel per la pace è stato attribuito congiuntamente ad Al Gore e al gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite (Intergovernmental Panel on Climate Change - IPCC), un chiaro messaggio geopolitico che ha finalmente messo al centro dell’attenzione della comunità internazionale la protezione ambientale e le sue strette correlazioni con la pace e la sicurezza globali.

Qualunque cosa faremo, quindi, non sarà per “salvare il pianeta”, ma per salvare noi stessi dalle conseguenze delle nostre azioni sconsiderate.

c.v. pil (ris) Renato Scarfi

Foto: U.S. Coast Guard / web / FAO