Ha senso parlare di identità italiana?

Esiste un’identità italiana? Se sì, quali sono i suoi tratti caratteristici?

Molti hanno tentato di darvi risposta; tra questi Ernesto Galli della Loggia, storico, docente ed editorialista del Corriere della Sera, che nel 1998 vi dedicò un breve studio, ripubblicato lo scorso anno per il Mulino (L’identità italiana, pagg. 199).

Un gran bel testo, che colpisce ancora oggi per la profondità dell’analisi e la sobrietà della prosa.

Affrontare il tema dell’identità di una nazione riporta obbligatoriamente a una rilettura storica degli eventi che hanno plasmato il suo carattere.

Un motivo in più per riproporre oggi la lettura di un testo come questo, in un momento storico in cui un’emergenza pandemica di rara portata e la necessità di ricostruzione del tessuto economico del Paese, pongono ancora una volta gli Italiani, 75 anni dopo, innanzi alla percezione di essere comunque parte di una stessa comunità.

Scelta tutt’altro che scontata in una insieme di genti che, nonostante sia quella che più di tutti ha plasmato la civiltà e la storia del continente, è stata l’ultima a farsi (o ad esser fatta) Stato.

Nel filo logico dell’autore, per ricercare le origini della nostra identità non si può non partire dall’eredità di Roma e da quella, profonda e rivoluzionaria, del Cristianesimo, dalle quali questa ha attinto a piene mani.

Innanzitutto nel tratto principale che più ci accomuna, la centralità della famiglia, coniugata molto spesso sotto forma di “familismo” che abbraccia anche la più ampia sfera delle relazioni amicali e professionali (Non è un caso se l’esempio più recente di successo nazionale, la nostra capacità imprenditoriale, sia perlopiù di tipo familiare, con un campione globale come FCA, che dopo oltre un secolo dalla fondazione è ancora saldamente nelle mani della famiglia Agnelli).

Ma l’eredità di Roma è anche lascito urbano, rilevabile nelle colonne e negli archi delle nostre città, e nella rigida centuriazione del contado, ancora osservabile a distanza di così tanti secoli.

È un’eredità di forme, di canoni estetici che ritroviamo negli stili architettonici italiani successivi, che caratterizzeranno l’identità stessa delle nostre realizzazioni urbanistiche, con la quale gli Altri ci vedono.

Sarà un legame, quello con Roma, che si rinsalderà ulteriormente nel XIII secolo con la riscoperta, da parte dei glossatori dell’università di Bologna, del diritto romano (il corpus iuris di Giustiniano), che da quel punto in poi diventerà in tutta Europa lo strumento principale con cui l’autorità imperiale e regale eserciterà le proprie prerogative.

Una riscoperta che ebbe anche il singolare risultato di produrre negli abitanti della penisola una qualche riserva, ancora oggi diffusa da nord a sud, e quindi anch’essa dal tratto identitario, non tanto verso la legge, quanto verso le garanzie che essa dovrebbe sortire.

È probabilmente in quegli anni che si forma la convinzione, tutt’ora largamente presente, che la legge sia materia per addetti ai lavori, oggetto di una ristretta cerchia di soggetti dediti alla sua tanto necessaria quanto vaga “interpretazione” (da cui il detto ancora oggi esistente: la legge si applica per i nemici e si interpreta per gli amici), svolta nell’ambito di una pratica forense che, nel senso comune, attiene più alla categoria delle arti che a quella dei mestieri.

Vero è che la funzione legale divenne prerogativa di un notabilato di stampo corporativo avente criteri di formazione e gestione del potere di tipo familistico, che andò ad aggiungersi agli altri poteri oligarchici presenti nella società.

Anche il Cristianesimo, secondo Galli della Loggia, occupa un ruolo preminente nella costruzione della nostra identità: come parte fondativa della cultura letteraria e artistica, e per la sua profonda influenza nel dominio di quei valori, come solidarietà e fratellanza, che come nessun altro sono stati in grado di dominare le teste e i cuori delle genti.

Senza scordare, da un lato il ruolo di contrappeso della Chiesa nei confronti degli altri poteri civili e il suo essere l’istituzione “politica” (pensiamo al ruolo dei vescovi) che per ben 8 secoli, dal V al XIII secolo, ha rappresentato nella penisola l’unica forma di autorità endogena, e quindi tipicamente italiana; dall’altro, l’aver sempre costituito un ostacolo a qualsivoglia tentativo di unificazione politica della penisola.

Quando questa avvenne, il divario nord-sud irruppe sulla scena nazionale con tutta la sua tragicità.

Prima di allora la nostra pur fragile identità nazionale era andata sviluppandosi sull’asse oriente-occidente determinato dallo sviluppo longitudinale della penisola che vede il nostro sud essere sostanzialmente un sud-est, una propaggine dell’Oriente europeo (Grecia) e di quello asiatico (Bisanzio).

Per circa un millennio, la storia della penisola si era andata sviluppando sui due versanti in modo indipendente, con Venezia protesa a oriente, e quindi ai Balcani e all’Asia; e Genova proiettata verso la Francia, Spagna e le principali direttrici commerciali del continente.

E non era certamente per caso se gli stessi Romani consideravano Italia solo la sua parte tirrenica, chiamando col nome di Greci e di Celti gli abitanti della dorsale adriatica.

Il divario tra il settentrione e il meridione del Paese fu socio-politico prima ancora che economico.

Se la società del sud era andata nel tempo consolidandosi attorno al trinomio “dinastia regnante - proprietari latifondiario - notabiliato”, senza che alcun tipo di borghesia venisse a reclamare un proprio ruolo, e nella totale insignificanza della componente popolare, nel centro nord, l'epoca dei comuni aveva comportato il sorgere di numerose municipalità nelle quali le oligarchie locali furono intente a perseguire i propri interessi commerciali ed economici in stretta coordinazione con le corporazioni professionali.

Questa cooperazione all’ombra degli arenghi pose le basi di un radicato e condiviso senso civico, fatto di rituali pubblici, di simbolismi come l’effige del Comune spesso recante la parola latina Libertas, della venerazione di santi locali, e, non ultimo, della funzione anche politica svolta dal vescovo locale.

In quei contesti cittadini del centro nord si creò parte importante della nostra identità, che fu “comunale” certo, ma al tempo stesso “comune” a una parte importante dell’Italia, che Plinio il vecchio, non a caso amava definire come: una cunctarum gentium patria (una patria di molte genti).

Il neo costituito Regno d’Italia si trovò quindi in dote due tipi diversi di società, aventi in comune pochi elementi (costituenti anch’essi tratti identitari): come la povertà, una furbizia innata e il ricorrente individualismo, scaturiti tutti da un panorama agricolo poco generoso, ma anche dal succedersi delle numerose potenze straniere regnanti che mai ebbero a cuore le sorti dei sudditi italiani e delle oligarchie locali che di queste gestivano il potere.

Questi sono solo alcuni dei tratti che secondo l’autore vanno a comporre l’identità di noi italiani, ma ad essi se ne potrebbero aggiungere molti altri.

Come l'incapacità della cultura di svolgere un ruolo proattivo nel dipanarsi dei processi storici lasciando alla sola politica il compito di determinare tempi e modi (l’unità nazionale fu il frutto dell’ iniziativa politica e non di un processo culturale coinvolgente le masse).

Ma anche l’assenza di una classe dirigente che avesse il senso dello stato quale dimensione somma cui ispirare il proprio operato.

Di quest’ultima, in effetti, sentiamo ancora oggi un disperato bisogno.