Spesa militare: I numeri di un luogo comune

04/05/15

Riguardo all’industria della difesa una particolare importanza viene attribuita al concetto “dual use”, ovvero la possibilità di un impiego sia civile che militare di un prodotto o di una tecnologia.

Si tratta di un concetto che vanta radici storiche profonde se si pensa che Adam Smith, in “La ricchezza delle nazioni” pubblicato nel 1776, per spiegare le ragioni alla base della divisione del lavoro (cfr. libro I, capitolo II), fa l’esempio di un individuo che ha più rapidità e destrezza degli altri nel realizzare archi e frecce, fin dall’antichità utili nella caccia ma anche nelle guerre contro tribù o popolazioni nemiche.

Anche la spesa militare presenta una sua dualità, è un indicatore dei rapporti di forza tra gli stati che agiscono nel quadro delle relazioni internazionali, per cui ha un alto valore politico-strategico, ed è collegata direttamente agli interessi geopolitici di cui è allo stessa tempo strumento ed espressione ma rappresenta anche un’importante voce della spesa pubblica e quindi una leva macroeconomica in mano ai governi, attorno alla quale si consuma una battaglia tra una pluralità di interessi industriali e finanziari per aggiudicarsi contratti di fornitura e commesse, certamente per la validità dei progetti ma anche grazie al peso dei propri referenti politici.

Del resto i prodotti dell’industria degli armamenti sono pur sempre merci e chi li fabbrica deve comunque venderli partecipando alla lotta per la propria quota di mercato nazionale e internazionale. La componente politico-strategica rende irrinunciabile la spesa per la difesa e mediamente garantisce maggiore stabilità rispetto ad altri ambiti ma non può mettere del tutto al riparo dalla fisiologica alternanza di espansione e recessione (o comunque fasi di rallentamento) del ciclo economico mondiale e dalle implicazioni dei ritmi differenziati degli stati che lo compongono.

Coloro che aderiscono alle associazioni pacifiste e si impegnano nelle campagne per il disarmo e chi, dall’altra parte, sostiene la necessità e ribadisce l’importanza di un efficiente complesso militare-industriale nazionale, sembrano concordare almeno su un punto sintetizzato da quello che ormai è diventato un luogo comune secondo cui saremmo in presenza di “un settore che non conosce crisi”. Come tutti i luoghi comuni anche quello in questione presenta un eccesso di semplificazione ma non manca di cogliere un aspetto che ha un suo fondamento concreto.

Nel cercare di stabilire quanto ci sia di vero in questa affermazione una buona occasione viene offerta dalle ripercussioni sull’industria della difesa, di quella che viene definita la più grave crisi economica dal 1929, le cui prime avvisaglie si sono avute tra la fine di febbraio e i primi di marzo del 2007 con l’inizio di una parabola discendente del prezzo delle abitazioni negli Stati Uniti che farà emergere le difficoltà delle società fornitrici di prestiti subprime New Century Financial (secondo operatore USA nel prestito immobiliare con 60 miliardi di ipoteche che dichiarerà bancarotta nell’aprile dello stesso anno), e Accredited Home Lenders Holding, le quali registreranno un dimezzamento dei loro valori di borsa con annesso interessamento della Security Exchange Commission (autorità di vigilanza della finanza statunitense).

Nell’estate successiva la situazione si aggrava con il fallimento della American Home Mortgage che gestiva patrimoni per 20 miliardi di dollari. Sul versante europeo la IKB di Düsseldorf viene salvata dall’intervento di un pool di banche tedesche con 15 miliardi di euro, nei primi di agosto BNP Paribas annuncia il congelamento di tre suoi fondi per le difficoltà di rimborso delle quote dei propri clienti. La data che però convenzionalmente segna il precipitare della situazione, è il 15 settembre 2008 che vede il fallimento di Lehman Brothers, una delle 5 grandi banche d’affari di Wall Street.

Queste ultime, fino allo scoppio della bolla immobiliare veri punti di riferimento di quella che comunque resta la principale centrale finanziaria mondiale, come ormai tutti sanno non esistono più: Bear Stearns e Merrill Lynch sono state salvate attraverso delle acquisizioni pilotate dalla Federal Reserve, rispettivamente da JP Morgan e Bank of America, Goldman Sachs e Morgan Stanley hanno mantenuto la loro autonomia ma operando una modifica statutaria che ha sancito l’abbandono della specializzazione come banche d’affari riavvicinandole all’attività delle banche commerciali. Inutile dilungarsi nell’elenco dei colossi della finanza coinvolti ma vale la pena ricordare il caso dell’American International Group, primo gruppo assicurativo mondiale, salvato dall’intervento del governo USA con un’operazione che non mancherà di suscitare polemiche assieme alla nazionalizzazione delle due società del credito ipotecario, già semipubbliche, Fannie Mae e Freddie Mac.

Questo tanto per richiamare a grandi linee la portata della deflagrazione che ha interessato i mercati finanziari internazionali e la cui onda d’urto non poteva non investire l’economia reale. L’industria della difesa si trovava già nel corso di una ristrutturazione (così come il proprio committente di riferimento), resa necessaria dal mutamento del quadro delle relazioni internazionali prodotto dal venir meno dell’ordine di Yalta, ed è su questo processo che si è inserita la grande crisi economico-finanziaria detta dei “mutui subprime”.

Quindi volendo testare la resilienza del mercato della difesa rispetto agli avvenimenti del quadro economico complessivo, si possono mettere innanzitutto a confronto, rimanendo in termini generali per evitare di essere sopraffatti da una pletora di cifre, alcuni dati relativi al ciclo economico mondiale e i loro corrispettivi in termini di mercato della difesa. Questo comporta una noiosa ma irrinunciabile avvertenza di metodo.

Come in molti sottolineano, i dati forniti dall’indagine statistica si prestano ad essere impugnati per sostenere posizioni diverse, non di rado contrapposte, perché contrariamente a quanto si potrebbe pensare trattandosi di numeri, questi non costituiscono necessariamente punti di riferimento oggettivi nello studio dei fenomeni sociali. Così le diverse parti in causa elaborano letture differenti dei dati mettendo maggiormente in risalto le rilevazioni ritenute più utili a sostenere il proprio punto di vista, tanto che i detrattori della statistica arrivano a sostenere che questa è di per sé falsa e quindi inutile perché fatta di medie che quasi sempre sono “medie del pollo”. Un tipico terreno di scontro in tal senso, ad esempio tra le forze politiche di governo e di opposizione, è rappresentato dalla chiave di lettura degli indicatori economici che sintetizzano i livelli di occupazione, tassazione e reddito delle famiglie.

Per rincarare la dose si sottolineano poi le difficoltà che si incontrano nel reperire informazioni da cui ricavare riferimenti quantitativi attendibili e ciò vale a maggior ragione per lo specifico margine di incertezza che contraddistingue i dati relativi alla spesa militare, trattandosi di dati molto sensibili, tanto che in un certo senso si può ritenere che la “nebbia della guerra” si manifesti (ancora prima che sul teatro operativo), già a partire dalla determinazione del livello di risorse destinate da ogni stato al proprio dispositivo militare nonché alla sua ripartizione fra i diversi servizi armati.

D’altra parte l’industria della difesa non è certo l’unico settore che presenta, oltre ad una non trascurabile importanza economica, anche un notevole valore strategico per uno stato, si pensi alle telecomunicazioni, ai trasporti o alle risorse energetiche, quest’ultimo spesso ritenuto il settore geopolitico per antonomasia (“chi si occupa di petrolio fa politica e in particolare politica estera”, è una delle frasi attribuite ad Enrico Mattei e celebrata anche sul grande schermo da Francesco Rosi).

Tirando le somme, pur con tutte le dovute cautele e la consapevolezza che la sintesi statistica non può fornirci l’esatta rappresentazione della realtà, senza riferimenti quantitativi ogni confronto diventerebbe solo scontro fra tesi indimostrabili. Quindi alla fine le statistiche vanno prese per quello che sono: medie con valore descrittivo dei fenomeni che si intende indagare e perciò pur sempre utili nell’individuare delle tendenze.

L’implosione dell’URSS con il conseguente mutamento prodottosi nei rapporti tra potenze, ha innescato un processo di riduzione della spesa militare mondiale che ha interessato pressoché tutti gli anni ’90 toccando il suo punto di minimo nel 1998 (833 miliardi $ cost. 2005)

Secondo i dati elaborati dal SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), tra il 1989 e il 1998 i bilanci militari si sono ridotti del 22,1% in termini reali, invertendo così la tendenza al continuo aumento verificatasi tra il 1949 e il 1989. Questo dato complessivo è la risultante di andamenti differenziati dai quali emerge come il consistente calo delle spese militari che ha interessato gli anni ’90 sia dovuto in gran parte alla scomparsa dell’URSS e alla disgregazione del Patto di Varsavia. Il livello minimo delle spese militari fatto registrare dalla Federazione Russa nel 1998 (anno della grave crisi finanziaria che ha portato la Russia al default con conseguente intervento del FMI), è stato di 7,1 miliardi di dollari (cost. 2000), il che implica una riduzione del 93% rispetto ai 101 miliardi di dollari del 1988. Nello stesso periodo il dato corrispettivo relativo ai paesi NATO ha fatto registrare un più contenuto, per quanto pur sempre rilevante, -26,5%.

Come si ricorderà questo decennio di riduzione della spesa militare mondiale aveva suscitato un moto di ottimismo nei sostenitori delle politiche di disarmo che vedevano nel calo delle spese militari una conferma oggettiva della realizzabilità delle proprie aspirazioni. Del resto, in base alla logica secondo cui la corsa agli armamenti era determinata dalla competizione tra i due blocchi guidati da USA e URSS, essendo venuto meno quello sovietico, anche il campo di forze occidentale in mancanza di un nemico (o almeno di un grande nemico), poteva procedere al disarmo riorientando le ingenti risorse investite in armi e ricerca militare verso settori più produttivi e gratificanti dal punto di vista etico e morale. Per descrivere questa situazione era stata coniata la formula di “dividendo della pace”, un dividendo che si è rivelato però ben presto difficile da incassare.

Osservando i dati emerge come – eccettuato il caso particolare della Russia e del suo “vicino estero” – gli anni ’90 non abbiano rappresentato altro che una fase di adeguamento produttivo, di riposizionamento per gamma di prodotti e mercati di riferimento dei gruppi dell’industria della difesa, più che l’adesione ad una politica di disarmo. Anzi, non ha mai fatto difetto agli operatori del settore armiero una certa dose di ottimismo verso un ritorno alla crescita, basata sulla convinzione di avere la storia dalla propria parte. Nei primi anni ’90 Norman Ralph Augustine (foto), presidente di Martin Marietta (fusasi nel 1994 con Lockheed), dichiarava: “Io credo che la difesa ritornerà, ho letto i libri di storia, la natura umana non è cambiata nel 1992”.

In effetti le aspettative di Augustine non saranno disattese e già a partire dal 1999 la spesa militare globale tornerà ad aumentare fino al 2012, anno in cui in dollari correnti arriverà a 1.756 miliardi, segnando una riduzione dello 0,4% in termini reali rispetto al 2011 e comunque si tratta di un valore superiore a quello di un qualunque anno dalla fine della seconda guerra mondiale al 2010 (cfr. SIPRI Yearbook 2013).

I dati elaborati (in dollari costanti 2011) nello studio di Sophie Durut e Luc Mampay confermano questo andamento, con una spesa militare mondiale che mantiene il suo trend rialzista fino ai 1.749,0 miliardi di $ del 2011 per poi calare a 1.739,5 l’anno successivo (cfr. Les rapports du GRIP ; Dépenses Militaires, Production et Transferts d’Armes. Compendium 2014).

Nel febbraio del 2009 la capitalizzazione dei mercati azionari era caduta del 50%, la produzione industriale mondiale del 13% e il commercio internazionale faceva registrare un calo del 20%. Nonostante l’inizio, dalla primavera successiva, di una timida ripresa sostenuta dall’intervento degli stati, il 2009 si chiuderà con un calo del PIL globale dello 0,4%, il primo segno meno dalla seconda metà degli anni ’40 (cfr. Rapporto ISTAT, aprile 2014). Alla fine dello stesso anno la spesa militare mondiale segnerà un incremento del 6% mantenendo il segno positivo anche nei due anni successivi, seppur con cifre più contenute.

Tabella 1 – Prodotto Mondiale Lordo, Spesa militare globale

  2008 2009 2010 2011 2012 2013
PIL Mondo var.% dati in volume 2,7 -0,4 5,2 3,9 3,2 3,0
Spesa mil. var. % termini reali 4,0 6,0 1,3 = -0,4 -1,9
PIL Mondo MLD $ correnti 61.000 56.704 62.692 69.520 70.240 72.792
Spesa militare, MLD $ correnti 1.464 1.531 1.630 1.738 1.756 1.747
 

Fonti : SIPRI Yearbook 2009-2014 ; Rapporto ISTAT aprile 2014 ; Sophie Durut e Luc Mampaey, “Les rapports du GRIP. Dépenses militaires, production et transferts d’armes” Compendium 2014 ; Chiara Bonaiuti e Achille Lodovisi (a cura di), “Sicurezza, controllo e finanza. Le nuove dimensioni del mercato degli armamenti” Jaca Book 2009.

Dal confronto (a valori correnti) dell’andamento del PIL mondiale con la spesa militare risulta che nel periodo 2008-2012 quest’ultima ha continuato a crescere ad un ritmo superiore (19,9%) rispetto alla produzione di ricchezza complessiva (15,5%), quindi sembrerebbe che i bilanci militari non abbiano risentito della crisi. Osservando i dati relativi alle diverse aree geoeconomiche che compongono il quadro generale, si può notare che la dinamica in questione è un po’ più complicata.

Considerando il 2008 come misura di taglio si può osservare che nei quattro anni post-crisi tutte le grandi aree regionali segnano un rallentamento del ritmo di crescita della spesa militare rispetto al quadriennio precedente, con il continente europeo che è l’unico a mostrare il segno meno, in particolare per la riduzione della spesa nell’Europa occidentale e centrale mentre quella orientale si mantiene in crescita. Come si è visto (tabella 1) la tendenza generale alla riduzione si accentua nel 2013 con un ulteriore calo in termini reali dell’1,9%.

In questa situazione di rallentamento generale fa eccezione il Medio Oriente con in testa Oman, Arabia Saudita e Kuwait, che nel solo 2012 incrementano la propria spesa militare rispettivamente del 51%, 12% e 10%. In particolare Riyad nel decennio 2003-2012 ha raddoppiato il bilancio della difesa. Questo è il risultato, da una parte del vantaggio garantito dalla rendita petrolifera (il movimento di forte ribasso del prezzo del petrolio è iniziato nella seconda metà del 2014), che ha permesso di limitare gli effetti della crisi mondiale, e dall’altra dell’attivismo di alcune potenze regionali, in particolare l’Iran, che alimenta la tendenza al riarmo. L’area mediorientale si conferma un centro nevralgico all’interno del più ampio “arco di crisi” (per dirla con Brzezinski) che va dal Maghreb al Pakistan.

Dunque si può ritenere che la crisi finanziaria della seconda metà degli anni 2000 non abbia fatto emergere una sorta di “decoupling” tra le due dinamiche messe a confronto che avrebbe significato un andamento della spesa militare del tutto svincolato dal ciclo economico mondiale. In realtà i rispettivi indicatori si dimostrano correlati e le conseguenze della crisi si faranno sentire anche sui bilanci legati alla difesa seppur con un effetto ritardato di qualche anno rispetto alla contrazione di : PIL globale, commercio internazionale e capitalizzazione borsistica del 2009.

La flessione, in termini reali, dei bilanci della difesa nel 2012, dopo un sostanziale stallo nel 2011, è il combinato disposto della crisi finanziaria e delle misure finalizzate alla riduzione dei deficit pubblici (le famose politiche di austerità) da una parte, e dall’altra del mutamento della situazione riguardante le operazioni militari in corso, in particolare in rapporto ai piani di ritiro da Afghanistan e Irak.

Tabella 2 – Miliardi $ cost. 2011

  2004 2005 2006 2007 2008 var. % 2004-2008 2009 2010 2011 2012 var. % 2008-2012
Africa 23,2 24,2 25,9 26,6 30,3 30,6 31,6 33,6 37,1 38,3 26,4
America 620,1 651,5 665,1 685,4 736,9 18,8 793,4 817,2 807,9 767,6 4,2
Asia e Oceania 246,8 260,1 275,2 295,8 312,3 26,5 348,5 355,3 369,5 381,5 22,2
Europa 382,6 387,0 397,2 407,8 419,2 9,6 428,4 418,6 410,5 418,6 -0,1
Europa Occidentale 311,7 307,9 310,2 312,3 318,5 2,2 325,9 315,8 301,6 296,4 -6,9
Europa Orientale 48,3 55,5 63,0 70,0 76,6 58,6 78,9 80,2 87,0 100,3 30,9
Europa Centrale 22,5 23,6 24,0 25,5 24,2 7,6 23,6 22,6 22,0 21,9 -9,5
Medio Oriente 91,3 100,0 106,6 112,5 109,7 20,2 112,4 118,5 123,3 133,6 21,8
 

Fonte, elaborazione dell’autore da : Sophie Durut e Luc Mampaey, « Les rapports du GRIP. Dépenses militaires, production et transferts d’armes » Compendium 2014

Comunque sia il futuro sembra promettere bene visto che, secondo i primi dati pubblicati, il 2014 ha segnato un ritorno alla crescita che mancava dal 2010 (con un aumento dell’1,7% secondo quanto riportato ad esempio dal Military Balance). Naturalmente il dato aggregato è il risultato di componenti parziali diseguali che confermano una tendenza verso il mutamento dei pesi relativi delle forze in campo e le maggiori attenzioni restano (cosa che orami non sorprende nessuno) riservate alla Cina che, pur essendo in rallentamento con una crescita del PIL che ha abbandonato la doppia cifra per attestarsi ad un sempre rispettabile 7%, ha dichiarato un incremento della propria spesa militare del 10% raggiungendo i 126 miliardi di dollari, secondo le stime comunicate dall’ Agence France Presse.

Naturalmente per le imprese del settore non significa che vi sarà una fase di facili guadagni, anzi, la lotta per gestire programmi ed accaparrarsi commesse annuncia un ulteriore inasprimento che richiederà competitività e massa critica adeguate ad uno scacchiere internazionale dove la definizione di un nuovo ordine mondiale dipenderà innanzitutto dai rapporti multipolari tra potenze di stazza continentale.

Leonardo Chiti

(foto: IDEF'13)