USA: Terrorismo Internazionale, Stati Sostenitori e Realpolitik

(di Vittorfranco Pisano*)
27/03/24

Un notevole aspetto del terrorismo contemporaneo, sorto negli Anni Sessanta del secolo scorso, è la frequenza degli attentati posti in essere da attori stranieri contro cittadini, beni ed interessi degli Stati Uniti d’America particolarmente all’estero. Questo fattore ha sostanzialmente influito tanto sulla terminologia quanto su specifiche contromisure adottate dal governo di Washington.

Il Dipartimento di Stato, ovvero il dicastero degli affari esteri, parimenti alla Central Intelligence Agency (CIA), il principale servizio federale di sicurezza con compiti informativi all’estero, definisce tre termini collegati fra loro, ossia terrorismo, terrorismo internazionale e gruppo terroristico, inquadrandoli nel modo seguente:

Il termine terrorismo” significa violenza premeditata e politicamente motivata, perpetrata contro obiettivi non combattenti da gruppi subnazionali o agenti clandestini.

Il termine “terrorismo internazionale” significa terrorismo in cui sono coinvolti cittadini o territorio di più di uno Stato.

Il termine “gruppo terroristico” significa qualsiasi gruppo che pratica, o che dispone di sottogruppi consistenti, che praticano il terrorismo internazionale.

L’utilizzo dell’espressione non combattenti nella predetta definizione del terrorismo ha necessitato una delucidazione da parte del Dipartimento di Stato, il quale indica come tali oltre ai civili, il personale militare (sia o meno armato, sia o meno in servizio) non dispiegato in una zona di combattimento o in un ambiente assimilabile alla guerra.

La convinzione che l’appoggio diretto o indiretto di Stati sostenitori abbia incrementato la pericolosità di diverse aggregazioni terroristiche ha indotto gli USA ad imporre sanzioni economiche nei confronti di questi Stati. Infatti, una normativa del 1979 sul commercio estero – Export Administration Act prevede tali sanzioni contro i Paesi periodicamente elencati dal Governo statunitense nella cosiddetta terrorism list, ufficialmente nota come State Sponsors of Terrorism. Fra le sanzioni applicabili risaltano l’embargo parziale o totale sul commercio, l’embargo sulle operazioni finanziarie, la sospensione di assistenza economica, restrizioni sul traffico aereo o marittimo e l’abrogazione dei trattati di amicizia, commercio e navigazione. L’elencazione e la consequenziale applicazione delle sanzioni s’imperniano sul presupposto che l’attività di supporto al terrorismo sia ripetitiva, quindi sistematica. Prevista, altresì, è comunque la rimozione dalla lista.

Dal 1979 ad oggi sono otto gli Stati apparsi nella terrorism list: (1) Siria (ininterrottamente dal 1979); (2) Yemen del Sud (dal 1979 al 1990): (3) Iraq (inserito nel 1979, rimosso nel 1982, reinserito nel 1990 e rimosso nel 2004); (4) Libia (dal 1979 al 2006); (5) Cuba (inserita nel 1982, rimossa nel 2015 e reinserita nel 2021); (6) Iran (inserito nel 1984, rimosso nel 2015 e reinserito nel 2018); (7) Corea del Nord (inserita nel 1988, rimossa nel 2008 e reinserita nel 2017); e (8) Sudan (inserito nel 1993 e rimosso nel 2020).

Sia le riserve che sono state formulate riguardanti l’efficacia della terrorism list e connesse sanzioni sia altre considerazioni più politicamente articolate meritano attenzione.

In sintesi sono queste, da un lato, le principali riserve:

• Le sanzioni quando comminate da un solo Stato non costituiscono un deterrente assoluto visto il perdurare, ancorché in alcuni casi a sprazzi, dell’inclusione di alcuni Stati nella lista. Inoltre, le sanzioni sono normalmente comminate da Washington in via unilaterale in quanto gli interessi dei Paesi alleati o amici infrequentemente hanno permesso loro di associarsi alle iniziative statunitensi in tal senso.

• L’applicazione del criterio, stabilito da Washington, di appoggio ripetitivo o sistematico al terrorismo per l’inclusione nella lista pregiudizialmente esclude dalle sanzioni gli Stati il cui sostegno riveste carattere occasionale. Pertanto, in via sussidiaria alla terrorism list, è stata proposta ma non adottata la compilazione di un elenco informale di monitoraggio, informal watch list, in cui andrebbero inclusi provvisoriamente alcuni Stati sospetti.

• Le sanzioni, tanto economiche quanto di altra natura, possono dimostrarsi un’arma a doppio taglio. Da un lato, ne pagano le conseguenze anche gli interessi economici del Paese o dei Paesi che le impongono. Dall’altro lato, possono isolare ancora di più il Paese o i Paesi colpiti e ritardarne lo sviluppo, così inasprendo il ricorso al terrorismo, inteso sia alla stregua di terrorismo di Stato che di appoggio a gruppi terroristici non statali.

• Permangono nei Paesi in via di sviluppo situazioni politiche per cui, senza che le Autorità governative siano coinvolte nella loro totalità in forme di supporto al terrorismo, alcuni settori delle stesse facilitano disegni terroristici di natura interna e/o internazionale.

Tuttavia, in presenza delle proteste sollevate dagli Stati elencati nella terrorism list, è stato ribattuto alle predette riserve che le relative sanzioni condizionano economicamente e/o politicamente i regimi che li governano. Inoltre, sono stati più concretamente addotti alcuni casi specifici.

Il Pakistan, ammonito da Washington nel 1993 di un eventuale inserimento nella terrorism list, ha da allora prestato la sua collaborazione in diverse occasioni assistendo sia gli USA sia l’Egitto nell’opera di contrasto al terrorismo internazionale (nella foto il primo ministro Bhutto e il presidente Clinton nel 1995).

La Libia – in pieno regime del Colonnello Gheddafi a causa delle sanzioni imposte unilateralmente dagli USA e collettivamente dall’ONU ha riconosciuto alcune proprie responsabilità e provveduto a determinati risarcimenti.

A loro volta senza qui porre in dubbio il ruolo svolto da determinati Stati inseriti nella terrorism list meritano attenzione le effettive o apparenti motivazioni di opportunità politica che hanno inciso o incidono sull’inserimento, durata, rimozione ed eventuale reinserimento, oppure sul mancato inserimento, nell’elenco.

La rimozione dello Yemen del Sud è ragionevolmente avvenuta nel 1990 quando ha cessato di essere uno Stato sovrano ed è stato assorbito della Repubblica dello Yemen. L’incertezza riguardante l’esito delle attività aggressive degli houthi attualmente in corso nel Mar Rosso determinerà future decisioni.

È sintomatico di calcoli strategici il temporaneo depennamento dell’Iraq dalla terrorism list dal 1982 al 1989, praticamente per l’intera durata della guerra Iran-Iraq, in quanto il regime teocratico iraniano veniva percepito come una maggiore minaccia per la sicurezza statunitense e del proprio sistema di alleanze in quell’area geopolitica.

Il rispettivo depennamento dell’Iraq nel 2004 e della Libia nel 2006 è riconducibile a cambiamenti di regime e situazioni d’instabilità interne ad entrambi i Paesi.

Il temporaneo depennamento della Corea del Nord dal 2008 al 2017 è collegabile al tentativo di migliorare i rapporti politici; dell’Iran dal 2015 al 2018 è dovuto al tentativo di risolvere problemi afferenti la proliferazione di armi di distruzione di massa; e di Cuba dal 2015 al 2021 riguarda il tentativo di riallacciare i rapporti diplomatici.

La rimozione del Sudan è avvenuta nel 2020 a seguito dell’impegno assuntosi di cessare attività ostili nel contesto dei diritti umani e del terrorismo.

Rispetto a quanto precede, maggiore complessità nonostante le analogie comporta la disamina di quei Paesi non elencati nella terrorism list, ma riportatati come coinvolti in vario modo nel sostegno al terrorismo in documenti ufficiali del Dipartimento di Stato, in documenti in parte declassificati della CIA, e in analisi, anch’esse disponibili nel pubblico dominio, redatte per il parlamento federale dal Congressional Research Service di Washington o provenienti da altri istituti specializzati.

L’Algeria, particolarmente nel periodo 1968-1988 (nella foto il presidente Reagan con il presidente Bendjedid nel 1985), ha sostenuto o tollerato la presenza di gruppi terroristici non algerini nei suoi confini. Quale sito di asilo quantomeno temporaneo o di negoziazione a seguito di sequestri aerei o di persone in altri Paesi, si sono avvalsi del territorio algerino elementi eversivi palestinesi, libanesi, giapponesi, nord e sud americani. Questo “ruolo di mediazione” tende a spiegare la mancata inclusione dell’Algeria nella terrorism list.

L’Arabia Saudita è annoverata fra le fonti di notevoli sostegni finanziari di provenienza privata destinati ad elementi radicali islamici. Tali elargitori includono cittadini aventi notevoli contatti con il potere centrale, talvolta tacciato di ambiguità. Ma considerazioni geopolitiche e geostrategiche avrebbero sempre sconsigliano l’inclusione dell’Arabia Saudita, avversaria del regime iraniano, nella terrorism list.

Significativo anche il fatto che nel contesto del sostegno al terrorismo il Nicaragua veniva indicato come attore negli anni Ottanta del secolo scorso dal Dipartimento di Stato senza essere incluso nella predetta lista, così come non è stato incluso l’Afghanistan, correo con Osama bin Laden a fine ed inizio secolo, onde evitare un implicito riconoscimento dei rispettivi regimi al potere.

Pur non essendo elencato nella terrorism list, molto ambiguo è poi il ruolo del Qatar, contemporaneamente finanziatore di strutture legate ad Hamas, investitore e imprenditore in molti Paesi occidentali e mediatore in rilevanti situazioni conflittuali. Inoltre, il capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, risiede comodamente sul mare a Doha, capitale statale. Influisce, però, la disponibilità e strumentalità del Qatar nella conduzione di delicati rapporti internazionali.

Ma particolare attenzione va rivolta sia alla mancata inclusione dell’Unione Sovietica e dei suoi satelliti inquadrati nel Patto di Varsavia durante la Guerra Fredda sia alla mancata inclusione in tempi più recenti della succedanea Federazione Russa, in entrambi i casi ai fini di mantenere aperto un dialogo e, ove possibile di collaborare in settori non controversi.

Una analisi della CIA del 1981 – solo in parte declassificata nel 2013 dal titolo Sostegno Sovietico per il Terrorismo Internazionale e la Violenza Rivoluzionaria dettagliatamente annotava l’addestramento, la fornitura d’armi, il transito e l’asilo forniti da Mosca.

A sua volta la relazione pubblica annuale del Dipartimento di Stato riguardante l’Andamento del Terrorismo Globale per gli anni 1983-1987 è indicativa del sostegno di Mosca a movimenti di liberazione nazionale ed a movimenti separatisti, nonché della concomitante fornitura di armi da parte dei satelliti sovietici. Nel periodo 1988-1991, caratterizzato dalla transizione dell’Unione Sovietica alla Federazione Russa, la stessa relazione prendeva atto degli sforzi di Mosca nel contrastare il terrorismo interno e internazionale e la riduzione dei suoi rapporti con Stati sostenitori del terrorismo, specificamente Siria, Iran, Libia, Corea del Nord e Cuba. Nel periodo a cavallo tra 1992 ed i primi anni del 2000 detta relazione riportava i problemi della Russia nel contrastare il terrorismo proveniente dal Caucaso settentrionale ed esprimeva apprezzamento per la collaborazione russa a seguito dei noti attentati radicali islamici commessi a New York e Washington l’11 settembre 2001.

Nei decenni successivi con la ridenominazione nel 2004 della predetta relazione in Country Reports on Terrorism l’attenzione del Dipartimento si è tridimensionalmente posta sulla minaccia terroristica nei singoli Stati, sulla collaborazione anti-terrorismo internazionale e sugli Stati sostenitori del terrorismo. Per quanto riguarda la Federazione Russa particolarmente nel secondo decennio del secolo in corso – è stato preso atto, nel contesto del diritto interno, degli aggiornamenti legislativi in materia di potenziamento delle indagini rivolte al terrorismo e del blocco di fondi ad esso destinati, nonché in materia di sanzioni nei confronti dell’addestramento terroristico, della creazione di reti terroristiche e della partecipazione in attività terroristico-sovversive all’estero; le è stata riconosciuta la partecipazione nel NATO-Russia Council Ad-Hoc Working Group on the Terrorist Threat to the Euro-Atlantic Area ed in iniziative dell’Unione Europea e di altri enti regionali e multinazionali; e le sono stati attribuiti “rapporti costruttivi” con organizzazioni mussulmane nella promozione del dialogo non violento. Allo stesso tempo, però, veniva indicato l’impiego russo della legislazione anti-estremismo nei confronti di dissidenti politici pacifici e minoranze religiose.

Va inoltre specificamente notato che nella più recente relazione annuale del Dipartimento di Stato, attualmente ferma all’anno 2022, viene letteralmente attribuito a Mosca quanto segue: “La Federazione Russa ha continuato a usare minacce terroristiche ed ‘estremiste’ quale pretesto per sopprimere opposizione politica e l’esercizio dei diritti umani o altri obiettivi sia in politica interna sia in quella estera”. Il mancato inserimento della Federazione Russa nella terrorism list sarebbe dovuto alla considerazione  stando a quanto dichiarato da Karine Jean-Pierre, portavoce della Casa Bianca, in un briefing con la stampa che una misura del genere potrebbe essere ‘controproducente’ anche per l’Ucraina..

In conclusione, nonostante i limiti della terrorism list, l’impiego di sanzioni unilaterali o collettive nei confronti di Stati sostenitori del terrorismo non deve essere scartato con leggerezza. Né va tantomeno dimenticata, come dimostrato dall’esperienza statunitense in materia di contrasto al terrorismo, l’esigenza di confrontarsi in ogni circostanza con la realpolitik (vedi foto apertura, ndd).

* Il prof. Vittorfranco Pisano, attualmente segretario generale dell’Albo Nazionale Analisti Intelligence e docente di “Terrorismo e Conflittualità Non Convenzionale” presso l’Università eCampus, è stato consulente della Sottocommissione per la Sicurezza e il Terrorismo del Senato degli Stati Uniti e revisore dei corsi nell’ambito del Programma di Assistenza Antiterrorismo del Dipartimento di Stato statunitense

Foto: Casa Bianca / Cremlino / X / CIA