Intrattenimento, informatica e aerei da guerra per il sogno americano della California

(di Leonardo Chiti)
21/04/17

Gli Stati Uniti sono comunemente ritenuti il Paese delle grandi opportunità ma anche delle stridenti contraddizioni. Nessuno degli States incarna queste due facce della medaglia del sogno americano meglio della California e, in termini ancora più concentrati, dei suoi principali centri urbani.

Con una superficie vicina alla metà della Lombardia e una popolazione quasi doppia (circa 19 milioni di residenti di cui oltre 4 milioni nella municipalità centrale), la Greater Los Angeles Area è la prima area metropolitana per estensione e la seconda per abitanti degli USA, alle spalle di New York e davanti a Chicago. Fra i quartieri più famosi di LA figura Beverly Hills, dove si trovano le ville hollywoodiane dei divi del cinema e dello show business, e i negozi dei marchi del lusso di Rodeo Drive, la Fifth Avenue della costa occidentale.

Allo stesso tempo, la città degli angeli ha un tasso di criminalità fra i più elevati d’America, ed è stata teatro di violente rivolte della popolazione di colore, nel 1965 e nel 1992. All’indomani dei primi scontri nascerà il Black Panther Party, fondato nel 1966 a Oakland, sul lato est della baia di San Francisco, mentre, per ironia della sorte, i gravi disordini della primavera del ’92 (seguiti alle immagini dell’arresto di Rodney King e all’assoluzione dei poliziotti responsabili del relativo pestaggio), sono avvenuti durante l’amministrazione dell’unico sindaco nero nella storia di Los Angeles, Tom Bradley, che tuttora detiene il record di durata del mandato essendo stato primo cittadino dal 1973 al 1993.

Nonostante negli ultimi anni il numero di produzioni realizzate nella megalopoli indiana di Bombay e in Nigeria, abbia portato a parlare di Bollywood e Nollywood, la “fabbrica dei sogni” di Hollywood resta il più importante e prestigioso punto di riferimento mondiale per l’industria dell’intrattenimento, e durante la sua storia, iniziata a metà degli anni ’10 del Novecento, non ha mancato di contribuire allo sviluppo di altri importanti comparti dell’economia californiana.

L’atto di nascita dell’agglomerato di innovazione tecnologica della Silicon Valley viene convenzionalmente fissato al 1° gennaio 1939, a Palo Alto, nelle vicinanze di San Francisco, dove William R. Hewlett (1913-2001), e David Packard (1912-1996), nel garage di quest’ultimo (oggi un museo), al 367 di Addison Avenue, fondano la Hewlett-Packard.

Il primo ordine importante arriverà dagli studios della Walt Disney Pictures che, nello stesso 1939, acquisterà degli oscillatori per la sincronizzazione del suono e dell’immagine per il film d’animazione Fantasia. Da quel momento HP sarà fra i protagonisti nella progettazione e produzione delle apparecchiature elettroniche – voltmetri, amperometri, frequenzimetri, ecc. – oggetto di crescenti richieste dai settori cinematografico, telefonico, radiotelevisivo e informatico, con un importante collegamento all’attività aerospaziale attraverso la radaristica e la realizzazione di strumentazione di calcolo sempre più rapida e potente.

Dalla metà degli anni ’80 il marchio HP diventa sinonimo di stampante ma nei suoi quasi ottant’anni di attività, l’azienda di Palo Alto è arrivata a coprire l’intera gamma produttiva dell’Information & Communication Technology, dalle calcolatrici (da ufficio e tascabili, per le quali ha conteso la primogenitura e il primato nelle vendite alla Texas Instruments), ai personal computer (a cui si aggiungeranno workstation e supercomputer grazie alle acquisizioni di Apollo Computer, nel 1989, e Convex Computer Corporation, nel 1995), fino allo sviluppo di software e all’offerta di servizi di data center.

Il 2015 ha segnato la fine di un’era per Hewlett-Packard con la messa in opera di un piano di ristrutturazione-riorganizzazione diretto dalla chief executive officer, Margareth Whitman (foto), che ha comportato il taglio di 30.000 posti in esubero e la separazione in due compagnie: HP Enterprise specializzata in software gestionali e attrezzature hardware per data center, guidata dalla stessa Whitman, e HP Inc. che si concentrerà su stampanti e PC, con al vertice Dion Weisler.

Nonostante quella che è stata una delle più complesse operazioni di split-up della storia, combinatasi con un calo del fatturato e dei profitti del 7,2% e 9,2%, nel 2015 Hewlett-Packard si è confermato uno dei maggiori gruppi USA piazzandosi al 20° posto della classifica U.S. Fortune 500 e al 48° nella versione globale della stessa graduatoria, con ricavi per 103,355 miliardi di dollari.

Il sobborgo di Anaheim (contea di Orange), nella parte sud della conurbazione di Los Angeles, è stato scelto nel 1955 da Walt Disney come luogo dove costruire Disneyland che lui stesso definirà: il posto più felice della Terra. Non lontano da questa capitale mondiale della fanciullesca spensieratezza (molto apprezzata da grandi e piccini), si trovano gli impianti della Northrop-Grumman che a Redondo Beach (località conosciuta per essere uno dei santuari del surf cantati dai Beach Boys, dove i funamboli della tavola provano ad emulare i protagonisti di pellicole come “Un mercoledì da leoni” e “Point Break”), ha una delle sue principali sedi californiane assieme a quelle di Palmdale (nel nord-est della contea di LA), e San Diego.

Nato a Newark, nel New Jersey, John/Jack Northrop (1895-1981), pur non avendo alle spalle studi universitari in ingegneria, a vent’anni viene assunto dalla Loughead Aircraft Manufacturing Co. (che diventerà Lockheed Aircraft Corporation nella seconda metà degli anni ’20), nei cui uffici lavorerà come disegnatore-progettista per oltre due decenni.

Agli inizi del 1939, in concomitanza con la fondazione della propria società, Northrop collabora con Donald Douglas alla progettazione del miglior bombardiere americano da picchiata della Seconda Guerra mondiale, il Douglas SBD Dauntless. Questo monomotore biposto ad elica entrato in servizio nel 1940 nei ranghi della forza aerea imbarcata, venne utilizzato anche dall’USAAF con la denominazione A-24.

I primi progetti importanti per la neocostituita Northrop vedono la luce negli anni ’50 nel settore dell’addestramento, con lo sviluppo in parallelo dei modelli N-156F, divenuto poi F-5, e N-156T, successivamente rinominato T-38 Talon.

Sviluppato su iniziativa privata dell’azienda per proporlo al governo americano come caccia tattico, puntando anche all’esportazione, l’F-5 effettuò il primo volo il 30 luglio 1959 e nel 1962 il Pentagono lo scelse per l’assegnazione al MAP (Military Assistance Program), con la designazione Freedom Fighter. A seguito dell’entrata in servizio con l’USAF ne venne inviata una squadriglia, composta da una dozzina di velivoli, in Vietnam, nell’ambito del programma Skoshi Tiger che prevedeva test valutativi – condotti tra il 1965 e il 1966 - in missioni di appoggio tattico che gli valsero il via libera per la fornitura all’aeronautica sudvietnamita.

In tutte le versioni l’F-5 è stato costruito in circa 2.600 esemplari e il suo principale impiego addestrativo da parte dell’USAF e dell’US Navy ha riguardato il ruolo di velivolo aggressore durante le simulazioni di combattimento.

Il volo d’esordio del T-38 – il primo addestratore supersonico - ha avuto luogo il 10 aprile 1959. Entrato in servizio con l’USAF nel 1961 e impiegato nella fase avanzata dell’attività formativa dei piloti, questo bireattore è stato costruito in quasi 1.200 esemplari, venendo acquisito anche dalle forze aeree di Portogallo, Taiwan e Turchia, oltre che dalla US Navy. Grazie a vari interventi di ammodernamento, con sostituzione dell’avionica e rigenerazione della cellula, dovrebbe restare in servizio fino all’avvicendamento con il velivolo che si aggiudicherà la gara in corso per lo sviluppo di un nuovo addestratore nel quadro del programma T-X.

Le ambizioni progettuali di Jack Northrop erano così innovative da essere ritenute visionarie per gran parte della sua vita. Sembrano infatti risalire al 1929 i primi disegni relativi al concetto aerodinamico di “ala volante” o “velivolo tuttala”, che prevedeva la realizzazione di un aereo senza fusoliera ed impennaggi.

Bisognerà attendere gli anni ’80 per il pieno riconoscimento del talento aeronautico di Northrop, con la comparsa nei cieli del bombardiere strategico stealth B-2 Spirit, la cui capacità operativa include missioni sia con armamento convenzionale che nucleare.

Lo Spirit è senz’altro un fiore all’occhiello della tecnologia aerospaziale made in USA, seppur pagato a caro prezzo per quel meccanismo che nei casi di programmi “superstar” (si pensi ad esempio ai cacciatorpediniere Zumwalt), finisce per rivelarsi perverso dato che, per limitare i costi totali si abbassa il target produttivo, rendendo in questo modo impossibile beneficiare di significative economie di scala, il che fa lievitare il costo unitario, che per i 21 B-2 assemblati si è attestato sui 2 miliardi di dollari.

La bassa osservabilità radar di questo “bombardiere invisibile” è il risultato dell’impiego di materiali di costruzione e rivestimento particolari (vernici radar assorbenti), combinati con forme aerodinamiche sofisticate in cui le sporgenze sono state limitate alla presenza dell’abitacolo (che ospita i due membri di equipaggio), e dei quattro motori, elementi comunque progettati per ottenere un profilo che sia il più smussato possibile.

Lo Spirit ha effettuato il primo volo il 17 luglio 1989 (foto) e nel 1993 è stato consegnato all’USAF, mentre il battesimo del fuoco è arrivato nella primavera del 1999 con lo scoppio della Guerra del Kosovo. Nel corso dell’operazione Allied Force, terminata ufficialmente il 20 giugno dello stesso anno, il B-2 sfoggiò le sue qualità di bombardiere strategico (bassa tracciabilità e grande autonomia), effettuando una serie di missioni che, ricorrendo al rifornimento in volo, vennero eseguite direttamente dalla base madre di Whiteman, nel Missouri.

Un altro protagonista dell’industria aerospaziale americana è stato Leroy Randle Grumman (1895-1982), la cui società, negli anni ’60, ha legato il proprio nome alla realizzazione del modulo lunare utilizzato dalla NASA per il progetto Apollo.

Nato ad Huntington, nello Stato di New York, dopo la laurea in ingegneria nel 1916 e una prima formazione come pilota, Grumman entra alla Loening Aeronautical Engineering Co. di New York nel ruolo di supervisore alla costruzione degli aerei. Quando nel 1928 la Loening viene acquisita da un altro gruppo che ne sposta gli impianti a Bristol, in Pennsylvania, Grumman decide di restare a New York e insieme ad un gruppo di colleghi fonda la Grumman Aeronautical Engineering Co., che nel 1969 diventerà Grumman Aerospace.

Fin dagli inizi la neocostituita impresa aeronautica farà valere la sua capacità innovativa con la costruzione, nel 1931, dell’XFF-1, un caccia per la Marina con carrello di atterraggio retrattile e un abitacolo chiuso costituito da una vera e propria cabina di pilotaggio, due caratteristiche non così comuni all’epoca.

Durante la Seconda Guerra mondiale la Grumman fornirà un contributo di primo piano all’aviazione USA, a partire dall’F4F Wildcat che volò per la prima volta il 2 settembre 1937, entrando poi in linea presso la US Navy nel dicembre 1940, dopo l’acquisizione nei mesi precedenti da parte della Marina britannica che lo soprannominò Martlet. Lo Wildcat venne prodotto in 7.800 esemplari e pur essendo inferiore ai caccia giapponesi Mitsubishi A6 (i famosi Zero), fece comunque la sua parte fino alla comparsa, nel 1943, del suo sostituto, l’F6F Hellcat, che aveva effettuato il primo volo il 26 giugno 1942.

Equipaggiato con un motore più potente, un abitacolo corazzato e caratterizzato da migliori prestazioni in termini di manovrabilità, forza d’attacco e persistenza in azione grazie all’aumento del raggio operativo (2.100 km rispetto ai 1.240 dell’F4F), e della capacità di carico (sia riguardo alle bombe che alle munizioni per le 6 mitragliatrici da 12,7 mm), l’Hellcat fu costruito fino alla seconda metà del 1945 in oltre 12.000 unità.

Successivamente, a completare la trilogia “felina” è arrivato l’F8F Bearcat (foto), che compì il primo volo il 21 agosto 1944 ed entrò in servizio presso la US Navy immediatamente dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale. Anche se a causa della fine delle ostilità la sua produzione si limitò a 1.260 esemplari, per le sue prestazioni in termini di maneggevolezza e velocità (soprattutto riguardo al rateo di salita), il Bearcat è considerato il miglior caccia a pistoni da portaerei di sempre.

Durante la Guerra di Corea il velivolo di punta della forza imbarcata statunitense fu il monomotore a reazione F9F Panther il cui volo inaugurale avvenne il 24 novembre 1947, con successiva entrata in servizio nel maggio 1949, per essere poi prodotto in 1.300 esemplari. Nel corso del conflitto i Marines e la US Navy lo utilizzarono soprattutto come caccia da attacco al suolo ma riuscì ad avere la meglio anche in alcune azioni di combattimento aereo.

In Vietnam è stata la volta dell’A-6 Intruder, un bombardiere bireattore imbarcato, con elevata capacità di carico bellico (oltre 8 t), e un’avionica avanzata i cui sistemi radar e di navigazione inerziale permettevano di individuare e colpire bersagli in assenza di visibilità. Dopo il volo del primo prototipo il 19 aprile 1960, e l’entrata in servizio nel 1963, la sua produzione ha superato i 700 esemplari nelle varie versioni: A-6B per l’attacco antiradar, A-6C per quello notturno e KA-6D come aerocisterna, mentre il modello specializzato nella guerra elettronica venne denominato EA-6B Prowler.

Il 21 dicembre 1970 si è verificato il primo volo dell’aereo di cui Hollywood ha fatto una star del cinema: l’F-14 Tomcat. Tra l’altro, proprio in California, nei pressi di San Diego, si trova la base di Miramar, sede della scuola di addestramento alle tattiche di combattimento aereo manovrato e al bombardamento della US Navy, nota come Top Gun. La corrispondente struttura dell’USAF, detta Red Flag, è situata presso la base di Nellis, nel Nevada.

Le prestazioni di questo caccia imbarcato supersonico con ali a geometria variabile, e il suo equipaggiamento – in particolare la combinazione standard della variante D, tra il radar AWG-9 e il missile aria-aria AIM-54 Phoenix, con guida attiva, ovvero dotato di un proprio radar, capace di una velocità prossima a 4,3 Mach con un raggio operativo di oltre 200 km – ne facevano un velivolo sensibilmente superiore a qualunque altro nella protezione della flotta. Le consegne dell’F-14 iniziarono nel 1972 e in totale ne sono stati prodotti 712 esemplari, mentre nel 2001 è iniziata la loro sostituzione con gli F/A-18 Super Hornet, che risulta ultimata nella seconda metà del 2006.

Nel 1994, con l’acquisizione della newyorkese Grumman da parte della californiana Northrop, le due imprese hanno unito le forze consolidando il loro ruolo di protagoniste nel settore Difesa. Accennando ai progetti più recenti non poteva mancare una proposta targata NG nel comparto droni con il ricognitore strategico Global Hawk (foto), impiegato dall’USAF in Afghanistan dalla fine del 2001, nell’ambito dell’operazione Enduring Freedom.

Nel 2007 l’azienda di Falls Church (in Virginia, dove è stato insediato il quartier generale dopo la fusione), si è aggiudicata il contratto per un velivolo da ricognizione, sorveglianza e attacco, relativo al programma Unmanned Combat Air System Carrier Demonstration, della US Navy.

Caratterizzato da bassa osservabilità e denominato X-47B, nel 2013 ha effettuato manovre di decollo e appontaggio eseguite in autonomia, stessa modalità operativa con cui nell’aprile del 2015 è stato protagonista del primo rifornimento in volo “autogestito” da un velivolo unmanned (Autonomous Aerial Refuelling).

Infine, in base ad una request for proposal emessa a luglio 2014, nell’ottobre dell’anno successivo è stato assegnato alla Northrop-Grumman il contratto per lo sviluppo di un bombardiere strategico stealth con capacità bellica convenzionale e nucleare, denominato B-21 Raider (immagine).

Secondo la graduatoria mondiale delle prime 100 imprese dell’industria della Difesa redatta dal SIPRI, la NG nel 2015 si conferma al 5° posto, con 20.060 milioni di dollari di fatturato militare (in crescita rispetto ai 19.683 del 2014), su un giro d’affari totale di 23.256 milioni (quindi la quota in capo alla Difesa è l’86%), 1.990 milioni di profitti e 65.000 dipendenti.

La California è diventata la massima espressione del “melting pot” a stelle e strisce, e la sua storica vocazione cosmopolita ha originato una specifica variante locale del sogno americano che spesso non si è mostrata in sintonia con il punto di vista, e gli interessi, dei compatrioti residenti negli altri Stati della Federazione.

La California ha anche contribuito al verificarsi di alcuni fenomeni che noi, qui nel Michigan, non vediamo con molto piacere. Uno di questi è il boom delle importazioni. I californiani comprano più auto di importazione che i cittadini di qualsiasi altro stato. Inoltre, le severissime disposizioni antinquinamento sono nate in California, che si è trasformata quasi in un paese straniero (Lee Iacocca, “Una autobiografia”, Sperling & Kupfer, 1986).

In effetti i primi provvedimenti di ispirazione ecologista risalgono ai mandati di Pat Brown (foto), predecessore di Ronald Reagan alla guida del Golden State dal 1959 al 1967, e padre dell’attuale governatore Jerry Brown. Questo slancio normativo ambientalista non ha impedito alla California di diventare la patria dei “gipponi” Hammer e una delle aree del pianeta a più alto tasso di circolazione di pick-up e SUV, tutti veicoli non proprio campioni di consumi contenuti e ridotto impatto ambientale ma ideali per gli amanti dello stile di vita “green” che, nelle loro gite fuori porta in mezzo alla natura, non vogliono rinunciare al comfort, alle prestazioni e alla ostentazione del proprio status sociale, offerti da autovetture di generose dimensioni (ma dalle linee accattivanti), e grossa cilindrata.

Tuttavia, lo spunto più interessante è dato dalle accuse di esterofilia mosse da Iacocca agli automobilisti californiani che, preferendo marchi stranieri, tradirebbero i sani principi di un doveroso patriottismo economico, il quale non è altro che uno dei tanti nomi e delle mille facce del protezionismo.

L’inaggirabile necessità, per salvare la Chrysler, del ricorso ad una fideiussione federale di 1,5 miliardi di dollari (per un utilizzo effettivo di 1,2 miliardi, somma prontamente restituita nel 1983, con 7 anni di anticipo), segnò la conversione di Iacocca, fino a quel momento fervente sostenitore del libero mercato e della bontà del meccanismo di selezione darwiniana che lo contraddistingue, al credo dell’intervento statale nell’economia.

Si tratta di un bell’esempio di quel pragmatismo ritenuto un tratto caratteristico della forma mentis anglosassone (che Winston Churchill rivendicava affermando: preferisco avere ragione che essere coerente), ma che in realtà fa parte dei “ferri del mestiere” di chiunque sia a capo di uno Stato o di un’azienda, fermo restando che: la pur indispensabile flessibilità tattica deve essere orientata da una chiara ed efficace visione strategica, senza la quale, l’abilità di adattamento pragmatico tende a scadere nel dilettantismo.

Nella realtà protezionismo e liberismo non possono esistere allo stato puro e si combinano in differenti dosaggi che non sono emanazione di convinzioni di principio ma di interessi contrapposti, connessi a loro volta al ciclo economico internazionale che si dispiega in modo ineguale, il che porta gli schieramenti dei sostenitori della libera iniziativa privata e dell’interventismo statale a rimescolarsi continuamente in relazione al mutare del quadro dei rapporti di forza.

In quanto teoria del più forte, il liberismo tende a prevalere quando i principali competitori (o almeno la loro maggioranza), possono garantirsi una quota di mercato ritenuta soddisfacente, mentre chi si trova in condizioni di svantaggio invoca gli aiuti e la protezione dello Stato. Nelle fasi di rallentamento dell’economia mondiale riemergono le spinte protezioniste che possono essere moderate in caso di lieve flessione, forti di fronte a una brusca frenata e tanto gravi da compromettere l’ordine internazionale in caso di recessione globale, specie ovviamente se prolungata.

Tale dinamica non riguarda solo i rapporti tra potenze ma anche quelli tra i settori che ne compongono il tessuto economico e, all’interno di questi, gli orientamenti delle imprese, che saranno protezioniste o liberiste con diverse gradazioni, a seconda della rispettiva capacità o possibilità di trarre vantaggio dalla relazione col sistema internazionale degli scambi.

Anche se, come emerso all’inizio e nella parte finale degli anni 2000, i campioni tecnologici della Silicon Valley (foto) non sono certo immuni alle crisi, nel complesso (per quanto incalzati da nuovi competitori come ad esempio i cinesi Alibaba e Huawei), mantengono tuttora la leadership di un settore fra i più dinamici di un’economia mondiale che, per il 2017, l’OCDE e il FMI stimano in crescita rispettivamente del 3,3% e 3,5%.

Situazione ben diversa quella delle big three dell’auto di Detroit che hanno attraversato molteplici fasi critiche nell’arco di una storia di ristrutturazioni iniziata negli anni ’70, e che mostrano maggiori difficoltà nel fronteggiare la pressione della concorrenza internazionale. Si capisce bene come mai i grandi gruppi “dotcom” della California non potevano vedere di buon occhio i proclami protezionisti del candidato presidenziale Donald Trump (non a caso prontamente stemperati dal neopresidente nei suoi primi incontri con i vertici delle aziende della Silicon Valley), che invece suonavano bene alle orecchie degli industriali del Midwest e delle loro maestranze.

La classe dirigente di una nazione deve dimostrarsi capace di rappresentare al meglio la pluralità di centri di interesse che ne compongono la stratificazione sociale, arrivando a sintetizzare una linea politica generale. Negli Stati Uniti questa funzione ha assunto la forma della mediazione fra le aspirazioni particolari delle aree regionali, espressione dell’andamento differenziato dei vari cicli economici di sviluppo e crisi. Gestire il confronto fra le diverse inclinazioni di politica economica delle grandi regioni USA è da sempre il più impegnativo banco di prova interno per il governo di Washington.

Nella consultazione presidenziale dello scorso novembre i 55 grandi elettori della California (assieme a quelli di tutto l’Ovest costiero), sono andati a Hillary Clinton, mentre in Michigan, così come in gran parte del Midwest, ha prevalso Donald Trump, premiato anche dal decisivo passaggio nel campo repubblicano della vicina Pennsylvania, ex epicentro siderurgico mondiale e già beneficiaria di dazi protettivi per l’acciaio made in USA.

Se c’è un provvedimento di politica economica – premessa un’adeguata ripartizione territoriale e bilancio federale permettendo - che storicamente si è dimostrato capace di coagulare attorno al governo un blocco sociale di consenso maggioritario in tutte le aree chiave (dal Grande Nord alla West Coast, passando per il Sud), questo è costituito da un forte incremento della spesa militare inserito in un più ampio piano di investimenti pubblici.

Staremo a vedere se, e in che misura, l’annunciato “surge” di fondi per il Pentagono da 50-60 miliardi di dollari, all’interno di un programma di intervento statale per 1.000 miliardi, contribuirà a “fare l’America di nuovo grande”, strappando così un’ulteriore proroga sui tempi del declino USA.

Certo è che l’industria bellica della California avrà un ruolo da protagonista in questo tentativo, con immancabili ricadute per la net-economy della Silicon Valley, filiazione della ricerca tecnologica militare divenuta a sua volta fornitrice del settore Difesa, e dove si trovano (in particolare nella località di Sunnyvale), anche i laboratori di alcune aziende del comparto fra cui figurano Northrop Grumman e Raytheon.

(foto: Northrop Grumman / USAF / U.S. Navy / web)