Il ruolo della forza aeronavale dal Washington consensus al dopo Yalta

(di Leonardo Chiti)
06/03/18

Per l’Inghilterra, i grandi vascelli dell’età dei velieri (dalla fine del XVII secolo alla metà del XIX), che arrivarono a toccare le 5.500 tonnellate di dislocamento, con un totale di 100 bocche da fuoco disposte su 3 o 4 ponti di batteria, sono stati lo strumento principe della conquista di una leadership mondiale che il Regno Unito manterrà praticamente fino alla Grande Guerra, facendosi garante di un assetto internazionale strutturato attorno al concetto di equilibrio di bilancia di potenza, perno politico-diplomatico della cosiddetta Pax britannica.

Il trentennio caratterizzato da due guerre mondiali si è concluso con la presa d’atto dell’avvenuto mutamento dei rapporti di forza economici nel panorama internazionale, che riceverà la sua sanzione monetaria nel luglio del 1944 con gli “accordi” di Bretton Woods, in base ai quali il dollaro spodestò la sterlina imponendosi come nuova valuta di riferimento degli scambi commerciali e finanziari.

Tale passaggio di consegne rifletteva una dinamica in atto nei rapporti tra potenze che già allora, a più di un anno dalla fine dei combattimenti con la resa del Giappone nell’agosto del 1945, si era ormai delineata con sufficiente chiarezza sui campi di battaglia. Nei diversi teatri di scontro fra gli apparati militari delle grandi potenze, le navi portaerei sono risultate uno dei fattori chiave di quella ridefinizione, terminata con il definitivo avvicendamento fra Gran Bretagna e Stati Uniti al vertice della nuova gerarchia mondiale che avrà nello Washington consensus uno dei suoi tratti caratterizzanti.

Prima che il connubio tra manovrabilità e potenza di fuoco, incarnato dal binomio vele-cannoni, divenisse il fattore risolutivo, le battaglie navali erano decise da speronamenti e arrembaggi. Fanteria imbarcata, rostri, pedane uncinate e rampini, hanno incarnato per molti secoli, assieme ovviamente al naviglio di cui costituivano l’equipaggiamento, l’essenza del potere marittimo che, fin dalle sue origini come categoria concettuale dell’arte della guerra, si è manifestato come risultato della compenetrazione operativa delle diverse dimensioni coinvolte nello scontro tra uomini in armi.

L’accelerazione impressa all’innovazione tecnologico-militare dalla Rivoluzione industriale, ha accentuato la necessità di coordinamento operativo interforze fin dagli esordi dell’industrializzazione della guerra.

[…] quasi tutte le grandi campagne militari dell’era moderna sono state il frutto di uno sforzo combinato: ad esempio, quando il generale Ulysses Grant si è aggregato alla marina dell’Unione per discendere lungo il Mississippi e prendere alle spalle i Confederati; o nel caso dell’audace sbarco di McArthur a Inchon durante la guerra di Corea; e soprattutto nella più grande operazione combinata di sempre: il D-Day (Colin Powell, “Un enfant du Bronx”, Odile Jacob, 1995).

Con la sua combinazione di cannoni monocalibro (superiore ai 305 mm), per la batteria principale, scafi con blindatura in acciaio, notevole velocità e ampio raggio d’azione, la corazzata tipo dreadnought – il cui primo esemplare fu varato nel febbraio del 1906 per entrare in squadra nella Royal Navy il successivo dicembre – rappresenta il punto culminante della storia costruttiva di unità navali che rispecchiavano la ricerca della più efficace sintesi delle dotazioni militari del tempo, sviluppate nel corso di un’era nella quale i teatri di guerra erano “bidimensionali”.

Anche in ambito terrestre si perseguirà il massimo vantaggio operativo attraverso la combinazione tra corazza, cannone e mobilità, concretizzatasi nel carro-armato che per le sue tattiche d’impiego, ma anche per il fatto che i fondi per il suo realizzo, nell’Inghilterra della Prima Guerra Mondiale, furono messi a disposizione dall’Ammiragliato (di cui dal 1911 al 1915 fu Primo Lord Winston Churchill), venne definito “nave da guerra terrestre”.

Durante la Seconda Guerra Mondiale si ricorrerà ancora alla terminologia navale per definire la funzionalità operativa di mezzi blindati cingolati muniti di cannone e mitragliatrice. Ne è un esempio il “carro incrociatore leggero” MK VII Tetrarch, impiegato – a onor del vero senza risultati particolarmente brillanti – in occasione dello sbarco in Normandia, il 6 giugno 1944.

Realizzato dalla britannica Vickers-Armstrong (conglomerata metalmeccanica con una presenza di rilievo mondiale nella cantieristica), questo tank non conobbe una grande fortuna costruttiva, nonostante fosse un ottimo prodotto, specialmente nella versione anfibia che vantava una meccanica così valida da venire adottata anche per i corrispondenti carri americani Sherman.

Con l’entrata in scena dell’aviazione, il cui atto di nascita è simboleggiato dal volo effettuato dai fratelli Wright nel gennaio del 1903, non si dovette aspettare molto perché i primi velivoli venissero invitati a imbarcarsi, soprattutto in virtù, in questa fase iniziale, delle potenzialità ricognitive offerte dal mezzo aereo.

Lo spunto decisivo venne fornito dal servizio postale svolto sulla tratta Amburgo-New York, per accelerare il quale, nel 1910, si pensò di far decollare un aereo dal ponte di prua di uno dei piroscafi impiegati per la consegna della corrispondenza. Dato che da qualche tempo si facevano sempre più chiari i segni premonitori di un nuovo conflitto, i vertici militari americani presentarono questa innovazione come un tentativo mascherato dei tedeschi di mettere a punto una nuova tecnica d’attacco ai danni degli Stati Uniti.

Il capitano Washington Chambers, responsabile del servizio Materiali ed Equipaggiamento della U.S. Navy, ottenne l’autorizzazione per una serie di esercitazioni volte a far decollare un velivolo da una nave da guerra. Venne scelta la corazzata leggera Birmingham sulla cui parte prodiera fu montata una pedana per il decollo lunga 25 metri e larga 7, mentre il pilota sarebbe stato Eugene B. Ely che lavorava come collaudatore nell’azienda di Glenn Curtiss, altra figura di rilievo fra i pionieri dell’aviazione.

Ely effettuò il primo decollo della storia da una nave militare il 14 novembre 1910 (foto), nella baia di Chesapeake, al largo di Hampton Roads (Virginia), e poco più di due mesi dopo, il 18 gennaio 1911, si superò aggiudicandosi il primato anche nell’appontaggio (operazione che infatti presentava, e tuttora presenta, maggiori difficoltà), posandosi con il suo biplano ad elica Curtiss sulla rampa, lunga 36 metri e larga 10, installata a poppa della corazzata Pennsylvania, in movimento nella baia di San Francisco.

Per la sua dimostrata capacità di operare in squadra tenendo il passo delle formazioni della flotta inglese, si ritiene che il Campania possa vantare il titolo di prima portaerei della storia. Si trattava pur sempre però di una nave passeggeri della compagnia Cunard che si era deciso di salvare dalla rottamazione convertendola in portaerei, in modo da poter beneficiare di stive carburanti capaci di contenere la quantità di combustibile necessaria alla traversata dell’Atlantico e di un sistema di propulsione che permetteva di toccare i 22 nodi, nonostante qualche “acciacco” di cui soffriva la sala macchine.

La prima nave militare progettata specificamente come portaerei, commissionata dalla Royal Navy nel 1917 e messa in cantiere nel gennaio dell’anno successivo, è stata la Hermes. Questa unità raggiungeva i 25 nodi, poteva trasportare una ventina di velivoli ed era dotata di un ponte unico che andava da poppa a prua ma, a differenza ad esempio di quello dell’Argus, non era completamente sgombro e accoglieva a tribordo una sovrastruttura “a isolotto”, soluzione che nel tempo diverrà la configurazione standard per questa categoria di naviglio.

Si era infatti osservato che in caso di problemi durante l’appontaggio, la maggioranza dei piloti tende a virare a sinistra, con il risultato che la collocazione dell’isola nella posizione di tribordo permetteva di abbattere del 50% il numero di incidenti in rapporto alla quantità di manovre eseguite, rispetto alla soluzione di babordo. Negli anni ’50 si otterrà un ulteriore dimezzamento del tasso di incidenti nella fase di rientro grazie all’introduzione del ponte di volo obliquo (angolato con una rotazione di 8-10 gradi rispetto all’asse longitudinale della nave), e dello specchio di appontaggio.

Si deve invece ai francesi, che perfezionarono quanto era stato sperimentato sull’inglese Furious (foto) nel 1917, la messa a punto, tra la fine degli anni ’20 e i primi anni ’30, del sistema di arresto tramite una serie di cavi trasversali per l’aggancio del velivolo in appontaggio, che si dimostrò più efficace del dispositivo longitudinale fino ad allora in uso. La nuova dotazione, abbinata in ogni caso ad una barriera di sicurezza posizionata sul ponte di volo in modo da arrestare la corsa degli apparecchi che mancavano i cavi, velocizzò sensibilmente le operazioni consentendo a due velivoli di decollare e appontare simultaneamente e nel 1933 era già stata adottata anche da americani, giapponesi e inglesi.

Nella fase finale della Prima Guerra Mondiale, una forza d’attacco aeronavale britannica si rese protagonista del primo raid contro un obiettivo terrestre compiuto da aerei decollati da una nave. Nelle prime ore della mattina del 19 luglio 1918, una squadriglia di sei caccia Camel 2 F. 1 (versione per la Marina del Camel Sopwith terrestre), decollarono dalla portaerei Furious (derivata dalla riconversione di un incrociatore), e sganciarono il loro carico di bombe sugli hangar denominati Toska e Tobias, della base di Tondern (oggi cittadina danese), nello Schleswig-Holstein, distruggendo i dirigibili Zeppelin L.54 e L.60 e un pallone da osservazione.

Durante il conflitto, tra i ranghi della Marina di Sua Maestà si iniziarono anche a formulare piani riguardanti raid aerei da compiere direttamente nei porti d’attracco della flotta tedesca, tramite l’impiego di aerosiluranti. Nell’ottobre del 1916, il commodoro Murray Sueter consegnò all’azienda aeronautica Sopwith un suo memorandum su cui basare la progettazione di un velivolo capace di trasportare fino a due siluri, con un’autonomia di quattro ore.

La Sopwith realizzò l’apparecchio richiesto seppur troppo a ridosso dell’armistizio che mise fine alle ostilità. Comunque sia, i 90 esemplari assemblati del nuovo aereo – battezzato Cuckoo (Cucù) per la sua abilità nel “deporre le uova” nel nido altrui – suscitarono fin da subito un grande interesse tra le Forze Armate nipponiche e la Marina giapponese nel 1922 ne acquistò sei unità.

Il 10 aprile del 1940, una squadriglia di 15 bombardieri in picchiata Skua, prodotti dalla britannica Blackburn Aircraft Limited, decollati dalle isole Orcadi dove erano stati sbarcati dalla portaerei Ark Royal nel mese di marzo, si resero protagonisti del primo affondamento tramite attacco aereo di un’importante nave da guerra: l’incrociatore tedesco Königsberg, preso di mira nelle acque del porto norvegese di Bergen.

L’esito positivo di questa azione, gli studi di Sueter e l’assemblaggio del primo squadrone di velivoli che celebravano il binomio aereo-siluro, portarono allo sviluppo di gruppi d’attacco basati su portaerei in grado di lanciare raid contro i principali porti di ancoraggio di una flotta nemica.

Furono proprio le Marine delle due potenze insulari (con gli inglesi ancora nel ruolo di fonte di ispirazione per i vertici militari nipponici), a perfezionare questa tecnica d’impiego del dispositivo aeronavale, come dimostreranno le vittoriose incursioni contro le flotte italiana e americana, nelle rispettive basi di Taranto (operazione Judgement, foto), e Pearl Harbor, l’11-12 novembre 1940 e il 7 dicembre 1941.

Presupponendo il rispetto della precondizione di una progettazione a regola d’arte, così come a rendere vincente una scuderia di Formula 1 è la combinazione della bravura dei piloti con la competenza e la dedizione al lavoro della squadra di tecnici e meccanici dei box, la prontezza di rischieramento e l’efficacia operativa di una portaerei sono la risultante della professionalità e dell’esprit de corps (sia in rada che in un teatro di missione), del personale di piattaforma, combinati con l’abilità dei piloti della forza aerea imbarcata.

Tra la pluralità di fattori che contribuirono alla vittoria americana nella battaglia di Midway del 4 giugno 1942, figura la rapidità con cui fu messa nuovamente in condizione di navigare la portaerei Yorktown (CV-5). Questa unità era stata seriamente danneggiata (insieme alla Lexington che finì per affondare), nella battaglia del Mar dei Coralli, agli inizi di maggio dello stesso anno, e venne ritenuta definitivamente fuori gioco dal servizio informazioni giapponese.

Invece la Yorktown (foto seguente) riuscì a rientrare a Pearl Harbor il 27 maggio e trovò ricovero nel bacino di carenaggio n. 1, dove una squadra di riparazione dell’ordine di grandezza di un battaglione, formata da 1.400 operai portuali armati di martelli pneumatici e cannelli per la saldatura, ne rappezzarono lo scafo, rinforzandone i compartimenti danneggiati con travi di legno. Nonostante fossero poche le porte a tenuta stagna funzionanti a causa della deformazione causata dagli ordigni giapponesi, la Yorktown, con a bordo l’ammiraglio Frank Fletcher comandante della 17th Task Force, tornò a solcare le acque del Pacifico il 29 maggio, dopo 48 ore di permanenza in rada, contro i 90 giorni preventivati inizialmente.

L’esito della battaglia di Midway non poteva che influenzare in modo decisivo il corso della guerra nel Pacifico, considerando che l’entità delle perdite nipponiche arrivò a oltrepassare la capacità di recupero in tempo utile della macchina bellica del Sol Levante che subì la distruzione di quattro grandi portaerei su sei in dotazione al Rengo Kantai (Flotte Riunite).

Di gravità ancora maggiore fu la perdita di 260 apparecchi sui 325 schierati sui ponti di volo, e soprattutto dei loro equipaggi che, con un bilancio di 180 morti e 80 feriti, videro mettere fuori combattimento quasi il 45% del corpo d’élite della Marina giapponese, costituito da 600 ufficiali aviatori di prim’ordine su un totale di 5.000, di cui 3.500 erano in servizio come piloti di prima linea.

Per ovviare a questa catastrofe si cercò di accelerare l’inserimento nei ranghi dei rimpiazzi riducendo inizialmente le ore di volo del corso di formazione intermedio, arrivando poi addirittura alla cancellazione delle fasi di addestramento avanzato. In pratica, dopo aver completato il percorso formativo di base i neo-brevettati venivano inviati direttamente ai reparti di combattimento, dove era previsto un breve corso di formazione tattica prima di passare all’azione.

I risultati però non potevano che essere scadenti, anche perché la penuria di piloti di alto livello si rifletteva inevitabilmente nella mancanza di istruttori in grado di trasmettere agli allievi il bagaglio di esperienza necessario per passare dai biplani standard, in dotazione alle scuole di volo, ai velivoli da combattimento e attacco al suolo (sia questo fatto di terra o di acqua), impiegati in battaglia.

Nella seconda metà del 1943, la Marina militare nipponica registrò un raddoppio delle perdite per incidenti verificatisi in addestramento e il 1944 si aprì con un ulteriore peggioramento. Si cercò allora di correre ai ripari ripristinando l’integralità delle fasi di cui si componevano i programmi di formazione degli allievi, ma la situazione era compromessa a tal punto che alcune delle portaerei varate tra il 1943 e il 1944 si trovarono a corto di piloti per i loro velivoli.

Una quota degli aviatori appartenenti alle nuove leve era entrata in servizio sapendo eseguire il decollo ma senza la necessaria esperienza per appontare in sicurezza e in occasione della battaglia del Golfo di Leyte, nell’ottobre del 1944, alcune unità si ritrovarono del tutto sprovviste di una forza aerea imbarcata. Del resto, a quel punto la parabola militare del Giappone era da tempo nella fase discendente su tutta la linea, con molti reparti delle sue Forze Armate che ormai mancavano anche di carburante.

Gli Stati Uniti potevano contare su un ampio bacino di reclutamento costituito da una vasta e crescente popolazione che in generale risultava sufficientemente istruita. Con lo scoppio del conflitto vennero fondate due nuove scuole di volo, a Corpus Christi, in Texas, e a Jacksonville, in Florida, dove già si trovava il centro di addestramento dell’aviazione americana di Pensacola. Alla metà del 1943, il totale degli iscritti ai corsi organizzati dai tre istituti aveva raggiunto i 45.000 aspiranti piloti.

La fase conclusiva di un lungo percorso di formazione prevedeva il trasferimento degli allievi a Glenview, nell’Illinois, per esercitarsi nell’appontaggio sulle uniche due portaerei d’acqua dolce del mondo ottenute dalla trasformazione in navi-scuola di due piroscafi, il Greater Buffalo e il Seeandbee, costruiti per la navigazione nelle acque dei Grandi Laghi. Le due ex lakers, ribattezzate Sable e Wolverine (foto), erano ormeggiate lungo le rive del Lago Michigan dove i futuri piloti delle unità aeronavali, noti come carquals (dalla contrazione di carrier qualification), compivano le loro esercitazioni fino a totalizzare dalle 360 alle 450 ore di volo nell’arco dell’iter addestrativo.

Infine, ottenuta la qualifica di pilota, era previsto un servizio di prima nomina di sei mesi presso una squadriglia basata a terra e operante in collaborazione con una formazione imbarcata. Solo al termine di questo ulteriore periodo si entrava a far parte a pieno titolo dell’equipaggio di una portaerei.

Il duplice impiego delle portaerei nei teatri oceanici del Pacifico e dell’Atlantico durante la Seconda Guerra Mondiale, mise in risalto tutte le potenzialità in termini di flessibilità operativa offerte dal dispositivo di combattimento aeronavale che si dimostrò determinante tanto nello scontro tra esponenti della stessa specie, quanto nel contrasto alla guerre de course.

Con lo scoppio del conflitto l’Oceano Atlantico si confermò il terreno di caccia prediletto dei sommergibili tedeschi U-Boote, la cui classe di maggior importanza operativa e consistenza numerica fu costituita dagli esemplari del Tipo VII, e che alla fine delle ostilità arriveranno ad assumere le sembianze (vista ad esempio la rimozione del cannone sul ponte), e la capacità d’azione di veri e propri battelli sottomarini, con la comparsa delle unità del Tipo XXI che però nacquero troppo tardi anche solo per tentare di farsi valere adeguatamene sul campo di battaglia.

Nel movimento reale degli eventi di cui si compone una guerra, in special modo quando si tratta di un conflitto su vasta scala, il continuo rincorrersi tra la messa a punto di determinate minacce e la comparsa delle relative contromisure mette bene in evidenza, attraverso il processo dialettico di competizione tra attacco e difesa, quanto siano per loro natura integrate le diverse dimensioni che la dottrina militare identifica come componenti di un teatro di operazioni.

La migliore contromisura alle scorribande degli U-Boote non venne dal mare ma dal cielo, nella forma di ricognitori e bombardieri a lunghissimo raggio (come i Consolidated B-24 Liberator), definiti dallo stesso ammiraglio Karl Dönitz: la maggiore minaccia per i sommergibili. Questi velivoli, grazie anche al radar e ai moderni strumenti di comunicazione e spionaggio via radio, trasformarono i sommergibili tedeschi da predatori in prede (foto).

I “branchi di lupi” vennero spinti a rifugiarsi nella “fossa atlantica” (o “buco nero” che dir si voglia), un corridoio largo circa 1.000 km che attraversava la parte centrale dell’Atlantico, andando da nord (fra l’isola canadese di Terranova e l’Islanda), all’area delle Azzorre, fuori dalla portata degli aerei che operavano dalle basi alleate terrestri delle due coste.

Per stanare gli U-Boote dal loro santuario si fece ricorso a unità portaerei specializzate nella scorta dei convogli (Escort Carrier o CVE), progettate per la prima volta nel Regno Unito per contrastare le incursioni delle squadriglie aeree tedesche a lungo raggio d’azione formate dai Focke-Wulf Condor i quali, operando dalle loro basi sulla costa francese, compivano ricognizioni volte a individuare bersagli per gli U-Boote e agivano anche “in proprio” attaccando il naviglio mercantile britannico al largo delle coste occidentali inglesi, al di là del raggio d’azione dell’aviazione terrestre di Sua Maestà.

Così, nel 1941, la Royal Navy schierò l’Audacity (derivata dalla bananiera tedesca Hannover), i cui sei caccia Martlet II (denominazione inglese dei Grumman F4F Wildcat), si dimostrarono in grado di abbattere gli FW Condor e di svolgere attività di pattugliamento per segnalare la presenza dei sommergibili tedeschi.

L’Audacity venne affondata nel dicembre dello stesso anno ma la sua pur breve vita operativa dimostrò la validità del progetto. Impiegando unità di questo tipo nella battaglia dell’Atlantico, gli Alleati poterono assicurare una copertura aerea continua ai propri convogli da una costa all’altra dell’oceano, arrivando a colpire gli U-Boote anche nella loro ultima riserva di caccia.

Le CVE svolsero un ruolo di primo piano anche nel perfezionamento delle tecniche d’attacco combinato riguardanti le operazioni anfibie, per la cui riuscita era necessario garantire un’adeguata copertura aerea alle forze da sbarco.

Nel novembre del 1942, durante l’operazione Torch, condotta contro le coste nemiche in Nord-Africa, le truppe d’assalto alleate beneficiarono del supporto aereo fornito da una formazione aeronavale anglo-americana basata su due gruppi di portaerei da appoggio e scorta. I britannici schierarono le unità Briter, Dasher e Avenger (spalleggiate dall’Argus), con i loro 45 Hawker Sea Hurricane, 12 Supermarine Seafire e 3 Fairey Swordfish. Il contributo della U.S. Navy era rappresentato dalle corrispondenti unità della classe Sangamon (realizzate convertendo delle petroliere il cui potente sistema propulsivo ne accrebbe la capacità operativa rispetto alla classe precedente), denominate Sangamon, Suwannee e Santee (foto), che traspotavano: 55 Wildcat, 26 Grumman Avenger e 18 Douglas SBD Dauntless.

Dal punto di vista industriale-finanziario le portaerei sono una “brutta bestia”, sia per la complessità costruttiva che per gli alti costi che inevitabilmente vi si accompagnano, per questo, praticamente fin dalla loro comparsa, si cerca ciclicamente di convincersi che sono inutili. Del resto, per la loro stessa natura, a differenza di quanto può valere per i sistemi imbarcati, riguardo ai costi della piattaforma non si può contare più di tanto sulle economie di scala.

Dal secondo dopoguerra solo gli Stati Uniti si sono potuti permettere una flotta di portaerei in doppia cifra, e il superamento della soglia di 100 unità costruite nella prima metà degli anni ’40 (di tutte le tipologie e considerando sia quelle realizzate ad hoc che le derivazioni da altro tipo di naviglio), è stato reso possibile dall’enormità delle risorse a disposizione della potenza continentale americana in ascesa, combinata all’eccezionalità di un momento storico segnato dalla mobilitazione totale per il secondo conflitto mondiale.

L’icona ricorrente degli anni Trenta, la “Madonna della Depressione”, cedette il passo all’ideale propagandistico della donna che lavorava per lo sforzo bellico, “Rosie la Rivettatrice” (anche se dati i mutamenti nella prassi lavorativa, “Rosie la Saldatrice” sarebbe stato un nome più adeguato) (Richard Overy, “La strada della vittoria”, il Mulino, 2011).

Nel biennio 1943-1944 il Giappone costruì 7 portaerei mentre gli Sati Uniti ne produssero 90. Nel fuoco della Seconda Guerra Mondiale, oltre alle truppe schierate sui campi di battaglia, si fronteggiarono anche eserciti di lavoratori inquadrati nei contrapposti apparati economico-produttivi che sostenevano la macchina militare delle parti in lotta.

Visto il riferimento di Overy alla figura di Rosie the Riveter, vale la pena sottolineare che i ranghi di queste particolari forze combattenti raggiunsero la necessaria consistenza solo grazie ad un forte aumento dell’occupazione femminile, il che ebbe importanti ripercussioni dal punto di vista dei rapporti sociali.

Basti pensare che negli USA tutti gli editori furono invitati a dare il massimo risalto a ogni possibile opportunità di lavoro per le donne, in linea con lo slogan che campeggiava sui manifesti e i volantini di propaganda: più saranno le donne al lavoro e prima vinceremo (the more women at work, the sooner we win).

Da ciò discende un risvolto emblematico della complessità degli effetti sul mutamento sociale, generati dai molteplici nessi dialettici che si intrecciano in un evento bellico. Con l’inserimento accelerato delle donne nel mondo del lavoro, messo in moto dal reclutamento di guerra, le due carneficine mondiali hanno finito per diventare anche altrettanti momenti di svolta nella storia delle lotte per l’emancipazione femminile.

Tornando all’industria aeronavale, negli studi comparati dei differenti dispositivi militari, non è corretto confrontare il costo di una portaerei con quello dell’equivalente operativo espresso da un numero di velivoli in configurazione terrestre (ad ala fissa e rotante), pari a quello ospitabile dalla piattaforma navale.

In quanto base aerea galleggiante, una portaerei conferisce flessibilità operativa e velocità di rischieramento alla forza di proiezione di una grande potenza, affrancandola (seppur entro certi limiti), dalle problematiche politiche legate alla possibilità di utilizzo di una base terrestre all’estero, nonché dai costi di allestimento e mantenimento di tale installazione. Quindi, la comparazione tra i diversi tipi di investimento in questione, dovrebbe essere parametrata sul life cost cycle di una portaerei in rapporto a quello dell’intera struttura di una base aerea di terra.

Inoltre, la grande quantità di risorse mobilitate nella costruzione e nella successiva manutenzione di una portaerei, genera importanti ricadute industriali e occupazionali, tanto è vero che, l’allestimento e le periodiche revisioni a cui queste unità vengono sottoposte, prendono parte alla competizione fra esponenti politici in lotta tra di loro per la conquista e il consolidamento di una propria base elettorale territorialmente radicata.

Nella sua autobiografia, Colin Powell racconta che nel 1979, in occasione di un importante intervento di ammodernamento riguardante la Saratoga (CVA-60 - foto), gli studi di fattibilità condotti dalla U.S. Navy avevano individuato i cantieri di Norfolk, in Virginia, come sito industriale che presentava la maggior convenienza economica per l’esecuzione dei lavori.

L’allora segretario alla Marina, Graham Clayton, concordava con le conclusioni dei tecnici dell’Arma, ma Walter Mondale, vicepresidente nell’amministrazione guidata da Jimmy Carter, durante la campagna elettorale aveva promesso agli abitanti di Philadelphia che la commessa per la ricostruzione della Saratoga sarebbe stata affidata agli stabilimenti navali della loro città.

Venne perciò redatto un nuovo rapporto (firmato proprio da Powell, all’epoca assistente di Charles Duncan, segretario al Dipartimento dell’Energia), favorevole alla cantieristica della Pennsylvania, e affinché non vi fossero dubbi su chi dovessero ringraziare i cittadini di Philadelphia per l’aggiudicazione di questo contratto, Walter Mondale si posizionò in bella vista sul ponte della Saratoga durante il suo ingresso nel bacino di carenaggio.

Durane la Guerra del Golfo del 1991, la Saratoga, assieme alla sua capoclasse Forrestal (CVA-59), fece parte della forza di proiezione aeronavale schierata dagli USA e costituita da una flotta che superava le 70 unità, fra le quali figuravano 7 portaerei. Il contributo dell’aviazione imbarcata durante il conflitto è quantificabile in circa la metà dell’intero potenziale offensivo aereo e oltre alle due Attack Carrier già citate, vennero mobilitate: la Midway (CV-41), la John F. Kennedy (CV-67, ultima portaerei a propulsione convenzionale costruita per la US Navy), la Roosevelt (nuclear-powered attack carrier, CVN-71), la America (CVA-66) e la Ranger (CV-61).

L’implosione dell’URSS e la conseguente dissoluzione della sfera d’influenza sovietica, non potevano che portare al riaccendersi dei contrasti politici (con annesse faide etnico-religiose), che storicamente interessano la zona che va dai Balcani al Caucaso, regioni accomunate (tanto che la seconda è stata definita “i Balcani d’Oriente), dalla presenza di una pluralità di Stati falliti che ne fanno aree di pressoché endemica instabilità.

Alle dichiarazioni di indipendenza da parte della Slovenia e soprattutto della Croazia, alla fine di giugno del 1991, seguì una reazione della Serbia sfociata in una guerra la cui prima fase si concluderà agli inizi del 1992, ma i combattimenti, legati al precipitare della situazione in Bosnia-Herzegovina, avranno termine solo il 5 novembre 1995 con l’accettazione serba del cessate il fuoco a cui seguiranno gli accordi di pace di Dayton (Ohio), formalizzati nel dicembre dello stesso anno.

Nel contesto delle diverse missioni internazionali che hanno interessato la ex Jugoslavia in quel periodo, gli Stati Uniti dispiegarono nell’Adriatico la Task Force 60 (inquadrata nella Sixth Fleet, operante nel Mediterraneo), con la portaerei Kennedy (foto), salpata da Norfolk il 7 ottobre 1992, nel ruolo di nave ammiraglia, fino all’aprile dell’anno successivo che vide subentrare la Roosevelt (foto), a sua volta rilevata successivamente dalla Saratoga agli ordini dell’ammiraglio Bill Wright.

Sia nella fase preparatoria, dall’ottobre del 1998 fino ai primi di marzo del ’99, che durante le operazioni inerenti alla Guerra del Kosovo (missione NATO Allied Force), dal 24 marzo al 3 giugno 1999, la statunitense TF 60 che tra le sue fila annoverava la Eisenhower (CVN-69), si è coordinata con la squadra franco-britannica TF 470, guidata dalla Marine Nationale che aveva messo in campo la portaerei Foch.

Il 19 marzo 2011 ha preso il via, sotto la direzione USA, la missione NATO Odissey Dawn, a cui ha fatto seguito, dal 31 dello stesso mese, Unified Protector a guida europea. La U.S. Navy ha messo a disposizione di OD l’Expeditionary Strike Group 5, squadra navale basata sulla 26th Marine Expeditionary Unit, portaeromobili d’assalto anfibio LHD-3 (Landing Helicopter Dock), Kearsarge della classe Wasp, che imbarcava sei AV-8B Harrier da interdizione.

La Kearsarge era affiancata dai cacciatorpediniere Barry (DDG-52), e Stout (DDG-55), classe Arleigh Burke, dai sottomarini nucleari d’attacco (dotati di missili Tomahawk), Scranton (SSN-756), e Providence (SSN-719), classe Los Angeles, e faceva riferimento alla nave posto-comando Mount Whitney (LCC/JCC-20).

Sembra siano stati gli italiani i primi ad interessarsi alle potenzialità dei velivoli ad ala rotante come forza aerea imbarcata. Indicazioni in tal senso si trovano già in documenti ufficiali dei primi anni ’20 e nel 1935 la Regia Marina sperimentò, a La Spezia, l’impiego sull’incrociatore Fiume dell’autogiro ideato dallo spagnolo Juan de la Cierva che lo aveva brevettato nel 1920.

L’idea di fondo puntava innanzitutto a migliorare la sicurezza del volo dei “più pesanti dell’aria”, ovviando in particolare al problema dello stallo. De la Cierva costruì allora un apparecchio “ibrido” costituito da un aereo dotato di un’elica collocata sopra il velivolo e capace di garantire una continua portanza, anche in assenza di un’applicazione di potenza grazie al fenomeno dell’autorotazione. Per ovviare al problema della differenza di portanza delle pale in autorotazione, il costruttore iberico installò due rotori sovrapposti controrotanti.

L’architettura a doppio rotore coassiale controrotante diventerà un tratto distintivo degli elicotteri Kamov, il cui modello più famoso è il Ka-50 Werewolf (foto), ma il costruttore sovietico (dal 1991-’92 russo), si è distinto in generale proprio per la realizzazione di un’articolata serie di macchine destinate all’impiego navale, specialmente nella lotta antisommergibile.

Furono tuttavia gli americani i primi a mettere a punto la tecnica di “assalto verticale” tramite il rischieramento rapido di truppe eliportate, ma sarà al Royal Navy a farsi carico del debutto del nuovo dispositivo in un teatro di guerra. L’occasione si presentò con la crisi di Suez, durante la quale gli inglesi impiegarono le portaerei Eagle, Albion e Bulwark, mentre i francesi schierarono le unità Arromanches e Lafayette.

Il 6 novembre 1956, 600 fucilieri della Marina britannica vennero sbarcati da una squadriglia di 22 elicotteri Whirlwind (prodotti dalla Westland su licenza della statunitense Sikorsky), e Sycamore (sviluppato nel secondo dopoguerra dalla Bristol Aeroplane Company), i quali, sfruttando al massimo l’effetto sorpresa, dopo la prima ora e mezza avevano già trasportato a destinazione 415 uomini e 20 tonnellate di materiale (per la maggior parte munizioni).

Nell’intera operazione la Royal Navy perse un solo elicottero e il velivolo ad ala rotante si fece notare anche per un’altra performance di grande importanza per il futuro operativo di queste macchine: un fuciliere ferito si ritrovò nell’infermeria della portaerei dopo 19 minuti dalla sua evacuazione dal campo di battaglia.

Nella sua analisi delle operazioni condotte dalla Marine Nationale durante la Guerra del Kosovo, l’ammiraglio Alain Coldefy (allora comandante della TF 470), richiama l’attenzione su alcuni insegnamenti che una forza di proiezione (in prima battuta francese ma in prospettiva europea), può trarre da quell’esperienza.

All’epoca andava per la maggiore sostenere che ormai si sarebbe operato nel Mediterraneo, facilmente accessibile in ogni sua parte direttamente dal territorio metropolitano. L’operazione del 1999 ha dimostrato tutta l’importanza della portaerei, anche nel teatro di intervento europeo […] Il dispiegamento nell’Adriatico, in posizione ravvicinata alle coste jugoslave, si è rivelato decisivo nella condotta delle operazioni, consentendo una reattività, una persistenza e una flessibilità d’intervento senza pari (“Les opérations de la Marine nationale devant le Kosovo en1999: le rôle du Groupe Aéronaval”, in “Entre terre et mer. L’occupation militaire des espaces maritimes et littoraux”, a cura di Jean de Préneuf, Eric Grove e Andrew Lambert, Economica, 2014).

Benché siano passati quasi ottant’anni dall’operazione Judgement e dalla battaglia di Capo Matapan - nella quale la vera carta vincente a disposizione della flotta inglese agli ordini dell’ammiraglio Andrew Cunningham fu la portaerei Formidable, la cui forza aerea aveva: scovato le unità italiane immobilizzandole, difeso la squadra navale britannica e neutralizzato il servizio informazioni nemico – in seno all’Unione Europea nessuno più degli italiani dovrebbe essere consapevole di quanto sappiano rendersi utili le portaerei, Mediterraneo incluso. A meno che non ci si illuda di dover affrontare in eterno solo situazioni di conflitto a bassa o bassissima intensità, durante le quali, da quasi trent’anni, di volta in volta le forze USA, NATO, ONU o UE hanno beneficiato di una superiorità soverchiante, soprattutto in termini di potere aereo.

Non è questo però lo scenario futuro che lasciano intravedere i movimenti in atto nello scacchiere internazionale, in special modo in un’epoca in cui il mare nostrum di Romana memoria assume sempre più le sembianze di un grande canale di collegamento tra le distese oceaniche atlantica e indiano-pacifica, dove sono – e saranno sempre più – in attività le forze navali di medie e grandi potenze (ascendenti o declinanti che siano), vere pietre di paragone di ultima istanza per la valutazione degli stadi di avanzamento del processo di unificazione europea.

In questa ottica, l’operazione Fincantieri-STX, siglata con la firma, lo scorso 2 febbraio, dell’accordo che vedrà il gruppo navale italiano prendere le redini degli impianti di Saint-Nazaire (tramite l’acquisto del 50% del capitale per 59,7 milioni di euro a seguito di una trattativa con il governo transalpino rivelatasi più complicata del previsto), è un’occasione da non sprecare per sviluppare una partnership industriale italo-francese attorno alla quale aggregare un polo cantieristico continentale, dotazione indispensabile per la creazione della base tecnologico-industriale su cui far poggiare una futura Difesa europea.

(foto: U.S. Navy / web - in apertura la portaerei nucleare statunitense USS Carl Vinson)