L’esito dei colloqui nucleari mediati dall’Oman ed iniziati in aprile tra il ministro degli Esteri iraniano Araghchi e l’inviato speciale USA Steve Witkoff, ha consentito di avvicinare Teheran e Tel Aviv al raggiungimento della massa critica che ha determinato l’inizio delle ostilità, malgrado l’interesse americano e l’attendismo iraniano, naturalmente proiettato al guadagno di tempo.

Di fatto, da parte israeliana, è emersa la considerazione della necessità di una campagna globale non indirizzata solamente contro il programma nucleare iraniano, ma anche a garantire la debellatio dell’asse internazionale filo-iraniano e il contenimento dell’armamento missilistico. Da parte sua, Israele non ha fatto altro che ridare verve alla dottrina Beginfondata sugli attacchi preventivi agli impianti nucleari, come avvenuto nel 1981 con l’Operazione Opera, che condusse alla distruzione del reattore nucleare di Osirak, vicino Baghdad.

L’ipotesi che un confronto diretto avrebbe inflitto gravi sofferenze ad ambedue i contendenti, ha funzionato grazie ad una deterrenza infranta dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, che ha fatto saltare un equilibrio comunque precario dopo aver proiettato il MO verso un conflitto volto a tracciare nuovi rapporti di forza.

Dopo una settimana, il conflitto può solo essere controllato, visto che non si tratta di una crisi sporadica, non fosse altro perché Israele ha chiaramente fatto intendere che si tratta di una guerra che non può essere lasciata incompiuta. Mentre la difesa aerea iraniana è annichilita, per Israele, mobilitato su più fronti, si è presentata un’opportunità unica per eliminare il problema della minaccia nucleare iraniana, ovvero un’impresa impossibile da riprendere successivamente visto il prezzo politico e militare troppo elevato. Rising Lion proseguirà dunque almeno fino al raggiungimento degli obiettivi minimi, quelli connessi all’annientamento della minaccia nucleare; il rovesciamento del regime rientra tra i desideri appena sussurrati.

È evidente come nessuno dei due contendenti, non potendo accettare una vittoria mutilata, rinuncerà ad utilizzare ogni risorsa disponibile, innescando un conflitto convenzionale ad alta intensità, tecnologicamente asimmetrico, privo della dimensione terrestre, più dinamico e sbilanciato di quello ucraino, di durata imprevedibile ma presumibilmente e relativamente breve.

Gli aerei israeliani sorvolano l’indifesa Siria, il Kurdistan siriano e quello irakeno, per giungere in Azerbajan, paese con cui Tel Aviv intrattiene relazioni amichevoli, per raggiungere, dopo un rifornimento, gli obiettivi. Se la forza aerea iraniana è pressoché inesistente, rimane tuttavia la componente missilistica, di fatto lanciata ad ondate volte a saturare lo spazio aereo israeliano.

Va detto che i missili balistici iraniani, senza concreta ricognizione satellitare e GPS, possono colpire solo bersagli fissi, provocando tuttavia notevoli danni implementati dall’uso di testate a grappolo e, forse, di droni armati con missili.

Estendendo l’analisi sulle propaggini regionali più immediate, Tel Aviv ha decimato la leadership di Hezbollah in Libano, ha attaccato gli Houthi nello Yemen, ha bombardato la Siria post-Assad, tutti elementi che potrebbero indurre a ritenere che Israele intenda conquistare un ruolo egemonico regionale, estremamente impegnativo, cosa che obbliga comunque ad esaminare la consistenza della base demografica, chiaramente a favore della fazione arabo-iraniana, e la maggiore stabilità politica, la tecnologia, l’addestramento e l’equipaggiamento a favore del partito israeliano. Tel Aviv, al momento, malgrado le capacità, tuttavia non può ambire ad una più fattiva egemonia, stante la minaccia Houthi ed il protrarsi delle operazioni a Gaza.

Ultimo punto, non meno importante, è il rapporto con gli USA, alleato fondamentale e non eludibile, visto il sostegno militare e la tutela diplomatica, senza contare che rimarrebbe comunque necessario il placet dei Paesi circostanti, un trend che, inaugurato pacificamente dagli Accordi di Abramo, si è interrotto il 7 ottobre 2023, ponendo fine ad ogni possibile consolidamento politico volto ad assicurare stabilità.

Oltre che un annichilimento del programma nucleare di Teheran, Israele sembra indirizzato ad infliggere danni permanenti alle capacità militari e alla volitività politica iraniane, cosa del resto comprensibile laddove si consideri la minaccia esistenziale paventata, non a torto, da Tel Aviv. Il 60% di arricchimento dell’uranio, lo stop a qualsiasi opzione diplomatica, l’indebolimento di Hezbollah, rende comprensibile la decisione israeliana di colpire direttamente e non per procura. Il rischio più significativo è che Teheran, a sua volta, decida di considerare gli attacchi israeliani come una minaccia esistenziale tale da giustificare comunque lo sviluppo di armi nucleari, un’evoluzione sostenuta sia dal residuo arsenale missilistico, presumibilmente ancora significativo, sia dagli strumenti asimmetrici disponibili, vd. attacchi terroristici – secondo il principio della negabilità plausibile – o cyber; i successi militari israeliani conterranno la minaccia anche contro apprestamenti e personale USA, traslandola sul lungo termine.

Per quanto concerne la competizione con Russia e Cina, per Washington persiste la convenienza che Israele reiteri i suoi attacchi. Se Israele neutralizzasse il programma nucleare iraniano destabilizzando il regime, si determinerebbe comunque un disallineamento nell’equilibrio di potere regionale, film drammatico già visto post caduta dell’Iraq.

Possibili eventi tesi ad incidere sulle vulnerabilità economiche globali: attacchi iraniani alle infrastrutture petrolifere e gasiere arabe del Golfo con il contestuale blocco dello Stretto di Hormuz.

Possibili scenari immediati e di credibilità graduale: prosecuzione della guerra bilaterale; partecipazione delle forze statunitensi all’azione israeliana; tentativo di risoluzione diplomatica per mezzo del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite; sostegno di Russia e Cina a Teheran.

Le intenzioni di Washington potrebbero propendere, più che per un annichilimento, per un indebolimento iraniano, considerato che la vision regionale americana si fonda su Israele, Iran, Golfo e Turchia, plinti che, se in condizione di squilibrio, metterebbero a rischio gli interessi americani in MO ostacolandone presenza e influenza. La momentanea tattica attendista americana, oscillante tra l’intervento militare e l’irrazionale miracolo diplomatico, si dipana tra la contrarietà della base elettorale trumpiana ed il tentativo di ammorbidire la resistenza di Teheran; in ogni caso il guadagno di tempo aumenta le opzioni, sia incrementando le chance di mediazione sia permettendo il completo rischieramento aeronavale USA a fronte di una forte penuria di alternative per Teheran che, rinunciando al nucleare rinuncerebbe anche alla sua deterrenza anti ebraica agevolando un possibile regime change.

Nel Golfo la guerra non ha sorpreso nessuno posto che, politicamente, in quell’area si intende evitare qualsiasi coinvolgimento, stigmatizzando Israele ed intensificando i rapporti diplomatici con Teheran, secondo una politica di distensione e riconciliazione che, tuttavia, non impedisce di guardare con empatia all’indebolimento di Teheran. Il rischio è insito nel fatto che gli iraniani possano prendere di mira sia le strutture estrattive ed energetiche di sauditi ed emiratini, sia le basi statunitensi regionali, una minaccia resa più sensibile dalla consapevolezza che solo gli americani potrebbero difendere l’area poiché possiedono le armi utili alla difesa ed alla distruzione dei più rilevanti apprestamenti iraniani, come il sito di arricchimento nucleare di Fordow apparentemente in attività, impresa che provocherebbe la perdita iraniana di credibilità politica e strategica.

La caduta di Teheran segnerebbe la fine dell’influenza iraniana su una vasta rete di alleanze: Hezbollah, Houthi, milizie sciite in Iraq e regime siriano; una delle ipotesi guarda ad una transizione verso un governo più laico, magari a fantaguida Pahlavi. Nel frattempo, se il controllo dello Stato venisse meno, il rischio di una proliferazione nucleare o di intromissione in ambiti sensibili da parte di attori non statali aumenterebbe. Anche l’Iraq potrebbe incappare in un vuoto di potere, con una perdita di legittimità per le forze sciite. Il problema riguarderebbe, eventualmente, la guida a cui affidare la transizione.

Da considerare poi il peso della diaspora iraniana all’estero che cerca di mantenere il legame con la terra d’origine; il problema è che non si tratta di un blocco unico e motivato, quanto piuttosto di una congerie di diversi orientamenti, tra monarchici, repubblicani, laici; insomma, non è chiaro se sussistano le condizioni per un effettivo regime change senza correre il rischio di creare una voragine securitaria, visto che non esiste un’opposizione organizzata, eccettuata quella, più veemente, sostenuta dalle minoranze. Ipotizzare una rivolta popolare che non coinvolga in parte le FA è davvero difficile, anche perché i sentimenti popolari potrebbero sì osteggiare il regime, ma non appoggiare incondizionatamente Tel Aviv; basti pensare alle presidenze riformiste succedutesi in Iran, vittime indirette delle politiche occidentali, come Mohammad Khatami e Hassan Rouhani, colpito dalla decisione unilaterale dell’amministrazione Trump di uscire dal JCPOA.

Di fatto, l’attacco israeliano aumenterà l’aspirazione alle armi nucleari, anche perché nulla vieta che un colpo di stato potrebbe consumarsi, se già non avvenuto, conferendo i pieni poteri ai falchi nucleari delle Guardie della Rivoluzione. Il cessate il fuoco farebbe sì che la leadership iraniana possa trovarsi ad affrontare diverse incognite; se è vero che continuare l’arricchimento dell’uranio potrebbe riaccendere il conflitto coinvolgendo gli Stati Uniti, è altrettanto vero che qualsiasi negoziazione condurrebbe a rinunciare alle capacità di arricchimento. Khamenei dovrà quindi o rischiare la sopravvivenza continuando la guerra, o mettere in discussione qualsiasi progetto politico a lungo termine abbandonando una sorte di deterrenza assicurativa, o rischiare un crollo a stretto giro o semplicemente rimandarlo nel tempo, replicando l’amaro calice di Khomeini nel 1988, quando accettò il cessate il fuoco con l’Iraq.

Per Israele le opzioni strategiche sono due; continuare la campagna per consolidare ed espandere quanto conquistato, ma affrontando costi proibitivi erodendo l’essenza dei risultati strategici acquisiti; perseguire un cessate il fuoco, che se prematuro priverebbe tuttavia della possibilità di conseguire gli obiettivi. In ogni caso, chiunque governerà Israele, dovrà essere preparato ad un conflitto a lungo termine, con attriti continui, intelligence aggressiva, necessità del mantenimento delle conquiste, blocco preventivo di qualsiasi forma di revanche.

Ecco che le ipotesi riconducono ad un cambio di regime, benché sia poco probabile che possa essere conseguito solo grazie alla forza aerea.

L’ennesimo rischio potrebbe concretizzarsi nella creazione di un vuoto politico all’interno di una regione che gli USA desiderano, con il fallimento dello Stato o un prolungamento della guerra, come accaduto in Afghanistan, Iraq, Libia, tutte prospettive che vanno considerate anche in campo iraniano. Se l’Iran fallisse, d’altro lato, potrebbe comunque costringere Israele ad un lunghissimo e logorante stillicidio.

Regime change non equivale ineluttabilmente a democrazia: in Iran molto probabilmente condurrebbe ad uno stato militare. Perché il cambio sia legittimo deve provenire dal popolo, non dall’esterno. 

Sta di fatto che l’estrema fluidità degli eventi, sta giustificando una fantapolitica che, secondo refrain consolidati, potrebbe vedere la riedizione riveduta e scorretta di corvette in fuga, sovraffollate di maggiorenti e valige abbandonate in banchina, malgrado la guerra (per alcuni) continui, come fuggevolmente accaduto e successivamente dimenticato altrove. Le promesse di libertà, specie quelle portate da un Ovest neocon, al momento, si sono sempre frantumate contro realtà locali incomprese da chi auspicava una democrazia esportata con le armi.

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