Servizio di leva e responsabilizzazione: un’associazione costosa ma utile?

(di Gianluca Celentano)
05/07/22

Quante volte abbiamo sentito frasi del tipo “A certi giovani servirebbe il servizio militare” o loro versioni più colorite come “Se avesse preso qualche pedata in culo da militare, ora si comporterebbe diversamente”. In effetti quando si leggono certe notizie o si assiste impotenti a qualche spiacevole episodio, in molti congedati sorge spontanea questa associazione.

Potremmo sostenere che il servizio militare era più una scuola di vita e di responsabilizzazione concentrata in 12 mesi piuttosto che una di guerrieri. Prima veniva il rispetto per la Bandiera e per il proprio Paese, poi si imparava l’osservanza gerarchica e dell’anzianità, ma alla base di questa esperienza vi era soprattutto la lealtà.

Il servizio di leva obbligatorio per i giovani maschi fu ufficialmente istituito nel giugno 1875 ma in realtà risale al 1861, in concomitanza con la proclamazione del Regno d’Italia. È stata un'istituzione durata 144 anni sino a quando il 1 luglio del 2005 il Senato della Repubblica approvò la sospensione della leva militare abolendola così di fatto. Furono le classi dei nati nel 1985 gli ultimi scaglioni a giurare fedeltà alla Bandiera.

Non basterebbe un libro per descrivere questa esperienza, ma vorrei proporre qualche riflessione che che mi auguro sia condivisa. L’approccio con le caserme era spesso traumatico ma, con il passare di giorni e mesi, ci si ambientava aiutati da routine giornaliere sempre uguali e scandite dagli squilli di tromba.

In effetti la logica militare era curiosa perché il suo scopo principale era formare all’obbedienza verso regole, superiori e anzianità. In fondo il servizio militare è stato l’anticamera del mondo del lavoro e, proprio dietro alle gialle mura, molti di noi hanno imparato a conoscere mestieri, usi e costumi, a controllare le emozioni e a sopportare le scelte, a volte ingiuste, fatte dall’alto, e persino a convivere con l’onnipresente fenomeno del paraculismo.

Qui non c’entra essere più o meno militaristi oppure avere una fede politica, ma portare su di sé quel metaforico e indelebile tatuaggio che questa esperienza formativa ha impresso infondendoci il rispetto reciproco. Un rispetto che oggi purtroppo manca a una quantità di giovani bulli e di adulti violenti e prepotenti.

Il servizio militare, soprattutto in relazione al reparto d’assegnazione, impartiva comunque una formazione importante: imparavi a vivere, ma anche ad aver la freddezza nelle azioni belliche, come hanno dimostrato i nostri soldati di leva nel 1982 durante la prima missione fuori area in Libano, ITALCON.

C’è da dire che la vita lavorativa odierna è improntata molto sulla competizione e meno sulle qualità intrinseche dell’individuo e sul suo ruolo nella società e in famiglia. Anche alcuni esempi politici ambigui o poco edificanti contribuiscono all’abbandono formativo di molti giovani creando rabbia e frustrazione in una fetta importante della popolazione che vede gli stipendi andarsene in metà mese…

Qui l’analisi ci porterebbe lontano perché sono molti i fattori nel quadro sociale da valutare. Con internet non c’è più la pazienza di saper attendere e le fake news spesso cavalcano questa rabbia, si è letteralmente bombardati da un marketing senza regole che vuole uniformarci, mentre sul lavoro il collega più bravo e zelante è osservato come una minaccia per il proprio posto di lavoro.

Il fenomeno collaterale delle baby gang

I dati sono sconcertanti, infatti l’adesione a bande con precise regole (e non a innocui gruppi di amici) avviene già a sette anni, ma sono gli adolescenti i più violenti. Tra le teorie c’è il contesto famigliare-affettivo assente, una ricerca di autodeterminazione e stima, nonché i proventi da furti o spaccio, piuttosto che una esternazione incontrollata di aggressione-frustrazione.

Qui il fallimento dell’integrazione è lampante così come quello degli interventi sociali. Infatti la percentuale maggiore di questi gruppi, sono riconducibili a giovani nati in Italia da famiglie straniere.

Da qualche articolo emerge, così come dalla convinzione di molte persone, che il lockdown abbia influito molto all’incattivimento della società creando diffidenza tra i rapporti interpersonali diretti.

Le regioni più colpite dalla crescita del fenomeno sarebbero Piemonte, Lombardia ed Emilia Romagna e qui il web ha responsabilità non indifferenti. Infatti oltre all’aggregazione programmata tra bande, dallo smartphone di questi ragazzi sono cliccati in particolare video violenti di rapper che propongono stili di vita all’insegna del vandalismo e contro le forze dell’ordine. Tuttavia se li prendi singolarmente e provi a parlargli, ti accorgi delle loro delicatezza caratteriale e, se gli dai fiducia, difficilmente ti faranno pentire d’averlo fatto.

È il loro capobranco in particolare l’elemento da rendere innocuo. Come tutti i fenomeni (lo è stato anche per l’eroina) o per le mode, anche il problema delle baby gang è destinato a dissolversi in un paese civile almeno, quanto più velocemente la politica nazionale riuscirà a trasmettere realismo e credibilità. Il discorso è lungo, ma la massiccia astensione dalle urne non è troppo distante dal malessere che inquina il nostro paese.

Concludo il blocco sulla condizione sociale ricordando che, nei facoltosi e “democratici Stati Uniti” ma anche nella povertà di qualche periferia dell’America latina o altri paesi, questi fenomeni ci sono da anni, ma essendo legati sostanzialmente alla povertà, chi governa non sembra dargli troppa importanza. A questa realtà sia l’Europa che l’Italia non dovranno abituarsi vista la grande storia di conquiste sociali e civili che le contraddistingue.

Leva o professionisti: cosa conviene di più?

Fermo restando che in caso di un grande conflitto armato (vedi l’Ucraina) anche un diciassettenne o sedicenne potrebbe essere formato con rapidità all’uso di armi corte e lunghe, esplosivi e tecniche di guerriglia, ho provato a domandare a qualche generale costi e benefici tra leva e professionismo. Mettendo da parte l’aspetto educativo dell’esperienza, devo ammettere che i pareri sono molto discordi tra chi è pro ripristino della leva e chi no.

Un ufficiale pone la sua teoria anche in termini di vestiario da cambiare ogni 12 mesi rispetto ai VSP per i quali, invece, i costi sono maggiori per gli stipendi e per le molte esercitazioni. Mi dice comprensibilmente che ci vorrebbero le cifre totali esatte per fare un paragone che su due piedi sembra non conoscere...

Un altro ufficiale molto più disponibile, mi informa che i parametri sono in realtà molti da analizzare. Sostiene che se si tenesse conto di un ipotetico standard addestrativo per il servizio ciclico, il professionismo militare farebbe risparmiare non dovendo ripetere tutto ad ogni scaglione. Pone poi l’attenzione sul fattore delle retribuzioni e dei costi delle infrastrutture, ben sapendo che il costo di un VSP supera ovviamente quello di un soldato di leva, il quale ha in compenso meno pretese per l’accasermamento. Tuttavia anche infrastrutture e caserme hanno costi e consumi che oggi probabilmente affosserebbero i budget della Difesa. A livello d’organico - continua il generale - c’è da considerare i riflessi sulle aliquote: il rendimento di cinquanta effettivi è di gran lunga superiore a un pari numero di militari di leva. Conclude affermando che: “in linea di massima, il costo di un esercito dei professionisti è sicuramente superiore a quello di una forza di leva. Non voglio entrare nel merito degli aspetti sociali, morali, educativi e spirituali delle due soluzioni... che pure hanno un grande peso”.

C’è da dire che molte storiche caserme sono ormai state chiuse o smantellate, per cui potrebbe anche sorgere il dubbio su come alloggiare migliaia di giovani per un’ipotetica ferma annuale obbligatoria. Vero è che molti di questi giovani non sarebbero più neppure di origine italiana e che l’esperienza militare, potrebbe essere un infallibile sistema per tramandare la storia d’Italia oltreché per integrarli socialmente.

Le Forze Armate non sono scuola e famiglia

Credo sia necessario fare una precisazione su eventuali proposte lanciate da chi vuole reintrodurre il servizio di leva militare. Sembra scontato come concetto, ma è bene ribadirlo: le forze armate, nell’espressione più laica possibile, sono un’articolata organizzazione gerarchica al servizio emergenziale del paese dove si impara a rispettare la Bandiera. È inammissibile affibbiare ai militari un’altra “grana”, cioè quella di educare i nostri giovani.

Se si registra un limite o un fallimento nell’educazione scolastica e familiare nonché nell’integrazione civile, il problema non è delle forze armate ma semmai di scelte politiche azzardate che stanno presentando il conto.

Leva o riserva “specializzata”

In questo contesto dove i pareri discordanti e la valutazione dei costi rendono difficile farsi un’idea dell’opportunità del ripristino del servizio militare (credo siamo al 50%) alla porta potrebbe bussare un concetto di per se già rodato in altri Stati che potrebbe tradursi in un interessante opportunità: “il militare a chiamata”. Precisiamo che non avrebbe nulla a che vedere con la leva obbligatoria per tutti, ma si tratterebbe di un sistema che va oltre alla prevista riserva attuale inserendo professionisti civili in ausilio ai militari. I costi ciclici sarebbero per la formazione iniziale agli standard militari, ma poi “la risorsa” rimarrebbe disponibile nel corso della sua vita.

In caso di necessità un medico, un saldatore, un traduttore, un falegname, un logista, un autista, un tecnico informatico, un idraulico e chissà quante altre professioni potrebbero dare ausilio temporale al comparto della Difesa alleggerendo gli oneri dei soldati in servizio permanente. Qui almeno, ci sarebbe uno scambio di opportunità economicamente interessante senza obbligare i militari a fare gli educatori.

Così su due piedi questa soluzione potrebbe essere la più conveniente rispetto alla riapertura delle caserme; sempreché ai nostri giovani qualcuno ci pensi...

Foto: autore / web