Il lupo mangia chi pecora si fa

(di Renato Scarfi)
23/12/20

Nonostante la liberazione dei pescatori italiani sequestrati dall’Esercito Nazionale Libico (LNA) del generale Haftar non si attenua la polemica circa la mancata tutela dei nostri connazionali all’estero e, più ampiamente, dei nostri interessi nazionali nel mondo.

Tra tutte le varie proposte per giungere a una rapida soluzione del caso, da più parti si era fatto appello a un’azione di forza per la loro immediata liberazione. In aggiunta, molte autorevoli voci sono intervenute anche a favore di un innalzamento del livello di consapevolezza e assertività della postura nazionale sul mare, specialmente sulle acque di nostro più diretto interesse, l’infinito Mediterraneo.

Con l’occasione, insieme alle polemiche nei confronti dei politici, anche lo strumento militare é stato accusato di colpevole inerzia, per non aver prima difeso i connazionali e poi per non aver immediatamente tentato di liberarli.

Il processo decisionale

Vale la pena, quindi, sottolineare che una postura più assertiva e ogni azione di forza sono susseguenti a una decisione politica. In tale ambito, il decisore fa le sue scelte dopo aver attentamente valutato tutte le variabili in gioco (politiche, economiche, giuridiche, ecc…) e aver sentito i rappresentanti militari circa la fattibilità dell’eventuale operazione (disponibilità di mezzi, addestramento del personale, esperienza specifica, ecc…). Il militare, infatti, è il solo che può fare una valutazione oggettiva del teatro delle operazioni e indicare se è operativamente possibile raggiungere gli obiettivi indicati dalla politica. Solo il dialogo tra il decisore politico e il militare permetterà, quindi, di garantire che gli obiettivi siano politicamente accettabili e operativamente ottenibili.

Un Paese democratico normalmente decide per l’azione militare dopo che le misure economiche (sotto forma di incentivi o di sottrazione di risorse) e l’iniziale azione diplomatica hanno fallito nel raggiungere lo scopo prefissato, ovvero per sostenere l’ulteriore attività diplomatica con argomenti aggiuntivi, attesa la volontà politica di avvalersi dello strumento militare per tutelare gli interessi nazionali, siano essi la salvaguardia dell’incolumità dei propri cittadini che la difesa dei legittimi obiettivi economici e politici della nazione, qualora questi vengano lesi o minacciati da comportamenti aggressivi e sprezzanti del diritto internazionale.

Le opzioni militari

Se le misure economiche e politiche si rivelano inefficaci a difendere i legittimi interessi di un Paese, le possibili opzioni militari hanno lo scopo di far cambiare l’atteggiamento dell’avversario, inviando un chiaro messaggio della disponibilità a usare la forza qualora la controversia non trovi una composizione pacifica e rispettosa del diritto internazionale.

Nel caso si decida di usare la forza, deve essere prima di tutto valutata l’area di operazioni, da cui deriva l’identificazione delle forze da impiegare.

Se l’obiettivo da colpire si trova a una distanza di non più di 1.000 km dalla costa un’eventuale azione dimostrativa potrebbe essere il lancio di missili sulle principali infrastrutture, che causerebbe un rilevante danno economico alla controparte. Tale soluzione non comporterebbe impiego di personale a contatto con l’avversario e consentirebbe di inviargli un chiaro e concreto segnale.

Un esempio di tale azione è l’operazione Hamilton con la quale, nell’aprile 2018, navi francesi, statunitensi e britanniche hanno lanciato missili su obiettivi siriani sulla costa e nell’entroterra.

Un livello più elevato, che consentirebbe anche una maggiore efficacia dell’attacco, potrebbe essere rappresentato da un’incursione di AV-8B o di F-35B contro una serie di obiettivi selezionati. In tal caso le capacità stealth dei velivoli F-35B favorirebbero la sorpresa, elemento fondamentale per questo tipo di azioni.

Qualora, invece, si rendesse necessaria un’azione con la partecipazione di unità su terra come, per esempio, la liberazione di connazionali/ostaggi, l’opzione più plausibile sarebbe quella di un blitz delle Forze Speciali.

Una volta decisa l’intensità e gli obiettivi dell’operazione, è necessario identificare i mezzi e i reparti più idonei allo scopo, considerando la collocazione geografica e le caratteristiche infrastrutturali degli obiettivi.

In genere, gli strumenti più efficaci da impiegare sono quelli con capacità di proiezione dal mare, con armi, mezzi aerei e personale (equipaggi di volo e eventuali forze speciali) addestrati a operare da piattaforme navali in ogni condizione meteorologica. Ciò perché la Marina ha naturali capacità expeditionary, in quanto composta da unità permanentemente autosufficienti che posseggono capacità difensive e offensive, in grado di essere sede di comando complesso e di spostarsi autonomamente con immediatezza e senza alcuna autorizzazione da parte di Autorità straniere, permettendo la proiezione di potenza senza vincoli territoriali, a tutela degli interessi nazionali.

Tutti gli altri strumenti a disposizione del decisore politico hanno, infatti, bisogno di appoggiarsi a basi poste su territorio straniero, con la necessità di autorizzazione e con le intuibili forti limitazioni alla segretezza, o di lunghi tragitti di andata e ritorno da basi sicure, che espongono le forze partecipanti alla possibile scoperta e all’immaginabile reazione da parte delle Forze avversarie. Una soluzione di questo tipo è ipotizzabile solo qualora gli obiettivi siano profondamente nell’entroterra e non siano in alcun modo raggiungibili dal mare.

Un esempio di questo tipo è l’operazione “Mivtsa‘ Kadur Ha-ra‘am” (Fulmine) con la quale, nella notte tra il 3 e il 4 luglio 1976, le Forze Speciali israeliane liberarono numerosi ostaggi custoditi dalle Forze ugandesi all’interno dell’aeroporto della città di Entebbe. Nell’occasione, considerate anche le tecnologie di scoperta disponibili al tempo, i C-130 israeliani riuscirono ad atterrare sulla pista senza essere scoperti e ciò fu determinante per il successo dell’operazione.

Qualora, invece, gli obiettivi fossero raggiungibili dal mare (anche a notevoli distanze), potrebbero essere colpiti con missili da crociera, come successo nel caso delle guerre in Iraq, favoriti dal fatto che molte unità di superficie già dispongono di cruise missiles e molti missili antinave sono stati riadattati per l’attacco al suolo, anche se con gittata limitata a 200-300 km. Per una maggiore efficacia e flessibilità operativa sarebbe però opportuno che le navi fossero armate con missili da crociera o con artiglierie a lungo raggio, capaci di colpire all’occorrenza anche bersagli collocati ben all’interno del territorio avversario e lontani dalla costa.

In tale ambito è interessante osservare come la capacità strike in profondità non necessiti di grandi piattaforme lancianti. Un esempio è costituito dalle corvette russe Buyan-M (foto), che hanno eseguito attacchi al suolo a distanze superiori ai 1.000 km in Siria nel 2015.

Le attuali capacità strike della Marina Militare sono rappresentate dai missili Mk2/A, eredi dell’Otomat “Teseo”, missile antinave riadattato per l’attacco al suolo e la cui portata supera di poco i 200 km. Il missile può essere imbarcato a bordo di cacciatorpediniere classe “Duilio” (Orizzonte), di fregate classe “Bergamini” (Fremm) e anche sui nuovi pattugliatori classe “Thaon di Revel”. In tale ambito, non va dimenticato che le fregate classe “Bergamini” potrebbero impiegare anche missili da crociera a lungo raggio con la semplice e poco costosa modifica di un locale attualmente adibito al trasporto truppa, dove potrebbe essere installato un lanciatore Sylver A70 (SYstéme de Lanchement VERtical), in grado di lanciare missili quali il francese MDCN “Scalp”, missile navale da crociera (Missile De Croisière Navale) con circa 1.000 km di gittata, già impiegato dai transalpini nel corso della citata operazione Hamilton. A ciò va aggiunto che la Fremm GP (General Purpose) nasce con una forte vocazione di proiezione di potenza oltremare, poiché può essere un’efficace base di partenza per le operazioni delle Forze Speciali, in quanto può imbarcare tre battelli veloci, ha un’eccellente capacità di bombardamento di precisione, ottima difesa aerea a medio raggio nonché validi sistemi di comando e controllo.

La seconda opzione richiama immediatamente alla memoria l’anacronistica e nostalgica lotta intestina in corso, che vede l’Aeronautica acquisire i velivoli F-35B (versione navale espressamente finalizzata all’impiego su portaerei senza catapulta) necessari alla Marina, ostacolando di fatto il raggiungimento della piena capacità operativa della portaerei Cavour.

La mancanza di adeguati mezzi aerei su una nave che sarebbe già pronta a ospitarli, mina gravemente l’operatività della flotta nel suo complesso, privando la politica estera nazionale ed eventualmente l’Unione Europea di un importante strumento di presenza (dopo la Brexit solo la Francia e l’Italia hanno una portaerei) sulle acque di un mare economicamente fondamentale, che sta diventando sempre più conteso.

Per quanto attiene alla terza opzione, il personale più idoneo a condurre un blitz su obiettivi raggiungibili dal mare sarebbe il Gruppo Operativo Incursori (GOI) in quanto formato e addestrato a compiere operazioni speciali originate dal mare con obiettivi che possono essere unità navali, piattaforme estrattive e infrastrutture poste sulla costa ma anche all’interno del territorio avversario. Le Forze Speciali dell’Esercito, infatti, non sono addestrate per operare con punto di partenza e di rientro sul mare, mentre il GIS dei Carabinieri è prevalentemente addestrato a operare su territorio nazionale e già discretamente impegnato in Patria nel contrasto alla criminalità organizzata e al terrorismo internazionale.

Per quanto attiene alle Forze Speciali dell’Aeronautica valgono le stesse valutazioni fatte per l’Esercito, a cui si aggiungono la specifica formazione e addestramento che, come sottolineato dalla stessa Forza Armata, sono indirizzate al soddisfacimento delle missioni più spiccatamente aeronautiche come le Airfield Seizure (operazioni di conquista di aeroporti) e la predisposizione di Assault Zone. Si potrebbe ragionevolmente ipotizzare un loro impiego, alternativo all’Esercito, per operazioni sul tipo della citata azione di Entebbe. Ipotizzare un loro impiego per un diverso tipo di operazioni sarebbe abbastanza irrazionale, o almeno non rappresenterebbero la prima scelta.

La deterrenza

Ampliando ora il discorso sulla necessità di una diversa postura nazionale, più assertiva e in grado di tutelare più efficacemente i nostri diffusi interessi economici, politici e di sicurezza sul mare, è necessario fare una riflessione sul concetto di deterrenza.

La manifestazione di una credibile volontà di usare la forza, se necessario, è e sempre rimarrà un’importante componente delle relazioni internazionali. Un elemento che, quando adeguatamente impiegato, assieme alla diplomazia permette di raggiungere gli obiettivi strategici prefissati. In tale ambito, uno strumento militare addestrato, efficiente, operativo e dotato di moderni mezzi/armi è indispensabile affinché la voce della diplomazia sia ascoltata con più attenzione dall’interlocutore.

Un tale strumento militare, però, presuppone anche adeguate capacità strike ed expeditionary, le sole in grado di permettere di dare maggiore “peso” alle istanze della diplomazia. Mancando queste lo strumento militare, nelle sue varie e importanti componenti, rimane certamente adeguato alla difesa ma non a sostenere in maniera efficace la politica estera nazionale.

La deterrenza, infatti, si avvale di un complesso di alternative, che offrono al decisore politico (supportato dal militare) un ventaglio di iniziative tese a scoraggiare gli eventuali avversari dall’effettuare azioni aggressive o comunque lesive dei legittimi interessi e del prestigio nazionali. Una chiara intenzione politica di avvalersi, se necessario, della forza per il conseguimento degli obiettivi strategici nazionali, e l’acquisizione di un’adeguata e credibile capacità militare, rappresentano un forte deterrente alle aggressioni e incentivano l’eventuale avversario alla negoziazione nel caso di disparità di vedute/obiettivi.

Ma per sviluppare una politica estera che tuteli gli interessi nazionali bisogna avere chiari prima di tutto quali siano gli obiettivi da perseguire e quali sono i limiti oltre i quali ogni negoziazione è impossibile. Lo scopo e sola missione di ogni Governo e dei leaders politici è quella di garantire la sicurezza della nazione nel contesto internazionale, promuovendone valori e principi, accrescendo il prestigio dello Stato e il benessere economico e sociale dei propri cittadini. Ciò vale ancor più in un mondo come quello attuale, estremamente fluido e dagli scenari mutevoli, flessibili e imprevedibili, che fanno emergere sempre nuove minacce alla sicurezza e alla libertà.

Una più assertiva postura internazionale permetterebbe di assolvere al meglio la missione di tutela del prestigio e degli interessi del Paese e uno strumento militare credibile, addestrato e operativamente pronto consente di supportare al meglio la politica estera nazionale, avendo la capacità di usare efficacemente la forza ed essendo disposti a impiegarla qualora la deterrenza e la diplomazia si dovessero rivelare inconcludenti.

Per far ciò si dovrebbe, quindi, invertire l’approccio degli ultimi dieci anni, manifestando una decisa volontà politica di tutelare le nostre legittime esigenze contro chi minaccia arbitrariamente la nostra sicurezza, che sia legata alla libertà di navigazione messa a rischio dalla presenza di pirati o al sequestro di connazionali, che sia connessa alla protezione degli interessi economici (come l’impedimento delle regolari attività della SAIPEM 12000) o l’autoproclamata estensione della Zona Economica Esclusiva fino alle acque territoriali sarde.

Che lo si voglia ammettere o meno, le maggiori minacce alla nostra economia, sicurezza, prestigio e libertà non arrivano da crisi sviluppate nell’entroterra dei vari continenti, ma dalle coste e dal mare ed è in questo particolare ambiente operativo che esse vanno contrastate, fornendo tempestivamente adeguati strumenti a chi è preposto ad assolvere tale missione. Fare finta di nulla non risolve i problemi e permette alla minaccia di crescere e prosperare. Come dice il detto popolare: il lupo mangia chi pecora si fa.

Foto: Twitter / U.S. Marine Corps / U.S. Navy / U.S. Army / Marina Militare