L’Europa s’incaglia: l’Olanda rifiuta l’accordo UE-Ucraina

(di Giampiero Venturi)
07/04/16

L’Olanda boccia l’accordo di associazione tra Unione Europea e Ucraina e manda un segnale rilevante. Il 62% dei votanti ha detto “no”, mettendo in allarme i governi europei riguardo il già pianificato allargamento a Est, che almeno per come previsto ora dalla burocrazia di Bruxelles, non sembra più  possibile.

Nonostante i venti atlantici trattengano nel XX° secolo teste autorevoli, facendole sponda di schemi geopolitici da Guerra fredda, qualcuno prova a dare cenni d’indipendenza o quantomeno a svincolarsi dal piano inclinato del comune sentire, lungo cui sembra inarrestabile l’eutanasia del Vecchio Continente.

Il referendum segue la ratifica dell’accordo di associazione già perfezionata dai 28 governi dell’Unione e rappresenta una presa di coscienza degli umori elettorali da anni orientati ad un euroscetticismo dilagante, non solo in Olanda. Benché il referendum appaia come una consultazione isolata (ha votato solo un terzo degli aventi diritto), è indiscutibile che le tegole di un tetto europeo poco condiviso dal basso, o almeno così percepito, ne risultino scosse.

In particolare la risposta olandese è sintomatica di una condizione psicologica difficile in cui vive il Paese. Vittima della sindrome francobelga da potenziale vittima del terrorismo internazionale e condannata dalla Storia a tutelarsi da vicini ingombranti, l’Olanda di tanto in tanto si smarca dalla propria vocazione alla modernità e rinnova la paura dell’alieno, chiunque esso sia. È una sorta di tiro alla fune, a cui rispettivi capi c’è da una parte la natura openminded congenita alla società dei tulipani, dall’altra la tutt’altro che campata in aria paura di essere sommersi e spazzati via.

Su questa base il “no” all’accordo di associazione con l’Ucraina è frutto di due aspetti non facili da distinguere allo stato attuale:

  • un’impennata di orgoglio autoctono suffragata dalla già fortissima posizione della destra nazionalista di Wilders, sensibile presumibilmente alla questione immigrazione e sicurezza;
  • una reale comprensione del suicidio strategico in cui l’Unione Europea si è ormai incaponita con le sue politiche verso Est.

Quale sia la dose dei due ingredienti poco importa per ora. Lo stop all’asse Bruxelles-Kiev, avviato in sordina dalle nomenclature dell’Unione secondo regole non condivise, in questo momento è uno spunto di riflessione sia sugli effetti di lungo periodo dell’accordo, sia sulla legittimità e sulla legittimazione dell’attuale governo dell'Ucraina.

Nel primo caso prendiamo atto delle conseguenze di un automatico prossimo allargamento dell’Unione all’Ucraina con inevitabile strascico negativo sulle relazioni con Mosca. L’architettura di questo percorso è iniziata con la rivolta di Maidan e con la crisi di Crimea; nonostante i membri dell’Unione abbiano agito compatti non sembra sia mai stato partorito un pensiero strategico e geopolitico continentale al riguardo. Sarebbe forse il caso di iniziare a concepirlo e se possibile di renderne partecipi le rispettive opinioni pubbliche.

Sullo stato di cose a Kiev, la riflessione è ancora più profonda. Bisognerebbe capire meglio cosa ci sia dietro Poroshenko e quanta buona fede possa ancora mostrare l’Europa del diritto e dell’indignazione. Sulla crisi ucraina è calata da un anno una cortina di gelo, lasciando che i gruppi di pressione sul governo ucrainao finissero per consolidarsi. Nessuno ne parla, ma non è una novità.

Nonostante il referendum britannico sulla permanenza in Europa sia alle porte, con ogni probabilità il voto olandese metterà paura senza sortire effetti particolari. Verrà soffocato dalla macchina dell’imposizione democratica, molto celere a parlare di sé, molto meno a raccontare cosa pensa la gente.

(Foto: web)