Il disturbo post-traumatico da stress (PTSD) è oggi riconosciuto come una condizione psicologica derivante da eventi traumatici, spesso legati alla guerra. Tuttavia, la sua esistenza è documentata da millenni.
Sebbene le antiche civiltà non disponessero di una terminologia medica specifica, le fonti storiche offrono descrizioni dettagliate di sintomi compatibili con il PTSD tra soldati e sopravvissuti a eventi traumatici.
Le prime descrizioni di comportamenti riconducibili al PTSD risalgono alla Mesopotamia, nell'Epopea di Gilgamesh, dove il protagonista sperimenta incubi e angoscia dopo la morte dell’amico Enkidu. Nell'Iliade di Omero, Achille manifesta rabbia incontrollata e malinconia dopo la perdita di Patroclo, segnali di un forte impatto psicologico legato alla guerra.
Anche gli Egizi e i Greci documentavano sintomi di ansia e paure persistenti tra i veterani, ritenendo tali disturbi derivanti da squilibri negli "umori" del corpo.
Nell'antica Roma troviamo testimonianze più dettagliate degli effetti psicologici della guerra attraverso gli scritti di Tito Livio, Giulio Cesare, Seneca e Tacito. Questi autori descrivono legionari che soffrivano di insonnia, attacchi di panico, incubi e difficoltà di reintegrazione nella società dopo il congedo, fenomeni che oggi rientrano nella diagnosi di PTSD.
Le legioni romane erano impegnate in campagne militari che potevano durare decenni, esponendo i soldati a violenze continue.
Tito Livio descrive casi in cui i soldati, dopo lunghi periodi in battaglia, erano colpiti da un improvviso terrore, tremori involontari e incubi notturni ricorrenti.
Giulio Cesare, nel "De bello gallico", menziona soldati incapaci di impugnare le armi a causa dello stress, con mani sudate e paralisi dovuta alla paura.
Tacito, parlando della battaglia di Teutoburgo, racconta di soldati che, anche dopo la fine della battaglia, continuavano a immaginare il clamore nemico nelle ore notturne, mostrando sintomi di ipervigilanza e allucinazioni uditive.
Seneca, nelle sue "Epistulae Morales", tratta il tema della paura persistente nei veterani, sottolineando come il terrore provato in battaglia non li abbandonasse neanche una volta deposte le armi.
Questi testi dimostrano che i Romani riconoscevano le conseguenze della guerra sulla mente dei soldati, anche se interpretavano il fenomeno in chiave morale o religiosa piuttosto che medica.
Sebbene non avessero una comprensione scientifica del PTSD, i Romani svilupparono strategie per mitigare gli effetti del trauma tra i veterani. Una delle soluzioni principali era la fratellanza militare, che forniva un supporto psicologico tra commilitoni. Tacito descrive questo legame come essenziale per la sopravvivenza emotiva dei soldati.
Un altro metodo era l’assegnazione di terre nelle colonie, affinché i veterani potessero reintegrarsi nella società. Svetonio menziona come Augusto promosse questo sistema per evitare che i soldati, una volta congedati, si trovassero in una condizione di povertà e disoccupazione, fattori che avrebbero potuto aggravare il loro stato mentale.
I Romani attribuivano anche un ruolo centrale alla religione, con sacrifici e riti di purificazione per liberare i soldati dal “miasma” della guerra. Gli storici riportano che, dopo le campagne militari, i soldati eseguivano rituali propiziatori a Marte e Bellona per purificarsi.
Alcuni veterani diventavano gladiatori, trovando nell’arena una valvola di sfogo per la violenza repressa, mentre altri ricorrevano al vino e ad altre sostanze per lenire l'ansia e i ricordi traumatici. Petronio suggerisce che il vino fosse considerato un conforto per i veterani tormentati dai ricordi della guerra.
Gli antichi Romani, pur non avendo la conoscenza scientifica del PTSD, ne intuivano gli effetti devastanti e adottavano diverse strategie per mitigarli. Il sostegno tra commilitoni, la reintegrazione in colonie, i riti religiosi e l’arena gladiatoria erano tentativi di affrontare il trauma bellico. Tuttavia, come accade oggi, non tutti riuscivano a superare le ferite invisibili della guerra.