Dal fallimento della Società delle Nazioni alla paralisi dell’ONU: il futuro della governance globale

Due date scandiscono l’ambizione dell’umanità di costruire un ordine internazionale fondato sulla pace e sulla cooperazione: 1919 e 1945. Entrambe segnano la fine di una guerra mondiale, ma anche l’inizio di un nuovo assetto geopolitico che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto prevenire il ritorno del conflitto globale. La prima diede vita alla Società delle Nazioni, sorta dalle ceneri della Grande Guerra come primo esperimento di governance multilaterale. La seconda vide la nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, edificata sui fallimenti del precedente organismo e sostenuta da un’inedita convergenza tra realismo politico e idealismo giuridico.
In entrambi i casi, il cuore dell’architettura era il principio di sicurezza collettiva: un attacco a uno Stato doveva essere considerato un attacco a tutti, trasformando la guerra da strumento sovrano a crimine contro la comunità internazionale. Ma quella promessa si è rivelata più fragile del previsto. Incapace di dissuadere le ambizioni espansionistiche negli anni Trenta, il sistema della Società delle Nazioni crollò sotto il peso delle sue contraddizioni. E oggi, a distanza di un secolo, l’ONU si trova in una crisi speculare, paralizzata dal diritto di veto, bypassata da nuove alleanze regionali e sempre più marginale nel regolare i conflitti.
La guerra in Ucraina, l’inasprimento dei blocchi geopolitici e la proliferazione di forme di potere non convenzionali – dal cyberspazio alle guerre ibride – stanno mettendo a nudo la crisi strutturale dell’ordine multilaterale nato nel 1945. Non è solo un tema di efficacia: è una questione di legittimità, rappresentanza e capacità di adattarsi a un mondo che ha cambiato scala, attori e linguaggi.
Il sogno di una pace perpetua, custodito per secoli nelle pagine di filosofi e giuristi, trovò nel presidente Woodrow Wilson un interprete politico capace di tradurlo in proposta concreta. Al termine della Prima guerra mondiale, Wilson immaginò una “Lega delle Nazioni” come garante della legalità internazionale e custode di una nuova era di diplomazia aperta, disarmo e cooperazione. Era un progetto intriso di idealismo progressista, ma privo di un ancoraggio realistico alla natura del potere internazionale. La Società delle Nazioni, fondata a Ginevra nel 1919, portava in sé le contraddizioni del tempo: universalismo di principio, ma escludendo sin dall’inizio grandi attori (tra cui gli stessi Stati Uniti); vocazione pacifista, ma senza strumenti sanzionatori vincolanti; appello al diritto, ma senza un equilibrio tra sovranità e autorità superiore.
La Società delle Nazioni si trovò ben presto incapace di far rispettare il principio di sicurezza collettiva, mostrando limiti strutturali evidenti. L’assenza degli Stati Uniti e la mancata capacità di imporre sanzioni reali limitarono la sua efficacia nel prevenire i conflitti (Greco, 2004).
Il 1945 segnò un cambio di paradigma. La nascita dell’ONU a San Francisco fu il prodotto di una riflessione più matura e più disincantata. Le potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale – con gli Stati Uniti in posizione egemone – vollero evitare i difetti strutturali del passato. L’Organizzazione delle Nazioni Unite fu costruita su una base più solida: un Consiglio di Sicurezza ristretto ma dotato di poteri reali, una struttura più articolata e funzionale, una segretaria generale dotata di continuità operativa, e soprattutto, un impegno statunitense attivo e strutturale alla guida dell’ordine liberale.
La nascita delle Nazioni Unite fu accompagnata da un nuovo tentativo di equilibrio tra sovranità statale e governance collettiva. Tuttavia, l’asimmetria nel diritto di veto ha generato una struttura fortemente selettiva (Roberts & Zaum, 2008).
Il confronto tra le due istituzioni evidenzia una tensione costante tra universalismo giuridico e gestione realistica del potere. La Società delle Nazioni incarnava un’utopia disarmata; l’ONU, un compromesso tra diritto e forza, tra sovranità e ordine collettivo. Entrambe le istituzioni si fondavano sul principio che la cooperazione potesse sostituire l’anarchia, ma solo l’ONU riuscì inizialmente a legittimarsi come forum globale per la risoluzione dei conflitti. Ciò nonostante, i limiti fondativi restano evidenti: l’asimmetria nel potere di veto, l’assenza di una forza armata permanente sotto comando diretto, la dipendenza finanziaria e politica da un ristretto numero di Stati membri.
Nata sulle macerie della Grande Guerra, la Società delle Nazioni fu concepita come un antidoto al ritorno del conflitto, ma si rivelò ben presto un organismo fragile e inadatto alla gestione delle tensioni sistemiche. La sua crisi fu tanto rapida quanto profonda, e le cause del fallimento evidenziano con chiarezza la distanza tra il disegno normativo e la realtà delle relazioni internazionali dell’epoca.
Il primo e forse più emblematico limite fu l’assenza degli Stati Uniti, proprio il Paese che ne aveva ispirato la creazione. Il Senato americano rifiutò di ratificare il Trattato di Versailles, lasciando la Lega orfana della potenza emergente del XX secolo. A ciò si aggiunsero esclusioni e ambiguità significative: la Germania fu ammessa solo nel 1926 e ne uscì nel 1933; l’Unione Sovietica entrò nel 1934 ma fu espulsa nel 1939 dopo l’invasione della Finlandia. In questo quadro, l’universalismo della Società delle Nazioni rimase una finzione diplomatica, incapace di rappresentare i reali equilibri di potere.
Ma più grave ancora fu l’assenza di strumenti coercitivi reali. Le sanzioni previste dall’articolo 16 del Patto di Ginevra risultarono inefficaci senza il sostegno militare degli Stati membri. La Lega dipendeva completamente dalla volontà dei governi nazionali, i quali tendevano a privilegiare interessi bilaterali o logiche di appeasement rispetto alla difesa dell’ordine collettivo.
I fallimenti nel gestire le crisi internazionali furono molteplici: dalla guerra d’Etiopia (1935-1936), in cui l’Italia fascista invase un Paese membro della Lega con una reazione debole, tardiva e inefficace, all’aggressione giapponese alla Manciuria (1931), che portò il Giappone ad abbandonare l’organizzazione senza conseguenze concrete, all’ascesa della Germania nazista, che uscì dalla Lega e si avviò verso la violazione sistematica del trattato di Versailles e la militarizzazione dell’Europa. Il mancato intervento di un’autorità superiore si rivelò il principale ostacolo alla legittimazione dell’ordine multilaterale (Roberts & Zaum, 2008).
Nel secondo dopoguerra, queste esperienze furono in parte assunte come lezioni fondative per la nuova ONU: maggiore selettività negli organi decisionali, poteri espliciti per il Consiglio di Sicurezza, coinvolgimento diretto delle potenze vincitrici. Tuttavia, non tutte le lezioni furono apprese. Il principio della sovranità assoluta degli Stati membri rimase intatto, così come la struttura consensuale delle decisioni, rendendo ancora oggi difficoltosa qualsiasi azione collettiva in contesti di crisi tra grandi potenze.
Se la parabola della Società delle Nazioni appare ormai compiuta, quella dell’ONU sembra avviarsi verso un’analoga marginalizzazione. Le somiglianze sono molteplici e rivelatrici.
L’Organizzazione delle Nazioni Unite, che nel secondo dopoguerra rappresentò il culmine dell’ambizione multilaterale, appare oggi sempre più prigioniera dei propri meccanismi decisionali e incapace di rispondere alle sfide di un mondo radicalmente mutato. La crisi ucraina ha solo reso evidente una tendenza in atto da tempo: la progressiva paralisi del Consiglio di Sicurezza, cuore politico e operativo dell’ONU, bloccato dall’uso sistematico del diritto di veto da parte dei membri permanenti. Di fronte a un’aggressione armata su larga scala, l’ONU ha potuto solo assistere, impotente, al ritorno della guerra convenzionale in Europa, senza alcuna possibilità di deterrenza, sanzione o intervento. Il principio di sicurezza collettiva dell’ONU, pur fondamentale, ha mostrato evidenti limiti nella gestione di crisi moderne. Il sistema multilaterale soffre oggi di una crescente marginalizzazione rispetto a iniziative regionali più rapide ed efficaci (Haass, 2020).
Ma non è solo la guerra a evidenziare la crisi. Le sfide contemporanee sono sempre meno “statuali” e sempre più “sistemiche”: cambiamento climatico, pandemie, minacce cibernetiche, traffici globali e disinformazione sono problemi che travalicano confini, identità e competenze. Eppure, l’ONU continua a muoversi con una logica e una struttura concepite per un ordine westfaliano, dove gli Stati sono gli unici attori e la sovranità resta inviolabile. Questo scarto tra missione originaria e realtà attuale si traduce in un’incapacità di risposta coordinata, in lentezze burocratiche e in un crescente discredito presso l’opinione pubblica globale.
In parallelo, stiamo assistendo a un moltiplicarsi di forum alternativi: i BRICS, la Shanghai Cooperation Organization, il G20, l’Unione Africana, l’ASEAN. Questi organismi non competono formalmente con l’ONU, ma ne erodono l’autorità politica e ne disarticolano la centralità. Si tratta di iniziative che riflettono nuove alleanze, nuovi equilibri economici e nuove visioni del mondo. Il loro emergere è il segno evidente di una frammentazione sistemica dell’ordine multilaterale, che da universale tende a diventare plurale, fluido, e in alcuni casi apertamente competitivo.
L’emergere di alternative multilaterali segnala un cambiamento significativo nella dinamica globale. La riforma del Consiglio di Sicurezza è oggi un tema centrale per evitare la marginalizzazione dell’ONU nel nuovo sistema internazionale (Archibugi, Cellini & Malgieri, 2024).
In questo scenario, l’ONU rischia di scivolare verso un ruolo cerimoniale e testimoniale, più che decisionale e regolativo. Non è tanto la sua esistenza a essere in discussione, quanto la sua rilevanza strategica in un mondo che privilegia la velocità, l’efficacia e le alleanze variabili rispetto alla logica consensuale, lenta e compromissoria che ne costituisce il DNA.
La paralisi decisionale del Consiglio di Sicurezza, che oggi si mostra in tutta la sua evidenza, non nasce adesso ma deriva dal progressivo indebolimento dell’ONU nella gestione delle crisi internazionali. Questa affonda le sue radici in eventi chiave degli ultimi decenni, dove i ripetuti fallimenti hanno contribuito ad erodere la credibilità e la capacità di intervento dell’organizzazione, accentuando sempre di più la crisi in atto.
Le Crisis Response Operations (CRO) dell’ONU hanno incontrato difficoltà strutturali fin dagli anni ‘90. Evans & Sahnoun (2001) evidenziano come il concetto di ‘Responsibility to Protect’ non sia stato applicato efficacemente nei casi di genocidio e violenza etnica.
Nel 1995, il massacro di Srebrenica ha rappresentato uno dei momenti più drammatici per le CRO dell’ONU. L’incapacità di assicurare la protezione a migliaia di civili bosniaci in un’area dichiarata sicura ha rivelato la debolezza strutturale delle missioni internazionali se prive di un chiaro mandato esecutivo e di risorse adeguate.
Nel 2003, l’invasione dell’Iraq ha segnato un punto di svolta nel ruolo dell’ONU: nonostante l’opposizione di diversi Stati membri, il Consiglio di Sicurezza non è riuscito a prevenire un intervento militare condotto senza mandato chiaro. Questo episodio ha rafforzato la percezione di un sistema multilaterale incapace di frenare l’iniziativa delle grandi potenze.
La crisi diplomatica dell’ONU ha continuato a mostrare tutta la propria impotenza nel corso della prolungata guerra in Siria iniziata nel 2011. Da allora Stati Uniti, Russia e Cina hanno posto continui veti incrociati che di fatto hanno impedito ogni possibilità di arrivare ad una risoluzione condivisa, senza possibilità concrete di mettere in campo di un’azione internazionale coordinata tesa a bloccare il conflitto e proteggere i civili inermi.
La crisi in Sudan del 2023 ha nuovamente messo in rilievo le crescenti difficoltà dell’ONU nell’adottare risposte tempestive ed efficaci a protezione delle popolazioni indifese. Anche in questa occasione, mentre il Paese precipitava in una spirale di violenze, l’organizzazione internazionale si trovava bloccata dalla mancanza di risorse e dall’assenza di un consenso tra le grandi potenze.
Infine, i conflitti attuali in Ucraina e Gaza confermano la tendenza alla marginalizzazione dell’ONU nelle crisi geopolitiche di maggiore impatto globale. Il Consiglio di Sicurezza, ormai paralizzato dall’uso sistematico del diritto di veto, appare sempre meno in grado di garantire un ordine multilaterale efficace, mentre le alleanze regionali e le iniziative unilaterali prendono il sopravvento.
Questi episodi confermano ancora di più l’impellente necessità di una riforma che adegui le strutture decisionali dell’ONU, così da superare la crisi evidente in cui versa ed evitare la sua progressiva irrilevanza nel sistema internazionale
La storia dell’Italia all’interno delle istituzioni multilaterali riflette un’evoluzione complessa, fatta di slanci idealistici, esigenze di legittimazione internazionale e inevitabili calcoli di potere. Dopo una partecipazione esitante alla Società delle Nazioni – segnata da un’adesione tardiva (1920), un coinvolgimento marginale e un progressivo scollamento culminato con l’invasione dell’Etiopia e l’uscita di fatto dalla legalità internazionale – il nostro Paese seppe reinventare il proprio ruolo all’interno dell’ONU, a partire dal secondo dopoguerra.
Negli anni ’50-’80, l’Italia emerse come attore convinto del nuovo ordine multilaterale: partecipò attivamente ai principali forum delle Nazioni Unite, promosse la cooperazione internazionale e investì capitali diplomatici significativi nella definizione di un’identità pacifica, europeista e multilaterale. La lunga permanenza tra i membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza (sette mandati finora), la partecipazione a numerose missioni di pace (dai Balcani al Libano, dal Corno d’Africa all’Afghanistan), e il contributo al bilancio ONU sono state espressione concreta di questa postura. Il contributo italiano al multilateralismo si è concretizzato soprattutto attraverso le CRO. L’impegno italiano si è distinto per il bilanciamento tra sicurezza e diplomazia, con un forte investimento nelle missioni di contrasto alle crisi (Nazioni Unite, 2021)
In particolare, le CRO hanno rappresentato una leva fondamentale per la proiezione internazionale dell’Italia: hanno rafforzato la nostra immagine di mediatore affidabile, capace di combinare impegno civile e presenza militare entro un quadro di legalità internazionale. In questo ambito, l’Italia ha saputo valorizzare la propria esperienza storica, la propria posizione geopolitica e la capacità di dialogo con attori del Mediterraneo allargato.
Tuttavia, oggi l’Italia si trova in una posizione più ambigua e frammentata. La sua appartenenza simultanea a tre cornici – Unione Europea, Alleanza Atlantica e Nazioni Unite – è insieme un’opportunità e una fonte di tensione strategica. L’equilibrio tra interessi nazionali, vincoli alleati e visione multilaterale è diventato sempre più difficile da mantenere, soprattutto in un contesto internazionale polarizzato e competitivo. L’assenza di una politica estera strutturata e di lungo periodo rischia di indebolire il peso negoziale italiano proprio nei contesti in cui potrebbe giocare un ruolo da “ponte” tra Nord e Sud, Est e Ovest, tra sicurezza e sviluppo.
In un sistema multilaterale in crisi, l’Italia è chiamata a scegliere se limitarsi a essere un ingranaggio tra molti, o se recuperare un protagonismo creativo, in grado di rilanciare il dialogo tra istituzioni globali e realtà locali, tra interessi statuali e beni comuni. Una sfida che è, insieme, diplomatica e culturale.
Il confronto tra la Società delle Nazioni e l’ONU, lungo un secolo di storia, mette in luce un dato strutturale: la fragilità costitutiva del multilateralismo in assenza di una legittimità condivisa e di strumenti vincolanti. In entrambi i casi, l’ambizione di garantire un ordine globale basato su regole comuni si è scontrata con il primato degli interessi statali, la persistenza della logica di potenza e l’asimmetria tra diritto e forza.
Oggi, a differenza del 1945, non è una guerra mondiale a minacciare l’ordine multilaterale, ma una più insidiosa erosione del consenso intorno ai suoi presupposti ideologici e giuridici. L’ordine liberale nato nel secondo dopoguerra – fondato su mercato aperto, democrazia rappresentativa, cooperazione istituzionale – è sempre più contestato da modelli alternativi, sia sul piano geopolitico (Russia, Cina, ma anche India o Turchia) sia sul piano interno ai Paesi occidentali, dove viene spesso messa in discussione la legittimità degli organismi internazionali.
Il rischio è duplice: da un lato, quello del ritorno a un “neo-concerto” di potenze, in cui gli equilibri vengono gestiti tramite intese bilaterali o regionali tra attori forti, fuori da ogni cornice normativa universale; dall’altro, quello di una frammentazione anarchica, in cui l’assenza di regole condivise rende ogni crisi una crisi globale, senza arbitri, né spazi di mediazione riconosciuti.
In questo scenario, l’Europa ha davanti a sé una scelta di fondo: continuare a essere una potenza normativa senza leva strategica, oppure dotarsi di strumenti per difendere e rilanciare un’idea di ordine multilaterale capace di riformarsi. L’attuale dibattito sulla riforma del Consiglio di Sicurezza, sul ruolo delle missioni civili e militari dell’UE e sulla politica di difesa comune si inserisce in questo bivio storico.
Quanto all’Italia, il suo peso potenziale deriva dalla sua posizione geografica, dalla sua esperienza diplomatica e dalla sua capacità di mediazione culturale. Ma la sua espressione richiede una visione chiara e un investimento coerente in politica estera. In un mondo in cui la forza tende a prevalere sulla norma, difendere il multilateralismo non può più essere solo una postura morale: deve diventare una scelta strategica, articolata, pragmatica e sostenibile.
L’impotenza dell’ONU davanti alle crisi contemporanee è il sintomo di un ordine internazionale in frantumi. La sfida per l’Italia e per l’Europa è quella di costruire coalizioni ad hoc capaci di incidere, pur nel rispetto dei principi multilaterali. L’alternativa è il ritorno a un mondo a sovranità disgiunta e conflittuale.
Note e riferimenti
Greco, E. (2004), ‘Ruolo e riforma dell’ONU: posizioni in America e in Europa’, Istituto Affari Internazionali (IAI).
Roberts, A. & Zaum, D. (2008), ‘Selective Security: War and the Uniteed Nations Security Council since 1945’, Routledge.
Haass, R. (2020), ‘The World: A Brief Introduction’, Penguin Press.
Archibugi, D. & Cellini, M. & Malgieri, A. (2024), ‘La riforma del Consiglio di Sicurezza. Quali sono le questioni?’, Working Paper Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali (IRPPS).
Evans, G. & Sahnoun, B. (2001), ‘The Responsibility to Protect’, International Commission on Intervention and State Sovereignty (ICISS).
Nazioni Unite (ONU), Segretariato (gennaio 2021), ‘The State of Global Peace and Security in Line with the Central Mandates Contained in the Charter of the United Nations’, Rapporto del Segretario Generale presentato all’Assemblea Generale, in ottemperanza alla risoluzione 72/243.
Foto: web (Sala della Riforma. L’inaugurazione ufficiale della Società delle Nazioni)