Aumentano le tensioni tra Turchia e Israele

(di Paolo Lolli)
13/05/25

Dalle speranze sorte dalla caduta del regime degli Assad nello scorso dicembre la Siria è piombata, nuovamente, in una fase di crisi apparentemente senza via d’uscita. Gli scontri e le sommarie violenze fra le variegate componenti della società siriana rimangono una costante a quelle latitudini, così come la sempre maggior, pervasiva, interferenza di potenze esterne, sì sommano alla disastrosa condizione economico-sociale di un Paese in guerra dal 2011.

La Siria è, di fatto, uno Stato fallito. Il governo di Ahmed al-Shaara “controlla” all’incirca un terzo del territorio ma non detiene il monopolio della violenza. Diverse aree della Siria rimangono nelle disponibilità altrui: la Turchia puntella il Nord del Paese e mette gli occhi sulla regione centrale della Badiyah mentre cerca di strangolare definitivamente le aspirazioni curde1; Israele, sfruttando abilmente il disordine interno del vicino, continua ad acquisire profondità strategica attraverso l’occupazione militare di postazioni nella catena montuosa dell’Hermon2, a Est delle Alture del Golan e nella valle dello Yarmuk; gli Stati Uniti, nonostante stiano riducendo sensibilmente il loro contingente in Siria in scia al cambio di postura invocato dall’amministrazione Trump bis , pianificano di mantenere poco meno di 1000 truppe nel Nord-Est del Paese, ai confini con l’Iraq3; la Federazione Russa ha costantemente alleggerito la sua presenza dislocando personale e mezzi militari altrove, prevalentemente nella Cirenaica sotto il controllo degli Haftar, ma non ha abbandonato la base aerea di Hmeimim e l’accesso alla base navale di Tartus non è interdetto come ipotizzato inizialmente4; la Repubblica Islamica, l’attore che più è stato danneggiato dalla caduta del precedente regime siriano, non ha (più) oggi le capacità per ritagliarsi una vera e propria sfera d’influenza ma tenterà di riinserirsi nella partita siriana continuando a sponsorizzare diverse milizie5.

È in questo difficile contesto che le nuove autorità siriane sono impegnate per riedificare l’impalcatura istituzionale del Paese6, in scia al passaggio di potere dalla minoritaria componente alauita-maronita e cristiana al maggioritario blocco sunnita-arabo, cercando al contempo di promuovere l’integrità territoriale e la riappacificazione interna. Il governo del presidente ad interim al- Shaara deve riuscire a barcamenarsi tra due imperativi in apparente contrasto tra loro: accreditarsi agli occhi della comunità internazionale, quindi agli Stati Uniti e ai vari Paesi europei, quale soggetto politico in grado di sedare le antiche faglie mai sopite tramite la cooptazione delle minoranze etniche e religiose all’interno della vita politica, economica e sociale del Paese; al contempo, assecondare le varie milizie jihadiste gravitanti attorno ad Hayat Tahrir al- Sham 7(Hts) e, soprattutto, le agende degli attori che hanno nel tempo supportato e consentito al movimento islamista di prendere il potere, leggi Turchia. Insomma, per usare un eufemismo, il governo con sede a Damasco ha un margine di manovra estremamente limitato.

Segnalare l’intenzione di voler costruire una Siria democratica, sovrana e financo inclusiva, serve a garantire quel minimo di (apparente) stabilità interna che possa permettere al Paese levantino di essere reintegrato all’interno dei circuiti economico-finanziari occidentali e, quindi in ultima istanza, per attirare quegli investimenti necessari a risollevare l’economia del Paese. Inizialmente gli Stati Uniti hanno rimosso le prime sanzioni. Il 6 gennaio, infatti, l’Office of foreign assets control (Ofac) del dipartimento del Tesoro statunitense ha autorizzato alcune limitate transazioni8. Per i prossimi sei mesi Washington monitorerà l’evoluzione della situazione e, eventualmente, cancellerà altre sanzioni o le imporrà nuovamente. A febbraio l’Unione Europea ha annunciato la sospensione di una serie di sanzioni nel campo dei settori energetico, bancario e dei trasporti, insieme allo scongelamento di beni e fondi precedentemente requisiti, per sostenere la ripresa economica e la ricostruzione del Paese9. Anche i funzionari europei hanno, però, optato per una rimozione graduale e attenta allo sviluppo degli eventi.

La continua ricerca di attori pronti a sobbarcarsi il peso e i rischi della ripresa economica siriana ha condotto le nuove autorità ad accettare la proposta dell’Arabia Saudita e del Qatar di saldare il debito del Paese levantino con la Banca mondiale10. Attraverso tale iniziativa Riyadh e Doha cercano di contendere ad Ankara la presa su Damasco ed espandere il proprio raggio di influenza alle estremità orientali del Mediterraneo. Durante tutta la guerra civile, l’Arabia, la Turchia e il Qatar hanno, sostanzialmente, appoggiato la fazione opposta al regime degli Assad, perseguendo però la propria agenda11. Oggi la divergenza di interessi di tali attori nel quadrante si conforma in un atteggiamento di collaborazione competitiva. Escluso dalla vicenda il nemico in comune, l’Iran, ora ognuno cerca di attirare verso sé il nuovo soggetto bisognoso di ingenti risorse economiche, copertura diplomatica e garanzie securitarie.

Alla fine di aprile è emersa, da parte statunitense, la possibilità di una rimozione totale delle sanzioni. Due membri repubblicani del Congresso, Marlin Stuzman e Cory Mills, si sono recati a Damasco per incontrare il presidente al-Shaara e i nuovi funzionari siriani per intavolare i primi negoziati12. In sintesi: Washington ha offerto la reintegrazione nei circuiti economico-finanziari occidentali al prezzo dell’adesione agli Accordi di Abramo.

Damasco non ha chiuso la porta ma ha alzato la posta; sì è dichiarata favorevole all’istituzionalizzazione di relazioni diplomatiche con Israele in cambio del ritiro di Tsahal dalle posizioni recentemente occupate. Essendo consapevole di non avere possibilità di ritornare in possesso di tali territori per mano militare, la Repubblica Araba di Siria prova a intraprendere una difficile via diplomatica.

Il Syrian Observatory For Human Rights ha documentato oltre 500 attacchi aerei da parte di Israele nel solo periodo compreso tra l’8 dicembre e il 31 dicembre 202413. Gerusalemme ha preso di mira depositi di armi, siti di produzione, infrastrutture militari e critiche, batterie antiaeree e diversi mezzi militari, in sostanza, ha notevolmente ridotto le capacità offensive e difensive del nuovo regime siriano14. Agli occhi degli apparati gerosolomitani l’occasione è ghiotta. Impedire che emerga una potenza ostile vicino ai propri confini è imperativo strategico per qualsiasi attore, a maggior ragione per chi non goda di un’estensione territoriale che permetta la costituzione della prima linea difensiva il più lontano possibile dai centri nevralgici del Paese.

L’obiettivo di Israele è impedire che la Siria militarizzi l’area a Sud di Damasco15. Affinché ciò avvenga continua la sua occupazione e applica la tattica del divide et impera tra le varie anime siriane. Tra il 28 e il 30 aprile a Jaramana e Sahnaya, due sobborghi della capitale siriana, e nella provincia meridionale di Suwayda si sono verificati violenti scontri tra le milizie druse e quelle in qualche modo riconducibili alle forze di sicurezza del regime siriano16. Le oltre 100 vittime tra le parti hanno sconvolto la popolazione drusa siriana, timorosa di subire la stessa sorte degli alauiti stanziati nella costa occidentale del Paese.

Gerusalemme ha già segnalato di possedere le intenzioni, e soprattutto le capacità, per utilizzare in maniera strumentale la crisi tra la popolazione arabo-sunnita e quella drusa per inserirsi e trarre profitto. All’interno dei confini di Israele vive un’esigua parte della comunità drusa, la quale costituisce all’incirca il 2% della popolazione israeliana17 e risulta essere completamente assimilata. Il governo di Netanyahu ha utilizzato le proteste di quest’ultima18 per schierarsi a fianco dei drusi siriani e mandare un segnale chiaro a Damasco e Ankara. Conseguentemente, nella notte del 2 maggio, l’aviazione israeliana è tornata ad attaccare la capitale siriana e i dintorni. Israele questa volta ha colpito nei pressi del palazzo presidenziale di Damasco inscenando un atto altamente provocatorio19. Il ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, ha successivamente commentato l’evento sulla propria pagina di X rivendicandone le responsabilità e dichiarando “il dovere morale di Israele di difendere la comunità drusa”20.

L’aumento delle tensioni tra Gerusalemme e Damasco ha, inevitabilmente, costretto Ankara a rispondere. Durante gli ultimi raid israeliani l’aviazione turca si sarebbe alzata nei cieli siriani e avrebbe condotto azioni di disturbo21. Il pericolo è che da queste situazioni possa nascere un incidente capace di aprire scenari imprevedibili.

Israele e Turchia necessitano di instaurare un meccanismo che consenta loro di contenersi a vicenda. I due attori hanno interessi e aspirazioni contrastanti. Mentre Gerusalemme cerca, in ogni modo, di cristallizzare una Siria che sia la più debole e decentralizzata possibile, Ankara, che di fatto è il garante alla sopravvivenza del governo di Ahmed al – Shaara, non può mostrarsi incapace di proteggere il neonato regime dalle minacce circostanti22. È a queste latitudini che si valuterà la maturità imperiale di Ankara. Le sfere di influenza gerosolomitane e ancirane collidono, pericolosamente, in Siria.

Le pressioni delle lobby israeliane nei confronti degli apparati statunitensi, affinché la Federazione Russa mantenga una seppur limitata presenza nel Paese levantino, servono a bilanciare la Turchia23. Gli Stati Uniti, desiderosi di dirottare personale e risorse dove più saliente, non paiono desiderosi di invischiarsi in teatri ritenuti non più vitali, la riduzione di truppe in Siria non può essere vista di buon occhio da Israele, timoroso di vedere occupare ulteriore spazio ad Ankara. Washington potrebbe, quindi, permettere a Mosca di ritornare a svolgere un ruolo rilevante in Siria. Un ruolo da quarto attore presente per frapporsi fra Gerusalemme e Ankara.

La Siria, in definitiva, rimarrà ostaggio dei calcoli di potere e di equilibrio delle potenze regionali, Turchia, Israele e Stati Uniti su tutti. Il governo di al -Shaara continuerà a cercare di attrarre investimenti per migliorare le condizioni economiche e sociali della Siria, ma non è nei palazzi del potere di Damasco che si deciderà il futuro del Paese.