Simona Lo Iacono: Virdimura

Simona Lo Iacono
Ed. Guanda, Milano 2024
pagg. 219
Siamo nella Catania del 1300, quando “Catania era la più bella delle città. Popolosa. Gloglottante. Colma di ebrei, musulmani, arabi, cristiani. Nessuno parlava una sola lingua, masticavano un po’ tutti i dialetti. Ci capivamo sorridendo, amando, odiando. Inveendo o pregando il Dio degli altri”. Ed è qui che visse Virdimura, la protagonista realmente esistita di questo romanzo storico di Simona Lo Iacono, magistrato nella sezione minori e famiglia della Corte d’Appello di Catania
Convocata da una Commissione di giudici, Virdimura racconta la sua vita.
“Non c’era malato che non sapessi leggere […] Mi dicevano sei brava dutturissa Virdimura, vieni a guarirci, concedi la vista a questa cataratta, fai rinsavire i nostri pazzi, caccia la peste. Ovunque, tra i vicoli dove rivolava la fogna, o tra i filari di panni scottati dal sole.[…] Ovunque, li ho sempre soccorsi, anche se avevo molta più paura di coloro che curavo. Ma voi lo sapete meglio di me, augusti doctori, la medicina non esige bravura. Solo coraggio”.
Ebrea, figlia di Uria, il medico più giovane della giudecca, che aveva ottenuto la licenza a soli vent’anni, Virdimura, “forte come le mura che cingono Catania. Verde come il muschio che affiora dal duro”, seguì le orme del padre, avendo avuto solo lui come maestro. Un medico, Uria, “che parlava della guarigione come un viaggio. E che alle tecniche tradizionali credeva poco. E poi, quella sua assenza di rigore metodologico. Quella scelta impropria dei malati da curare. Quel bazzicare tra le stive delle navi, o tra le prostitute in piena notte. Lo si era visto tra i rematori dei caicchi turchi. Tra i popoli infedeli e nemici della terra di Abraham. Alcuni raccontavano poi che non si era fatto pagare, in spregio alle sacre leggi”. Dissezionava i cadaveri, Uria, anche se “i sacerdoti gridavano al sacrilegio, toccare i morti era impuro”. E più volte lo convocarono al tempio per multarlo. Anche quando li avvisò, dopo aver analizzato un mozzo di una nave, che su quella nave c’era il tifo, non gli credettero. Contrò il suo volere la flotta attraccò nel porto. “Dopo due giorni, l’epidemia di tifo infestava la città”.
Viridmura aveva cinque anni quando imparò a suturare la prima ferita. L’insegnamento del padre, a proposito della cura dei malati era: “Curali senza sottovalutare gli intoppi, dando più importanza al nascosto che al visibile. E se guariscono di’ loro che sono migliorati da soli. Se muoiono, di’ ai parenti che è stato per tua negligenza. Addossati le colpe che non hai e dimentica i tuoi meriti, ma soprattutto amali, figlia mia”. L’unico amico che aveva era il padre, perché nessuna famiglia del ghetto lasciava che frequentasse i propri figli.
“Ero Virdimura, l’unica che maneggiava un forcipe e sapeva già estrarre un neonato dal ventre. Che conosceva i morti e i segreti della carne.[…] Ero diavola, dicevano i cristiani. Ero impura, dicevano gli ebrei. Ero perduta, dicevano gli arabi”. Poi, un giorno, il padre venne portato via e lei rimase sola. Ma non si perse d’animo a iniziò ad assistere donne ebree e cristiane che arrivavano da lei e, una volta guarite, le istruiva: “A tutte insegnai l’arte della medicazione, e a tutte spiegai come fasciare, spurgare, disinfettare”. E, con il loro aiuto, diede vita “a un nuovo tipo di ospedale, in cui aggirarsi non come malati, ma come abitanti di uno stesso luogo – sananti e risanati, coscienti e folli, guaritori e guariti”.
“Eravamo un gruppo di esiliate e tradite, di sfollate e abusate. Non ci univa niente, non il sangue, né l’istruzione, o la religione.[…] Facevamo buon uso del poco, e tutto ci bastava. Avevamo la forza di ogni mendicante, di ogni sfrattato, di ogni orante. Per questo, mettemmo su una casa povera, e perciò ricca, in cui nessun medico era più importante del malato”. Ma quel luogo suscitò sospetti nella comunità a arrivò l’ispezione dei sacerdoti del tempio, e poi l’arresto. “L’accusa era prostituzione. Nessun altro motivo poteva esserci per un gruppo di donne senza marito chiuse in una casa, che lasciavano entrare gli uomini, che avevano figli illegittimi, che non davano conto dei giorni di purificazione”.
La salvezza arrivò dall’altro uomo protagonista di questo romanzo: Pasquale de Medico, ebreo anche lui. Conosciutisi da bambini, eccolo ricomparire – dopo anni di viaggi e di studio, dove aveva iniziato a praticare l’arte medica – e diventare suo marito. Egli si diede da fare, nell’ospedale, anche quando, nel 1347, la peste arrivò a Catania, portata da una galea genovese proveniente da Caffa, in Crimea, e attraccata a Messina.
Fu convincente, Virdimura, di fronte alla Commissione perché, nonostante non fosse previsto che “una fimmina possa farsi dutturi”, le venne concessa la licenza a curare. “La dottoressa Virdimura accettò con gratitudine questo riconoscimento, ma pretese che esso fosse rilasciato con una particolare clausola. E cioè che la licenza la autorizzasse soprattutto a curare i più indigenti, i più deboli, i più tralasciati”.
Era il novembre del 1376
“Il testo di questa licenza è ancora oggi conservato nell’archivio storico di Palermo”.
Gianlorenzo Capano