11/07/2015 - Fino al ’91 Trieste era una porta e l’autostrada che andava oltre, tirava dritta senza sigle diverse. Puntava a sud fino alle montagne di Macedonia e Montenegro, dove i Balcani degli Slavi chiudono le porte all’Albania. Chissenefrega, diranno in molti. Roba di cartelli e strade in fondo…

Ma i cartelli scrivono la Storia che passa sulle strade. Le strade raccontano la gente.

Al di qua della porta c’era l’Occidente mai troppo invidiato, mai troppo odiato. La Jugoslavia era forte di sé e delle sue fragili ossa. Una donna energica, in un corpo malato.

Oggi la porta non c’è più. Un ex casello doganale introduce alla Slovenia, oltre le Alpi. È rimasto come sentinella del passato, buono al massimo a rallentare le auto per Lubiana.

Stessa cosa a Brezice, tra Slovenia e Croazia: un confine rinato con la Croazia indipendente e rimorto con l’Unione Europea.

Cambia tutto però sul fiume Sava, sulla strada 5, poco oltre l’uscita verso sud. Sulla campagna verde, puntellata da tetti rossi delle case, lo attraversa un ponte di ferro: la Croazia diventa Bosnia e il mondo gira.

La porta che si chiudeva a Trieste si è spostata a Bosanska Gradiska, tra oleandri e aiuole sbrecciate, tra cirillico e latino. È la Repubblica Serba di Bosnia, macchia tra le macchie di un Paese finto.

La Bosnia è solo un nome; un tessuto a chiazze. Una nazione non nazione, dove i confini interni sono i rancori dei secoli anche se non si vedono. A coprirli spesso ci pensa il fumo dei roštilj, la carne alla brace che vale per tutti.

A Bosanska Gradiska si mangia maiale e si scrive cirillico. È la prova che sono serbi. Pochi chilometri e come missili puntati al cielo, svettano i minareti e torna il latino, l’alfabeto che vale per islamici e Croati cattolici.

La Bosnia è un groviglio, un insieme di nodi complessi. Serbi, Croati e Bosgnacchi (i musulmani locali) s‘intersecano ovunque, in ogni città, su ogni cartello stradale cancellato che ricorda pulizie etniche e prevaricazioni. La Bosnia è una manciata di popoli tirati a caso su una mappa. Quella manciata che ha favorito gli accordi di Dayton, nati per salvare la coscienza occidentale senza però risolvere nulla. La parola “balcanizzare”, viene da qui non a caso…

A Banja Luka, capitale dei serbi di Bosnia, scritte sui muri in cirillico parlano di orgoglio. Le nuvole portano a sud, lungo il Vrbas, che a gole e cascate, fra mille sfumature di verde, accompagna la strada per Jaice tra cimiteri cattolici e islamici. Un bicchiere di rakia lungo il fiume e la Bosnia torna una cosa sola. Le facce sono identiche, come i tetti delle case e il dolore che ci è passato dentro.

Tutto questo è Europa. Non fosse per le scritte, sembrerebbe Abruzzo o forse Marche o Umbria. Montagna che incombe, colline spigolose, fra una curva e un tornante, fra una salita e un bar di gente silenziosa e stanca.

Sarajevo è alle porte. È l’insieme di tutte le diversità e di tutti gli odi.

È bella Sarajevo. Ha voglia di vivere come un’adolescente di provincia. Non ride però; non parla nemmeno. Le sue rughe sono i colpi di artiglieria sui muri, coperti appena dalle bandiere blu bosniache imposte dal mondo e in cui nessuno crede.

Non c’è villaggio in tutto il Paese che non abbia addosso i segni della guerra, che negli anni ‘90 si è affacciata, ha guardato, ha sorriso, si è fermata, se n’è andata per poi tornare più volte. Non c’è angolo che non ricordi un orrore, sfiorato o compiuto. Ma Sarajevo è diversa: più che altrove si respira l’odore amaro di ciò che è stato. Non ha cartoline Sarajevo. Tra una moschea, una cattedrale, un viale ciottoloso, un kebab e una minigonna, rimane a guardare le sue colline verdi tutt’intorno, gelosa della sua bellezza timida.

Venti chilometri oltre quelle colline c’è Pale, vecchia capitale dei serbi bosniaci, dove c’era il nemico, la paura, la morte. Oggi Pale sembra un luogo di vacanza morto. Un paesotto alpino, con uomini alti dal collo quadrato e la fronte alta, come tutti i Serbi di famiglia serba. Mladic e Karadzic qui erano a casa.

Prima dell’Herzegovina, regione del sud, il verde slavo tinteggia ancora tele antiche, fra villaggi, muri bucati, chiese e moschee. Arrivano i picchi sul lago Jablanica e le gole della Neretva, dove la Storia è affogata più volte.

Strano destino quello dei luoghi: spesso ci si passa senza averne memoria. Quando si vede la croce che sovrasta Mostar, lo si capisce di più. Mostar è un vaso di fiori rotto più volte e poi rattoppato. Odora di turco e di Europa insieme.

Profanata dalla guerra tra Croati e musulmani, sembra stuprata di nuovo dalle orde di turisti stupidi. Meriterebbe riposo, Mostar. Il suo ponte famoso vorrebbe silenzio, tra le viole e l’acqua del fiume.

Fuori Mostar, si mangia maiale. È la prova che sono Croati. Da piccole cose si capisce la Bosnia. Da un menù, da com’è fatta una croce, da un cappello. Da dettagli minori se ne condivide il colore delle macchie che si porta addosso.

Prima di sfiorare la croata Medjugorie, scorre ancora Neretva e le sue curve che guidano la statale tra passato e presente. Fino ad arrivare a Metkovich, oltre un altro confine che una volta non c’era. O forse sì.

Ma siamo di nuovo in Croazia, verso la costa, verso l’Adriatico ed è tutta un’altra storia.

(continua)

Giampiero Venturi