24/05/2015 - La Libia è una mezza invenzione. Benché citata nel Vangelo (At 2,1-11), lo sapeva già Diocleziano che i pezzi erano due: Tripolitania a ovest, Cirenaica a est. Eppure ancora oggi, la terra araba fra Tunisia ed Egitto si chiama Libia. È sei volte l’Italia ma ha un decimo della sua popolazione. Nonostante sia uno dei luoghi meno abitati della Terra, continua a far parlare di sé.

Se dal '69 al 2011 non s’è mossa foglia, l’aridità del clima non c’entra. Dipendeva da lui, Gheddafi, il leader della Jamahiriyya, la “repubblica delle masse”.

Nemico americano per istinto, amico dell’URSS per necessità, nasseriano, panarabista, socialista, tradizionalista, uomo d’arme, panafricano, uomo del deserto, oratore, amico nostro per affari, terzomondista, bombarolo, showman…

Comunque la si pensi, Gheddafi è stato uno statista con gli attributi, riuscendo a passare indenne attraverso trasformazioni epocali, trapianto di capelli compreso. La sua maturazione negli anni ’90 gli garantì un record quasi assoluto negli ultimi due secoli: la riabilitazione americana dopo quasi trent’anni di antagonismo.

Tra trasformismi e carnevalate va detto che la Libia per scuole, ospedali, acquedotti e tenore di vita, era un’autentica eccezione nel mondo arabo. Per anni, per molti emigrati è stata l’unico eldorado alternativo al Libano e agli Stati del Golfo.

Gheddafi è morto nel 2011. La sua leadership è durata 11 Mondiali di calcio, una striscia che vantano in pochi. È morto nel momento in cui da noi si discuteva se somigliasse più a Renato Zero o a Michael Jackson.

Per la Francia però erano dettagli inutili. Richiami economici dichiarati spingevano a chiudere il conto aperto negli anni ’80, quando volare su Ustica non era sicuro e ai confini col Ciad la Legione Straniera contendeva a Gheddafi uranio e sabbia. L’antico confronto fra il Colonnello e Parigi era economico e ideologico. Per un leader panafricano terzomondista, la Francia rappresentava il colonialismo per eccellenza; la frusta bianca che aveva brutalizzato l’Africa. Per la Francia, un ribelle alle manie di Grandeur mai sopite.

Che l’intervento militare del 2011 fosse inserito in una coalizione internazionale è questione di forma. Che s’incastrasse nella cosiddetta Primavera araba invece ci aiuta a capirne le sorti, visti i risultati disastrosi in tutto il Maghreb: non a caso la Libia di oggi somiglia più alla Somalia che alla Norvegia.

L’Europa finge di credere che a Tobruk ci siano istituzioni salde e credibili con un leader vero, Al Thini, tra l’altro nemmeno di origine libica.

Crederci serve ad evitare decisioni, rimandando tutto a non si sa chi, non si sa cosa.

La realtà sul terreno è ovviamente diversa. La partita tra i cartelli di Misurata (islamista) e Zintan (filoccidentale) si è evoluta, se possibile peggiorando.

Parte delle milizie di Misurata si sono integrate in un fantomatico Ministero degli Interni e il fronte islamista si articola in tre pezzi

  • quello che s’ispira all’Isis, con roccaforte a Derna

  • i Martiri di Abu Salim che rifiutano il califfato (più precisamente la sua leadership…)

  • Alba, che non è quella Dorata greca né la Parietti, ma il cartello originario della deriva islamica in Libia.

Sulla scia di Zintan ci sono i cosiddetti nazionalisti e il generale Haftar (in odore di CIA), che dopo i proclami napoleonici del 2014 è tornato nel mucchio, allineandosi allo scenario di caos generale.

A soffiare sul fuoco ci sono gli inevitabili sponsor: Arabia Saudita, Emirati e soprattutto l’Egitto di Al Sisi per i filoccidentali.

Sudan, Qatar (quando c’è da finanziare Allah, non manca mai…) e addirittura la Turchia per gli islamisti. Il recente cannoneggiamento di una nave turca diretta a Derna da parte delle milizie di Tobruk la dice lunga.

Anche se le cancellerie occidentali usano toni ottimistici, due sembrano i problemi insolubili del pantano libico:

  • la struttura tribale della società, radicata soprattutto a sud

  • il ruolo degli uomini compromessi col regime di Gheddafi

Le tribù del deserto e i Berberi in particolare rumoreggiano, in bilico tra Parlamento di Tobruk e fronti islamici. Irretiti per 40 anni in un equilibrio fatto di privilegi, zone franche e repressione dura, erano di fatto inermi ai tempi del regime. Con la fine di Gheddafi, il saccheggio degli arsenali e una ritrovata anarchia (genetica nel deserto profondo), oggi è saltato tutto. Le decisioni vengono prese villaggio per villaggio, tribù per tribù, rinnegando ogni forma di potere centrale.

Il riciclo degli uomini legati al Colonnello invece, numerosi come in ogni regime d’ispirazione socialista, impedisce di fatto l’affluenza di molte milizie “rivoluzionarie” nell’asse di Tobruk. La ferite dalla “rivoluzione” del 2011 passano tra politica e rancori personali e non sembrano facili da riemarginare.

La situazione generale somiglia ad un vaso fatto cadere in terra, di cui UE e USA cercano disperatamente di ricomporre i pezzi.

L’appoggio alla fazione di Tobruk è un grottesco tentativo di dare potere ad un uomo forte di ispirazione laica che non appaia però come un fantoccio dell’Occidente: esattamente quello che era Gheddafi. Il problema che l’uomo forte non ci sia e che la cosa contraddirebbe gli entusiasmi per la Primavera libica, nelle dichiarazioni dei governi europei viene aggirato. Rimpiangere pubblicamente la Jamahiriyya di Gheddafi (atto naturale di ogni persona sana di mente) sarebbe politicamente scorretto e soprattutto l’ammissione di un enorme fallimento politico e militare.

Tra una raffineria, una strage e una minaccia, il Nordafrica frana: Cirenaica e Tripolitania tornano a soqquadro come ai primi del ‘900, quando il Conte Tacchia si arruolava per combattere i Turchi. Sulle coste libiche intanto milioni di disperati fuori controllo guardano a nord. Il Male Nostrum continua. Per noi e per loro.

Giampiero Venturi

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