14/04/2015 - In questi giorni si riflette molto sulle traslazioni verso l’Islam della Turchia, con buona pace della laicità, fulcro della nazione voluta da Ataturk. Molto si discute anche delle presunte derive autoritarie di Ankara. Quelle derive tanto temute dall’ominide da tastiera convinto che la democrazia sia scegliere il tipo di olive all’aperitivo, il colore di montatura per gli occhiali da ebete o la foto più gagliarda per il profilo social.

Per capire la cilindrata del motore con cui si muove la Turchia, in realtà bisogna attraversarla. È per definizione un Paese monolitico e più uguale a se stesso di quanto già la forma rigida non suggerisca. Il suo stesso assetto di Stato centralizzato e piramidale, offre un’immagine di elefante grosso e lento ma proprio per questo stabile. Alla faccia delle mode secondo cui i federalismi sono automatica fonte di libertà, la Turchia si presenta come blocco unico ancorato fisicamente all’Egeo e all’Asia, ma ideologicamente ai suoi indelebili principi fondanti.

Pochi Paesi al mondo sono così legati all’idea d’identità come la Turchia. Ma se l’identità di un popolo è tanto più chiara quanto sono più forti i valori intorno a cui si riconosce, non è da escludere che perfino una negazione possa essere un valore.

Basterebbe citare il vocabolario turco, secondo cui i Curdi sono “Turchi delle montagne” o la situazione a Cipro Nord, dove lo stallo col sud greco è uno status che dura da 40 anni; nulla però ci aiuta a capire il significato ontologico del “sentirsi turchi”, più della Questione Armena.

Rimossa dalla coscienza collettiva turca senza troppi fronzoli è rimasta sepolta anche nella soffitta del perbenismo universale, al punto da essere fino a ieri praticamente ignorata da tutti. Se diciamo “Armeni” è infatti più facile pensare a uno stilista pronunciato in barese, che a un popolo del Caucaso, baricentro della prima cristianità mondiale.

Poco più grande della Sicilia, l’Armenia oggi fa parlare di sé in virtù delle parole di Papa Francesco riguardo al genocidio del 1915, perfezionamento di una mattanza iniziata venti anni prima. Nonostante più di 1 milione di morti per fame, stenti ed esecuzioni sommarie, in Italia continua a fare meno notizia dei fidanzati di Belen Rodriguez o delle labbra di Nina Moric. L’evento si commemora ogni 24 aprile ma lo sanno solo gli Armeni.

Non entriamo nella cronaca storica. Che l’Impero Ottomano bla bla bla… sia passato alla soluzione finale bla bla bla… per raggiungere l’obiettivo di un’Anatolia etnicamente solo turca eccetera eccetera… interessa e non interessa.

Quel che conta è che uno dei piloni dell’identità turca, al punto da resistere alla pressione del mondo intero, sia la negazione dei fatti. Dire a un Turco “voi avete sterminato gli Armeni” è come sbagliare curva a un derby: si rischia il linciaggio. Provare per credere.

Di per sé la cosa è curiosa, soprattutto in tempi in cui ammissioni di colpe, outing ed excusatio non petita sono di gran moda in tutto il globo terracqueo.

In un mondo in cui la Chiesa chiede scusa anche per le molliche cadute durante l’Ultima Cena o in cui chiedere un Negroni al bar può essere la base di un’accusa di razzismo, ci si chiede quanta forza abbia la Turchia, per non riprendere in esame seriamente la Questione Armena.

Per la Questione Curda ci sarebbe al limite l’attenuante della molteplicità delle colpe (il problema è condiviso con Iran, Siria e Iraq) ma sugli Armeni menare il can per l’aia, sembra abbastanza goffo. Le responsabilità turche sono più che evidenti.

Premesso che parlare di uno sterminio non è come parlare di fuorigioco (“secondo me c’è” “secondo me no”), possiamo immaginare forse che ci siano genocidi di serie A e genocidi di serie B. se così fosse, quello degli Armeni andrebbe sicuro nella serie cadetta.

Il perché non è facile capirlo. Azzardiamo l’ipotesi che il parere degli Americani in certe cose sia quanto meno influente. Non a caso gli USA sono tra i Paesi che non hanno riconosciuto la mattanza anatolica.

Probabile che la Turchia sia un alleato troppo importante per essere irritato, soprattutto se si considera che l’Armenia nel mazzo delle carte mondiali può ambire al massimo al rango di due di coppe e che rientra tra gli amici stretti della Russia, notoriamente non prima nella lista delle simpatie yankee.

L’Armenia, primo Paese al mondo ad introdurre il Cristianesimo di Stato (e che ha il merito di averlo sempre difeso), è un luogo meraviglioso, porta d’Oriente che trasuda Storia. Una Storia che purtroppo gronda sangue. Conosciuto o non conosciuto, il suo dramma è una cicatrice reale che per interessi ed egoismi continua ad essere ignorata.

I Turchi, gran popolo, potrebbero fare molto in questo senso.

Giampiero Venturi