C’è qualcosa che non va. Se da un lato si invoca di fare giustizia (politica) su esiti disastrosi come quello del ritiro dall’Afghanistan (chi era in carica ai tempi degli accordi di Doha?), dall’altro l’atteggiamento trumpiano sul conflitto ucraino solleva interrogativi altrettanto inquietanti. Si può davvero, dopo tante promesse pre e post elettorali, voltarsi dall’altra parte?
Quando nel 2017 Donald J. Trump entrava alla Casa Bianca, il mondo assisteva a un ribaltamento delle forme e dei toni del linguaggio politico internazionale. Ma è nel secondo ciclo della sua ascesa politica – quello che dalla sconfitta del 2020 lo ha portato nuovamente al centro della scena come candidato e ora leader de facto del Partito Repubblicano – che si è consumato un cambiamento molto più profondo: quello nel rapporto tra Trump e la guerra in Ucraina.
Sin dalle prime fasi dell’invasione russa del febbraio 2022, Trump ha insistito pubblicamente sul fatto che se fosse stato presidente, il conflitto “non sarebbe mai cominciato”. Con tono assertivo e tipico da negoziatore, ha più volte promesso che, una volta rieletto, avrebbe “messo fine alla guerra in 24 ore”, vantandosi di una presunta capacità di influenzare sia Zelensky che Putin, grazie ai suoi rapporti passati con entrambi.
Questa narrazione, utile a capitalizzare lo scontento di parte dell’elettorato americano per l’aumento dei costi legati agli aiuti militari e umanitari all’Ucraina, ha funzionato. L’ex presidente si è presentato come un garante della pace e del “prima l’America”, a differenza dei “globalisti guerrafondai” di Washington.
Con l’avvicinarsi della campagna elettorale del 2024 e il consolidarsi della sua posizione nei sondaggi, Trump ha iniziato a sfumare le sue promesse. Da un ipotetico “accordo di pace immediato”, si è passati a formule vaghe, talvolta persino contraddittorie. Dopo l'elezione si è lasciato intendere che il sostegno a Kiev non poteva essere illimitato e che era sostanzialmente "uno spreco di soldi".
In parallelo, il Partito Repubblicano si è sempre più spaccato: da un lato i falchi tradizionali, dall’altro l’ala trumpiana che chiede un ridimensionamento della presenza americana nello scacchiere globale. Trump, anziché chiarire la propria posizione, ha scelto di cavalcare l’ambiguità, lasciando che fosse percepito sia come il “pacificatore” che come il “non interventista”.
Negli ultimi mesi Trump ha mutato ancora tono: non più promotore di una soluzione diplomatica rapida, ma distante, estraneo, perfino infastidito. Il linguaggio si è raffreddato, lo slancio da mediatore è scomparso, lasciando il posto a un distacco che ha spiazzato molti dei suoi stessi sostenitori.
La trasformazione è evidente. Non è più l’uomo della stretta di mano che tutto sistema, ma piuttosto una figura che si ritrae della tradizione cristiana. E pensare che solo poche settimane fa, sul social X della Casa bianca, veniva o nonostante la smentita "si era" (la responsabilità oggettiva deve ancora essere introdotta negli USA) provocatoriamente presentato con un'immagine in cui appariva come un moderno Papa.
Non basteranno le batterie di Patriot deviate da Israele all'Ucraina a salvare la faccia di fronte all'opinione pubblica occidentale.
Trump era piaciuto perché fuori dagli schemi, diretto, deciso. Oggi, di fronte a un conflitto che ha già segnato profondamente l’Europa e messo in discussione gli equilibri internazionali, la sua voce non è più quella di chi si prende responsabilità. È la voce di chi guarda altrove: proprio come fece Ponzio Pilato!
Resta una domanda: anche il prossimo presidente USA solleverà il velo su ambiguità, omissioni o... scheletri nell'armadio?