Nicola Rao: Il tempo delle chiavi. L’omicidio Ramelli e la stagione dell’intolleranza
Nicola Rao
Ed. Piemme, Milano 2024
pagg.223
Hazet 36 e cucchino sono termini oggi sconosciuti ai più, ma ben noti a chi, negli anni Settanta, si è trovato a vivere il periodo della contestazione violenta in città come Milano – teatro dei più grandi e tragici fatti di violenza politica – dove è ambientato questo saggio di Nicola Rao, direttore della comunicazione Rai. L’autore ha avuto modo di visionare i verbali dei consigli scolastici e comunali e le sentenze relative a quel periodo. Egli ha, inoltre, intervistato alcuni protagonisti di quell’epoca, un‘epoca in cui era ritenuto normale uscire e vedere sangue sui marciapiedi, un’epoca in cui si è combattuta una vera e propria guerra, con morti e feriti, una guerra, però, dimenticata o che si è voluta dimenticare e che si è combattuta per strada, ma soprattutto nelle scuole e nelle università.
“Dopo oltre mezzo secolo c’è ancora chi, tra coloro che hanno vissuto quegli anni, preferisce raccontare quel periodo dietro garanzia dell’anonimato”.
Il Settimo e il Molinari, due scuole della periferia milanese, “sono gli avamposti dell’antifascismo militante. […] Eh sì, perché la militanza politica è un altro dei must giovanili di questi anni in bianco e nero”. Qui comandano i Katanga – le squadre del servizio d’ordine del Movimento Studentesco della Statale di Milano comandato da Mario Capanna – e Avanguardia Operaia, entrambi collettivi dell’ultrasinistra.
Mario Capanna è quello che guida le proteste contro i professori della Statale, rei di contrapporsi al suo diktat “che stabiliva cosa chiedere agli studenti in sede di esame e anche cosa chiedergli. E soprattutto che voto dargli”.
Il professor Pietro Trimarchi, ordinario di istituzioni di diritto privato, per aver osato ribellarsi a questo sistema, come riporta la deposizione di un vigile che aveva tentato di difenderlo, “era ricoperto di sputi in maniera impressionante. Gli colavano sputi sul volto, giù per il collo, sugli abiti. Gli studenti lo sbattevano qua e là”.
Nel 1971 compare, come arma, l’Hazet 36, una chiave inglese, molto comoda e funzionale in quanto può essere nascosta sotto il trench o il giaccone senza essere vista. E comincia a diffondersi “un neologismo: cucchino. Cioè, l’aggressione organizzata di un gruppo di persone a un singolo bersaglio, indifeso”.
“La prima testa rotta dalle chiavi è quella del ventenne Leonardo Avella, militante del Fronte della Gioventù”. È la Vigilia di Natale del 1972. Sarà la prima di una lunga serie.
La violenza dilaga, da tutte e due le parti politiche, e sale di livello. Il 28 maggio 1974, in piazza della Loggia, a Brescia, una bomba esplode durante una manifestazione contro la violenza fascista. “Questa di Brescia è forse la meno misteriosa delle stragi, almeno come matrice e motivazione: una bomba fascista collocata in una manifestazione di nemici dichiarati, di antifascisti. […] La rabbia antifascista esplode in tutta Italia”. Vengono assaltate molte sezioni del Msi e della Cisnal. “Del resto il sillogismo di questi anni è stringente e non ammette sfumature o distinguo: la strage è fascista – il Msi è il partito dei fascisti – il Msi è responsabile della strage. Ovviamente non è così, ma ormai la logica e la lucidità stanno sempre più lasciando il passo alla follia e alla voglia di vendetta”. E così il 17 giugno accade che le Brigate Rosse assaltano una sede dell’Msi, in via Zabarella, a Padova, uccidendo le due persone che si trovavano all’interno. “Si tratta dei primi due morti fatti dalle Br”.
Intanto a Milano continuano le aggressioni, a scuola, agli studenti di destra. “Il diktat è sempre lo stesso: non devi entrare perché sei fascista”. Al Molinari c’è uno studente attenzionato dalla polizia morale dell’istituto. Si chiama Sergio Ramelli e frequenta il Fronte della Gioventù.
Un giorno della prima settimana di dicembre “il professore di italiano assegna alla classe di Sergio un tema sulle Brigate Rosse”. Sergio esprime le sue idee puntando il dito contro la violenza assassina delle Br, facendo riferimento alla mattanza di Padova. “Il compagno di classe incaricato di raccogliere i temi e di portarli nella sala professori viene intercettato da una ronda rossa, che gli sottrae gli scritti e comincia a passarli al setaccio. Per capire se qualcuno abbia scritto qualcosa di sbagliato sulle Br. E qualcuno lo trovano. Sì, è proprio Sergio, reo di aver definito i brigatisti assassini e manovrati, altro che rivoluzionari. Poche ore dopo, nella bacheca del grande atrio del Molinari compaiono due fogli protocollo, affissi con le puntine. Sopra c’è una scritta rossa: ECCO IL TEMA DI UN FASCISTA. Il testo è pieno di sottolineature rosse. Pe Sergio stanno per aprirsi le porte dell’inferno”.
L’anno successivo, il giorno 13 gennaio, durante una lezione, viene prelevato da una cellula di Avanguardia Operaia e costretto a cancellare, con un pennello, scritte fasciste comparse sul muro della scuola. Il 3 febbraio, accompagnato dal padre per chiedere il nulla osta per potersi trasferire in un’altra scuola, viene aggredito da una cinquantina di “guardiani della rivoluzione”, riunitisi all’uscita della presidenza. “Sergio si sente male e sviene, vengono chiamate ambulanza e polizia”.
Sergio cambia scuola, iscrivendosi ad un istituto privato. D’altronde, l’obiettivo dei “compagni” era quello di “espellere i “fascisti” da tutte le scuole pubbliche per evitare che potessero fare […] il benchè minimo proselitismo”.
Il 13 marzo, alle 12.55, mentre parcheggia il motorino sotto casa, avviene l’aggressione che lo porterà alla morte. Assalito a colpi di chiave inglese sulla testa da più persone, viene ricoverato all’ospedale Beretta. “La diagnosi immediata è la seguente: Trauma cranico. Ferite lacero-contuse al cuoio capelluto con fuoriuscita di sostanza cerebrale e stato comatoso”.
Il 29 aprile 1975, dopo 47 giorni di agonia, Sergio, ad appena 18 anni, muore.
Il corteo funebre, per timore che ci possa essere altra violenza, altro sangue, altri morti, non viene autorizzato, ma il feretro, il 2 maggio, verrà comunque scortato, da militanti neofascisti, dall’obitorio alla chiesa, passando davanti alla facoltà di Medicina, dalle cui finestre molti militanti di Avanguardia Operaia scattano fotografie ai “neri”. “Va detto che giornali di tutti i partiti rappresentati in Parlamento, dall’Unità al Secolo d’Italia, condanneranno senza se e senza ma l’uccisione di Sergio”.
Dopo 10 anni di omertà, “perchè moltissimi in città sapevano chi fossero gli autori di quell’omicidio”, gli otto responsabili, facenti parte, all’epoca dell’assassinio di Sergio, del servizio d’ordine di Avanguardia Operaia della facoltà di Medicina e, per la maggior parte, diventati nel frattempo medici, nel 1985 vengono arrestati, grazie alle indagini condotte dal giudice Guido Salvini, e successivamente condannati per omicidio volontario. Dopo l’arresto, in un convegno del 12 ottobre 1985 organizzato, a Milano, da Democrazia Proletaria e al quale prendono parte tutti quelli che hanno fatto la storia della sinistra e dell’estrema sinistra italiane, uno dei padri della filosofia contemporanea, Ludovico Geymonat, sostiene: A proposito della violenza, c’è chi dice: “Io sono contro tutte le forme di violenza”. Ecco, io no. Io non sono contro tutte le forme di violenza. Ho fatto il partigiano e ho esercitato violenza, ma credo che l’importante sia distinguere tra la violenza giusta e quella ingiusta.
Interviene anche Miriam Mafai, giornalista, “presidente della Federazione Nazionale della Stampa, vicina al Pci, che ha scritto nei giorni precedenti sul suo giornale un articolo molto duro contro gli assassini di Ramelli”. Rivolgendosi direttamente a Mario Capanna, gli dice: “Ramelli non è stato un errore, ma un delitto”. Questo perché la linea che si voleva far passare era che “un episodio di violenza, anche se omicida, resta comunque un episodio, che non può inficiare o sporcare la storia della sinistra radicale e dell’antifascismo militante.[…] La verità è esattamente l’opposto. Per una serie di circostanze fortuite, solo casualmente l’omicidio Ramelli fu l’unico episodio mortale, ma le aggressioni a colpi di chiave inglese ai ‘nemici’ interni ed esterni furono una pratica organizzata, sistematica e diffusa, che coinvolse centinaia e centinaia di giovani, molti dei quali non sono mai stati individuati, arrestati e processati”.
Nella sola Milano i “cucchini” denunciati sono circa duecento, con una media di quattro-cinque aggressori per ogni azione di pestaggio a colpi di spranghe e chiavi inglesi. Aggiungendo a questo i superiori gerarchici degli aggressori si arriva a circa un migliaio di persone coinvolte. “Ebbene, i militanti di estrema sinistra identificati, accusati o condannati per queste aggressioni sono stati meno di 100”. A questi “vanno aggiunte quelle persone che hanno condotto attività di “polizia parallela”: pedinamenti, scatti di fotografie o riprese video, minacce, telefonate anonime, sequestri lampo con furti di agendine o documenti. Anche qui, saranno pochissimi i responsabili identificati”.
Una stagione di violenza, quindi, quella vissuta in quegli anni, dove oltre a quelle politiche, ci sono anche altre responsabilità, da ricercare “nelle famiglie, nel sindacato, nel giornalismo, nella scuola. […] Perché solo se capiremo fino in fondo come sia potuto accadere quello che è accaduto, saremo certi che la stagione dell’intolleranza resterà soltanto un tragico ricordo nella storia di questo Paese. E che non tornerà mai più”.
Gianlorenzo Capano