“L’altra voce dell’IBIS” – Storia di un progetto di ricerca
Fin da quando ero piccola i miei genitori mi hanno insegnato che esistono sempre due parti di una storia, una raccontata dai vinti e l’altra raccontata dai vincitori e affinché si possa ricostruire un avvenimento è necessario ascoltare tutte le parti in causa anche se quello che sentiamo non ci piace.
La missione italiana in Somalia del 1992 non fa eccezione a questa regola: ha due storie da raccontare, una delle due è scomoda ma l’ho ascoltata ugualmente. Due anni fa, infatti, decisi che era arrivato il momento di dare una voce anche a chi stava dall’altra parte dell’IBIS, bisognava cioè dare voce a chi con violenza e razzismo non aveva nulla a che spartire. In poche parole, volevo dare voce a chi in Somalia ci ha riportato la speranza.
Così, inizio la mia ricerca sui social network, mi iscrivo ai vari gruppi che riuniscono veterani somali di ogni arma, grado e anno di leva. Lascio un messaggio in bacheca così che tutti leggano, cerco storie sulla Somalia .. di qualsiasi tipo.
Nell’arco di due giorni, sono travolta dai messaggi, dalle telefonate e da un affetto decisamente insperato.
Trovo uomini e padri di famiglia, lontani da quelle foto di ragazzini poco più che ventenni che servirono in Somalia, e scopro che sono persone comuni, chi con un lavoro e chi no, che vivono la quotidianità come tutti noi ma sono pervasi da quel mal d’Africa che non li abbandona da quasi ventidue anni.
Al contempo, trovo anche una certa diffidenza, una paura di raccontare e di essere fraintesi, di vedere le proprie parole manipolate per costruire una realtà fasulla, che non hanno vissuto.
Sento tante storie, centinaia, vedo migliaia di foto e quelle mi trascinano in una terra arida tendente al rosso dove i bambini hanno carnagione color ebano e sorridono con un sorriso emozionante, in braccio a quei soldati a cui cadono larghe le divise.

Se i bambini sono lo specchio della società allora la società somala non ha paura del nostro esercito e dei nostri soldati – anzi, dal bagliore nei loro occhi si vede una gratitudine immensa. “Chissà se si ricordano di noi?” me lo chiedono in tanti, quasi tutti a dire la verità.
Un carrista mi racconta di una bambina – forse di nemmeno cinque anni – travolta da un camioncino e lasciata sul ciglio della strada imperiale, mentre tutti passano indisturbati come se una scena così fosse normale.
Passano tutti con indifferenza, ma i nostri soldati no: loro si fermano, le imbragano le gambe che quasi sono staccate dal corpo e la portano alla postazione medica più vicina. Si salverà.
La bambina non parla e non ha nome, non l’ha reclamata nessuno per mesi e i nostri soldati e le nostre crocerossine l’adottano per quasi un anno.
“Non l’avete più rivista?” – Chiedo.
“Non sappiamo nemmeno se sia ancora viva, l’abbiamo lasciata in un orfanotrofio di suore italiane. Sai com’è la Somalia, non è un paese dove si vive a lungo!”
Un ex parà mi racconta di una donna che hanno cercato di salvare da uno stupro ad un check point: “Una scena indescrivibile” – mi dice sospirando – “eravamo ad uno dei numerosi posti di blocco per controllare che tutto fosse in ordine, non saprei dirti quanti uomini ci fossero. Ci corre incontro un anziano con una ragazzina poco più che undicenne, in un italiano quasi migliore del mio (!) ci racconta che stanno fuggendo perché vogliono seviziare e lapidare sua figlia – l’undicenne – per essersi opposta allo stupro di un signorotto locale.
Sconvolti, abbiamo deciso di tenerli con noi al check point e ci siamo offerti di fare da mediatori tra loro e il signorotto locale. Niente. Dopo più di mezza giornata dovevamo andare e rientrare alla base, non potevano rimanere con noi.
Pensavamo fosse tutto risolto e invece… Dopo pochi metri dai nostri occhi, quasi dal nulla arrivò la prima pietra al fianco della ragazzina, poi una seconda alla tempia e così via… Finchè le urla smisero mentre la terra intorno si era fatta rossa. Abbiamo sparato qualche colpo ma erano tutti ben nascosti, siamo rimasti inorriditi e non passa giorno che non mi penta di averla lasciata andare via.”
Dopo ogni storia che ascolto ci sono sempre molti silenzi, silenzi di chi pensava di poter fare di più, silenzi pieni di rimpianti, silenzi fatti di nostalgia.
Qualche volta ci scappano anche delle lacrime, lacrime che hanno significati diversi a seconda dei casi.
Lacrime e silenzi sono un pò il riassunto di questi ventidue anni in cui della Somalia si è solo raccontata la violenza, il presunto razzismo e la rievocazione di un passato ormai lontano.
Nessuno in ventidue anni ha pensato a chi in Somalia ci è andato con un’intenzione diversa dal martoriare poveri innocenti ed è tornato con il cuore colmo di una gioia immensa, la gioia di salvare una vita e non chiedere nulla in cambio.
Uno dei primi a chiamarmi fu un bersagliere che con la voce un po’ commossa mi disse: “Poi me la mandi qualche intervista? Sai mio figlio pensa che io abbia sparato alla gente in Somalia, non so come fargli cambiare idea”.
Ecco, dunque, cosa si è fatto in ventidue anni, si è raccontata solo una storia tralasciando quella che sarebbe dovuta essere la parte bella e generosa di una grande Storia Italiana.
Abbiamo infangato e deriso il lavoro di migliaia di soldati che hanno salvato uomini e migliorato vite e che, da due decenni, portano dentro cuore e mente il ricordo di un pezzo d’Africa a loro così caro.
Dopo vent’anni è arrivato il momento di leggere e raccontare anche l’altra voce dell’IBIS.
Denise Serangelo

