"Yol, Criminal Camp 25: La repubblica fascista dell’Himalaya"

(di Michele Baroncini)
29/10/17

Accantonamento di Yol, Distretto di Kangra, Regione dell’Himachal Pradesh. Ore 05:00 PM del 30 giugno 1941.

La camionetta verde “desertico” con lo stemma a spade decussate della Brigata dei Royal Gurkha Rifles sulla fiancata procedeva a velocità sostenuta sulla pista sassosa di collina, sballottando senza requie gli uomini seduti nel suo retro tendonato.

Le tenevano dietro, da distanza ravvicinata, tre veicoli del tutto simili, ma privi del tendone posteriore. Il pianale posteriore di ciascuna delle camionette di scorta era infatti scoperto e su di esso stavano, in due file affrontate di quattro e su rudimentali e lunghi sedili di legno, otto soldati Gurkha.

I visi impenetrabili color nocciola segnati dalla guerra, essi sedevano come statue di sale, muti ed insensibili al caldo umido opprimente esattamente come lo erano al freddo più pungente. Portavano ad armacollo un moschetto e, pendente al fianco, il Kukri, l’antico, grande e letale coltello nepalese dalla lama ricurva che allora come mille anni addietro, ben prima delle armi da fuoco, costituiva l’armamento delle loro genti nella quotidiana lotta per l’esistenza sull’Himalaya le cui cime si stagliavano ora sempre più nitide sullo sfondo di un remoto paesaggio montano rigoglioso e innevato.

Quando ogni altro reparto ha il morale a pezzi, quando affrontare una situazione sembra impossibile, allora si chiamano i Gurkha, un misto di qualità umane e di virtù guerriere (sono leggendari nella guerriglia, altrettanto leggendaria la loro mira di fucilieri).

Dalla rivolta di Bombay al Fronte africano i “piccoli e prodi orientali” della Regina Vittoria avevano tinto di rosso la terra nelle implacabili carneficine all’arma bianca che spiazzavano ed atterrivano persino il granitico soldato Tedesco.

Quella micidiale aristocrazia guerriera dell’Impero Britannico era stata ora destinata a guardia della camionetta che procedeva in testa alla colonna e del suo carico nascosto dal telone verde cupo.

Nel vano buio del tendone oblungo del primo veicolo, chiuso sul retro da corregge di cuoio infilate in borchie d’acciaio, ed in uno spazio che forse avrebbe potuto contenerne a stento otto stavano pressati dodici uomini.

Stavano seduti sul linoleum consunto e di colore indefinito che foderava il fondo del veicolo. A intermittenza, una sciabolata di luce crepuscolare filtrava dai lembi del telone, laddove le corregge non risultavano particolarmente strette.

Da quelle aperture sbuffavano, a seconda dei movimenti del veicolo, folate di aria fresca che davano agli occupanti un effimero sollievo dalla terribile morsa del caldo-umido indiano.

Erano tutti ufficiali: un colonnello, tre maggiori, quattro capitani e altri quattro fra tenenti e sottotenenti. In grembo o calcato sul capo portavano il casco coloniale dell’artiglieria alpina o dei fanti di montagna di stanza in Africa. Alcuni cercavano di farsi vento mentre grondavano sudore per la lunga permanenza in quell’angusto spazio. Il viaggio durava oramai da sei ore buone e la loro resistenza fisica già provata dal lungo e duro spostamento dall’Africa Orientale, ove sino a pochi giorni addietro combattevano da uomini liberi, all’India, attraverso la quale viaggiavano ora privi della libertà e delle armi, iniziava a cedere.

Il capitano d’artiglieria Antonio B., avvocato trentino richiamato alle armi allo scoppio della guerra di Libia, lanciò un’occhiata al cronometro d’acciaio ch’era fortunosamente riuscito a salvare dalle continue perquisizioni. Segnava le cinque del pomeriggio. Comunicò l’orario ai colleghi. Un silenzio apatico accolse la notizia. Oramai avevano perduto il conto delle ore e dei giorni di viaggio, i crampi si facevano sentire per l’impossibilità di stendere e muovere le gambe per lunghissime ore.

Ma soprattutto… non mangiavano in buona sostanza nulla -se si eccettua del pane muffo sovente spalmato di mostarda- da svariati giorni; da quando cioè, raggiunto il porto di Bombay, erano discesi da una delle ottocentesche caravelle battenti bandiera olandese o portoghese di cui gli Inglesi si servivano per trasportare i prigionieri di guerra in India, dovendo con ciò smettere di “satollarsi” delle montagne di cipolle che gl’Inglesi avevan loro destinato come alimento principe (meglio sarebbe dire “unico”) d’una ben virtuosa dieta.

Un beffardo destino aveva voluto peraltro che a bordo del vetusto naviglio che li seguiva, i prigionieri, in un momento di lassismo delle guardie Sikh che li scortavano, fossero riusciti a gettare a mare i carcerieri e prendere il controllo dell’imbarcazione affidandola a tre ufficiali della regia Marina che facevano parte del “carico”, veleggiando verso il Giappone e la libertà.

L’ultima razione di acqua, poi, risaliva alla sera addietro, quando il convoglio s’era fermato brevemente per consentire ai prigionieri di espletare le loro necessità fisiologiche e a loro erano state gettate da un sottufficiale britannico un paio di taniche di benzina, ancora impregnate dal carburante, riempite d’acqua piovana.

Il contegno degli Ufficiali era tuttavia ammirevole. Appoggiati alla fiancata metallica della camionetta sopportavano con una sorta di montanaro, dignitoso fatalismo quanto accadeva loro.

Appartenevano a vari battaglioni della divisione alpina “Pusteria”, dislocata in Cirenaica congiuntamente alla divisione “Sirte” durante l’assedio di Tobruk. Le ondate offensive delle forze dell’Asse investivano infatti la formidabile fortezza di Tobruk oramai da svariati mesi con alterne vicende, sebbene le posizioni rimanessero piuttosto saldamente in mano ad australiani ed inglesi.

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Appena 15 giorni addietro il capitano Antonio B., Comandante la III Compagnia di artiglieria alpina, cannoneggiava con discreto successo uno dei bastioni in cemento armato dell’imponente piazzaforte. Lo sfondamento della terza linea tattica, tenuta da un reggimento di scottish guards era riuscito soddisfacentemente. Da quella breccia faceva impeto un ardito battaglione alpino della divisione “Trento”, lanciato all’assalto della seconda linea tattica frattanto vigorosamente cannoneggiata dalle batterie del capitano.

Quella che si stava rapidamente concretizzando grazie al coraggio ed alla tenacia tutti alpini di 800 “ragazzi” della “Trento” e di appena un paio di centinaia d’artiglieri della “Pusteria” prometteva d’essere, come del resto molte altre del tutto simili, una solida possibilità di sfondamento delle linee difensive degl’incrollabili bastioni cirenaici.

Ma, esattamente come molte altre, quella possibilità declinò nel copioso sangue di un mortificante nulla di fatto

La Volpe del Deserto non nutriva difatti soverchia fiducia nei reparti alleati italiani, ragione per cui le unità Regie venivano raramente supportate delle Panzerdivisionen degli Afrika Korps, cosicché le non rare volte che si raggiungeva un risultato strategicamente apprezzabile, questo veniva vanificato dalla completa mancanza di collaborazione e copertura tedesca.

Così era stato anche quella volta. Ed ogni volta all’affronto strafottente dei tedeschi ai combattenti italiani, forse mal equipaggiati, ma di certo forniti di una buona dose di ardimento, s’aggiungeva il sangue inutilmente e immeritatamente versato sotto quei crudeli contrafforti africani.

Le dieci batterie del capitano B. cannoneggiavano fitto dall’alba ed era mezzogiorno passato quando la breccia s’intravide. Subito gli alpini sfruttarono l’occasione avanzando all’ombra della pioggia di fuoco amico.

Un ufficiale di collegamento fu inviato con una staffetta al più vicino comando di raggruppamento tedesco per chiedere appoggio. Ma, nonostante una vaga promessa del maggiore che comandava il settore, in tutta la giornata nessuna unità tedesca si mosse per supportare l’attacco italiano che ben presto si tramutò in una mattanza.

Pur di non vanificare quello sforzo e quel sacrificio il capitano B., dopo esser riuscito a farsi supportare alla breccia da alcuni reparti della “Sirte” in transito, aveva giocato una carta disperata. Nella speranza di prendere tempo nelle more dell’arrivo d’un secondo battaglione della “Trento” il quale, dopo intensa trattativa col comando di settore, stava sopraggiungendo dalle retrovie, diede l’ordine di avanzare ai militi delle batterie dopo aver ridotto l’intensità del tiro concentrandolo sulla breccia.

Il“Savoia!” risuonò dunque secco sul campo e l’attacco, tragico ed epico al tempo stesso, fu sferrato. L’unico risultato, militarmente ammirevole anche se totalmente privo d’utilità, di quella manovra fu quello di riuscire ad allontanare l’inevitabile disfatta di un’altra ora e mezza in vista dell’oramai sempre più improbabile eventualità che i promessi rincalzi sopraggiungessero.

Le perdite di tutto il contingente italiano impiegato nel settore della breccia furono pari ai due terzi. Nell’assalto Alì, l’attendente libico del capitano, si prese un proiettile in fronte per far scudo al proprio ufficiale. Quando ciò che residuava dei battaglioni alpini e della compagnia artiglieri fu stretto dalla manovra controffensiva degli scozzesi, quei bravi soldati richiamati furono invitati a deporre le armi.

Si arresero a un attempato colonnello delle scottish guards che, non conoscendo una parola d’italiano, improvvisò in latino ad un sottotenente: “Quis est dux inter vos? Gratulor vobis maxime pro virtute militare vestra!”.

Fu allora che Antonio si fece avanti ancora sporco del sangue di Alì. Si portò davanti all’ufficiale superiore declinando in inglese (di cui era buon conoscitore) le proprie credenziali (grado, nome e reparto) e porgendogli la rivoltella impugnata dalla canna.

Il colonnello rispose al saluto dell’Italiano portando la mano aperta alla visiera alla maniera britannica: “My congratulations, Sir… Very soldiers, you and your men!” si congratulò restituendo ad Antonio la rivoltella dopo averla scaricata. “Very soldiers” ripetè ancora lo Scozzese tendendo stavolta la mano al capitano che gliela strinse ringraziando. “Temo che ora, Signore, inizi la parte meno piacevole della nostra conoscenza”, aveva seguitato il colonnello Mc Gould, alludendo al loro oramai sopravvenuto status di prigionieri di guerra.

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Così finiva la guerra di Antonio e degli altri suoi camerati. La guerra combattuta con le armi e lo spargimento del sangue, solo quella, perché contestualmente un’altra - a tutti loro ancora sconosciuta ma di cui, loro malgrado, avrebbero dovuto diventare prima esperti combattenti e infine consumati veterani - stava avendo inizio in quel preciso momento.

Quella guerra si sarebbe combattuta, senza pietà né esclusione di colpi, sebbene senza rivoltelle e moschetti, all’interno di ampi wings (recinti) di reticolato metallico e fra squallide baracche di legno marcio e lamiera arroventata, in un oscuro teatro lontano centinaia di migliaia di km dalla Madrepatria e dalle rovine dell’Impero italiano d’Africa, sperduto nei più obliosi recessi di un altro Impero ancor fiorente.

Le armi di quel lungo conflitto che, nelle Indie britanniche, avrebbe impegnato Antonio e gli altri per sei lentissimi anni sarebbero state impalpabili, ma certo letali per non pochi dei 130.000 tra ufficiali, sottufficiali e soldati internati in India, vecchi e nuovi amici, conoscenti, avversari e sconosciuti: la minaccia, la paura, il ricatto, la sudditanza psicologica, le restrizioni su cibo, vestiario e persino attività quotidiane e vitali come la lettura e la conversazione, la tentazione, la manipolazione delle informazioni, la speranza sapientemente dosata… e le molte altre insidie d’una vita vissuta da soldati disarmati, da “teste di cuoio” dell’anima e della mente.

Il nemico un’entità fisicamente non ben definita, ma occhiuta ed onnipresente. Non violenta (il più delle volte), ma bizantinamente crudele: il “Detentore”, che tutti impararono a odiare, molti a rispettare, pochi a beffare, pochissimi a sfidare.

L’antagonista involontario e imprevedibile: la propria coscienza di soldati e d’italiani.

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Yol… un cantonment board. Una branca oscura e periferica dell’Amministrazione Inglese delle Indie, appositamente adattata per gli “ospiti forzosi” che provenivano dagli eserciti dell’Asse RoBerTo (Roma, Berlino, Tokyo).

Una circoscrizione artificiale battezzata con un nome artefatto e sradicato dal territorio: un acronimo, null’altro che un involucro fonetico riempito nel corso della storia di due diversi significati.

Nel 1849, infatti, il British Indian Army aveva fondato in quella zona collinare in vista del massiccio dell’Himalaya una piccola cittadina militare denominata per l’appunto Yol.

Yol stava a quel tempo per “Young Officers Leave” ed in quella cittadina si provvedeva per l’appunto all’istruzione dei giovani ufficiali dell’esercito britannico delle Indie.

Con l’inizio delle ostilità della seconda guerra mondiale, Yol si era reinventata per restare al passo irruento della storia ed il suo suono esotico era divenuto ora espressione d’un diverso concetto, venato di fatalistico e lapalissiano umorismo, per i prigionieri di guerra Italiani che vi soggiornavano loro malgrado: “Your Own Location”.

Yol, la Città del Prigioniero, come qualcuno volle denominarla, divenne teatro di episodi così movimentati e singolari che nulla hanno da invidiare ad una saga piratesca. Fino agl’inizi del ‘47 quei recinti furono teatro della vita quotidiana d’uomini che si misuravano costantemente col proprio onore e la propria coscienza con alterni e più o meno apprezzabili risultati.

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Gli ufficiali italiani sfilavano ordinatamente davanti al quartiermastro (sottufficiale britannico addetto al controllo dei recinti di prigionia; ad ogni wing era preposto un quartiermastro che ne sorvegliava l’ordine) ricevendo in dotazione un resistentissimo zaino di juta verde utilizzato precedentemente dalle truppe dell’esercito britannico delle Indie nonché pochi effetti personali.

Proprio accompagnati da quello stesso indistruttibile zaino molti prigionieri avrebbero fatto ritorno in Patria negli anni dal ‘45 al ‘47.

Iniziava così per Antonio e gli altri la “vita nella vita”, la permanenza a Yol dalla quale molti sarebbero usciti vivi, ma irrimediabilmente diversi in fondo all’anima, induriti dalle cicatrici di quella “guerra bianca”, immateriale eppure violentissima come il gioco degli scacchi.

La lunga prigionia fu divisa in due fasi: la prima vedeva tutti gli ufficiali accomunati dal medesimo destino e dal medesimo trattamento determinato dalle convenzioni di Ginevra (talora applicate alquanto “liberamente” dal Detentore). Le condizioni di prigionia erano dure, ma egualitarie. Dall’8 settembre 1943, tuttavia, le cose subirono un significativo mutamento.

In seguito all’armistizio il Detentore, da nemico dichiarato e regolare, diveniva un discutibile e sibillino alleato e chi scelse di collaborare fornendo informazioni militari, pur rimanendo formalmente “POW”, ebbe diritto ad un trattamento privilegiato che dava un colpo di spugna pressoché completo ai rigori della prigionia: diritto di uscita libera dal campo e addirittura di abitazione al di fuori del perimetro dello stesso, cibo migliore, paga supplementare, etc..

Il tutto sulla “parola d’onore” di non fuggire. Un ben strano paradosso se non addirittura un’aporìa, dovettero pensare alcuni. Quanto poteva valere, infatti, la cosiddetta “parola d’onore” di chi accettasse di dare informazioni militari a un Detentore che sino al giorno prima impersonava il nemico e che, ancora in quel momento, lo teneva prigioniero, seppur chiamandolo con paternalistica condiscendenza “alleato”?

Fu allora che, esattamente come in Patria, la guerra divenne anche guerra civile e vide italiani contrapposti ad altri italiani. Coloro che scelsero la via della dignità militare e dell’onore da una parte e, dall’altra, coloro che scambiarono senza soverchie remore qualche privilegio ed un miglior tenore di vita con il proprio spirito patriottico.

Ancora una volta italiani contro italiani, seppur in una contrapposizione non sanguinosa ed estrema come in Patria; una diversità di scelte alle cui ragioni, ad onor del vero, bisogna guardare con maggiore indulgenza e umana comprensione, nonostante la morale e l’onore non lasciassero in linea di principio alcun margine di dubbio circa il da farsi.

Per vero, infatti, la scelta di molti non fu determinata da ragioni politiche o morali, quanto da ragioni eminentemente pratiche, umane e, potremmo dire, autoconservative.

La non facile prigionia sino all’8 settembre aveva comprensibilmente indebolito le menti ed i cuori dei combattenti. Il regime imposto dagli inglesi, quantunque non prevedesse, conformemente al diritto bellico, torture fisiche non lesinava i maltrattamenti morali e le vessazioni psicologiche d’ogni tipo.

Coloro che, dopo l’armistizio, confluirono nel “Campo 25” avendo deciso di non collaborare con il Detentore furono, ad alterne vicende, gravati da divieti molteplici ed assurdi: quello di portare mostrine ed insegne di grado, quello di salutare militarmente, quello di leggere senza autorizzazione, di ascoltare musica o accedere al cinematografo allestito nel campo ancora una volta senza la relativa autorizzazione.

Non pochi fra loro furono assaliti da depressione, esaurimento nervoso o follia. I più tetragoni resistettero semplicemente controllando i nervi, altri tentarono la fuga con esiti il più delle volte tragici, altri ancora scelsero il suicidio.

Antonio si salvò, com’ebbe più volte a ripetere in seguito ai familiari, oltreché per la propria ottima conoscenza dell’Inglese (fatto questo che lo portava spesso e volentieri a svolgere funzioni di traduttore nei vari campi) grazie al “dono del sonno”. Faceva parte di coloro che riescono a dormire in ogni luogo ed ogni circostanza. Grazie a questa “dote” riuscì a scivolare attraverso le interminabili ed irreali ore della prigionia, accogliendo il più delle volte con una scrollata di spalle gli alterni divieti ed autorizzazioni del Detentore che logorava la resistenza dei prigionieri col vecchio metodo della carota e del bastone.

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Mattina del 9 settembre 1943, Gruppo Campi di Yol.

La sveglia suonò mezz’ora prima del solito, alle 5 e 30 del mattino. I prigionieri di guerra italiani sfilarono all’esterno delle baracche nella nebbiolina freddo-umida dell’alba indiana, in plotoni ordinati, vestiti come meglio potevano, in fila per quattro, comandati dall’ufficiale più alto in grado di ogni baracca e preceduti dai relativi quartiermastri.

Antonio guidava il gruppo della propria baracca, composto da altri 12 ufficiali di grado inferiore. Diede l’alt al piccolo plotone presso il reticolato del wing, a fianco della precedente unità. Gli ufficiali inglesi schierati all’ingresso dei recinti di detenzione quella mattina sorridevano, presi da una particolare ed insolita gaiezza che presto avrebbe dovuto spiegarsi.

Antonio stava irrigidito sull’attenti dinnanzi al proprio plotone quando alcuni soldati inglesi, addetti al campo, transitarono trasportando alcune masserizie. Uno di loro, un giovane grasso e sudaticcio dai capelli color pannocchia, guardò Antonio e con una risata sgangherata lo chiamò: “Hey you… coffee… bring me coffee!”.

Fece con ciò schioccare le dita sotto il viso del capitano, un gesto a metà tra la provocazione e lo spiccio modo di chiamare un cameriere d’osteria. Antonio, compassato, gli fece notare che era un ufficiale, italiano ma purtuttavia un ufficiale. Per tutta risposta la soldataglia gli gridò contro “Avete tradito… traditori… avete tradito i tedeschi… avete perso! Italian traitors!”

Istantaneamente lo schieramento degli ufficiali italiani fu percorso da un fremito ed alcuni uscirono dai ranghi avanzando ostili contro i ragazzi inglesi. Questi, sentitisi minacciati, puntarono i fucili contro gli italiani. Il tempo si fermò per alcuni secondi.

Provvidenzialmente, il suono acuto del fischietto del quartiermastro ed alcuni sottufficiali della polizia militare, lanciati di corsa verso i blocchi, giunsero a riportare l’ordine.

I blocchi furono reinquadrati dai comandanti di plotone ed ora, in bell’ordine, ogni singolo plotone fermava dinnanzi ad uno spartano tavolo presso l’uscita del wing dove un ufficiale maltese poneva una scarna domanda in italiano: “Fascista pro Asse?”. Agli ufficiali era consentito rispondere soltanto sì o no. Null’altro.

A seconda della risposta il prigioniero veniva “smistato” ad un campo omogeneo. Alla fine dello smistamento i non collaborazionisti risultavano prevalentemente inseriti nei Campi 25, 26 e 27 ribattezzati “Fascist Criminal Camp” (con ciò diveniva evidente che la risposta “Sì” data al maltese, faceva transitare gli ufficiali italiani dallo status grossomodo tutelato di POW a quello infamante di “criminale di guerra”). Ma i più convinti e compatti erano quelli del Campo 25, che venne così ribattezzato “la Repubblica Fascista dell’Himalaya” per l’elevata presenza di elementi repubblichini e miliziani.

La definizione, benché suggestiva e suggellata dalla Storia, fu impropria in quanto nel Campo 25 stavano anche numerosi elementi che, pur non dando adesione politica al Regime o alla RSI, intendevano preservare il loro onore militare e la loro devozione alla Patria non essendo disposti a diventare tutt’a un tratto sodali dell’antico nemico contro il quale avevano versato il sangue in combattimento, il tutto per ossequio a determinazioni politiche che avevano tenuto in nessun conto il loro sacrificio.

Quando la cernita fu terminata, un quartiermastro si approssimò al numeroso gruppo dei “non collaborazionisti”: “Come with me, please.” disse sorridendo. I primi ufficiali fecero per avviarsi, ma subito qualcuno disse: “Non così, non come animali al pascolo!”.

Vi fu approvazione e qualcun altro domandò “Chi è il più alto in grado?” . Un colonnello dai capelli bianchi uscì dal gruppo e si mise di fronte ai prigionieri. “Signori Ufficiali… inquadramento in fila per quattro!” Quindi: “Signori Ufficiali… avanti marsch!”

Il colonnello diede la cadenza, precedendo il quartiermastro e gli inglesi di scorta che si adeguarono al passo degli Italiani, tenendo dietro al reparto che s’avviava ad essere ripartito fra i vari wings dei campi destinati ai non collaborazionisti.

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Quella sera al Campo 25 l’ordine del silenzio non fu rispettato ed un coro di voci stentoree declamava incessantemente una poesiola satirica dedicata all’amato Detentore:

T’amo, Pierino, e mite un sentimento di pena e compassione al cuor m’infondi/

O che nervoso e ratto come il vento tu trotterelli coi tuoi baffi biondi/

O che con gli occhi piccoli e giocondi mostri a chi soffre il tuo compiacimento/

Tu guardi gli stival per il fango immondi, i nostri visi scarni e sei contento.

Gli inglesi armati di ronda, cercavano affannosamente di individuare chi declamava, ma era impresa assai ardua perché, invero, erano ben pochi quelli che non si erano uniti al coro e coloro che non si erano uniti, non si astenevano per mancanza di volontà quanto perché impegnati, la destra alla bocca, a modulare sonore pernacchie d’accompagnamento.

Un ufficiale inglese intimò il silenzio col megafono. Per tutta risposta un canto virile si levò, ad una voce:

Tu non vedrai nessuna cosa al mondo maggior di Roma, maggior di Roma!”

L’Inno a Roma, le frasi di Orazio musicate da Puccini, si levarono talmente forti e risonanti che anche dai Campi 26, e 27 si unirono al canto del 25.

Quella sera, pare, si unì persino qualcuno dal quel Campo 28 che poi ben trista fama avrebbe avuto sotto la denominazione di “Cimitero degli elefanti” (successivamente avrebbe raccolto infatti solo colonnelli o generali, si diceva ignavi e proni al Detentore pur di mantenere il trattamento di riguardo che questo riservava loro in cambio d’informazioni strategiche cui l’alto grado aveva dato loro accesso).

I campi dei tedeschi presero a intonare “Lili Marlen” prima e poi un più impegnato “Alte Kameraden”.

Il blocco dei campi Yol traboccava di musica, quella sera, mentre dai Campi dei collaborazionisti s’ascoltava in silenzio.

Ascoltarono il canto, più e più volte ripetuto, levarsi al cielo, così come ascoltarono le raffiche di fucile mitragliatore reimporre il silenzio, secche. Ascoltarono, di certo piansero, forse si vergognarono.

Due capitani uccisi, ventiquattro ufficiali subalterni feriti. Questo fu il bollettino della serata canora del 9 settembre. Il giorno dopo in tutti i campi (anche quelli non collaborazionisti) non si uscì per protesta dalle baracche.

La rappresaglia britannica non tardò: spaccio chiuso, acqua interrotta, luce spenta prima dell’orario stabilito.

Così, dunque, cominciava la guerra bianca fra un detentore albionico e un detenuto italico, forse sconfitto, probabilmente diviso, ma di certo poco malleabile.

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Takegawa era arrivato una sera d’agosto. Magro e altissimo, coi capelli corvini lisci e lucidi divisi da una rigorosa scriminatura centrale, avanzava tra due guardie Sikh che lo dileggiavano in inglese. Sorrideva amabile mentre lo sfottevano e rideva: si sarebbe detto divertito. Non pareva sudare ed era impeccabilmente vestito della propria uniforme blu di ufficiale della Marina imperiale giapponese, ancora invidiabilmente marziale sebbene completamente ripulita dal Detentore di gradi, mostrine e segni d’appartenenza.

Era inusuale che un prigioniero giapponese arrivasse a Yol, questo perché gli Ufficiali nipponici, piuttosto che farsi prendere prigionieri, preferivano uccidersi praticando l’antico rituale samurai dell’harakiri con le sciabole, preservando in tal modo la propria persona dall’onta della soggezione al nemico. Ragione per cui il Campo 29, destinato alla detenzione Prigionieri Giapponesi, oltreché alla punizione e all’isolamento dei Prigionieri Italiani particolarmente “problematici”, era sempre sostanzialmente deserto.

Per Takegawa non era andata così dal momento che la sua cattura era avvenuta quando giaceva mezzo accoppato da una fucilata su un remoto campo di battaglia del Pacifico. A seguito di vicissitudini non ben definite, il giapponese era giunto a Yol, prigioniero degli Inglesi.

Takegawa entrò nella storia di Yol come il primo dei pochissimi il cui tentativo di fuga dai Campi di detenzione fu coronato da successo.

Una volta internato al Campo 29 (il “campo fantasma”, come veniva chiamato per il fatto d’esser sempre quasi vuoto) fu lasciato relativamente in pace in compagnia degli unici altri tre occupanti nipponici del recinto, tre ufficiali, anch’essi vivi solo perché la loro cattura era avvenuta mercé il loro stato d’incapacità di reazione fisica.

I tre, da quando erano giunti a Yol, s’erano sempre condotti con la silenziosa disciplina tipica di quel popolo e senza dare problemi, ragione per cui non erano sottoposti a particolari restrizioni né ad una sorveglianza acuta quanto quella destinata a Italiani e Tedeschi.

S’inchinarono ripetutamente a Takegawa quando questi ebbe declinato le proprie generalità, manifestandogli una deferenza che andava oltre la stretta questione gerarchica e che avrebbe dovuto divenir chiara solo in seguito.

Anche Takegawa s’inserì, muto, in quel quadro di ordine e understatement nipponico. Per molti mesi i quattro vissero nel loro wing attendendo umilmente alle occupazioni loro concesse: la coltivazione d’un piccolo orto e la salagione del pesce pescato in un vicino lago per conto dei carcerieri inglesi.

Takegawa era un Kaigun Daisa (Grado della Marina equivalente al Contrammiraglio) oltre che un membro d’una stirpe aristocratica piuttosto vicina alla Corte del Tenno. Per questo era trattato con molta osservanza e cerimonioso riguardo dagli altri occupanti il wing giapponese.

Dovette essere per il fremito di rinnovato orgoglio che la venuta di un prigioniero tanto importante generò negli altri ufficiali (anch’essi in forza alla Marina imperiale) che i quattro s’accordarono infine onde riscattare davanti alla nazione il loro comune destino d’infamia per essere stati catturati. Decisero di recuperare il loro onore facendolo confluire in un’unica persona che ne sarebbe stata il veicolo in Patria.

Decisero dunque che “Takegawa dono” (i tre si rivolgevano con sommo rispetto al giovane Kaigun Daisa con il predicato d’onore spettante a un nobile di alto rango e più o meno equivalente al nostro “don”) dovesse essere libero. “Takegawa dono” doveva fuggire e fare ritorno in Giappone a testimoniare al Tenno che loro, al pari dei morti sul campo, non erano e non sarebbero mai stati considerati dei disonorati.

Agirono come un sol uomo, con determinazione orientale e spirito di sacrificio, lasciando ammirati, quando lo seppero, gli alleati italiani, i Fascist Criminals del vicino Campo 25, poco inclini a quel tipo di sacrificio simbolico, ma in grado di apprezzare la perfetta virtù militare che i giapponesi mostrarono in quel frangente.

Una sera d’inverno, profittando del fatto che il buio scendeva piuttosto presto su quelle alture, attesero il passaggio della ronda di Sikh che controllava il recinto prima del Silenzio. I Sikh della guarnigione avevano costituito un florido racket di beni di contrabbando (sigarette, birra, gelati, etc.) che spacciavano a caro prezzo, ufficialmente all’insaputa degli Inglesi.

Per quanto anomalo fosse il fatto che, per la prima volta in oltre un anno, i giapponesi manifestassero di voler acquistare qualcosa sottobanco, l’avidità dei Sikh ebbe la meglio sulla prudenza. S’avvicinarono agli ampi cenni dei quattro e, non appena furono presso l’apertura del reticolato destinata all’ispezione del quartiermastro, le sottili ed apparentemente inoffensive spatole che i marinai giapponesi utilizzavano per scalcare il pesce pescato furono (mercé una clandestina affilatura effettuata con certosina pazienza pochi minuti ogni giorno per oltre un mese) facilmente e fulmineamente piantate nelle tempie dei due Sikh che s’afflosciarono in silenzio venendo disarmati attraverso l’apertura.

Poi scattò la manovra diversiva: la baracca al centro del wing fu data tosto alle fiamme da uno dei tre ufficiali subalterni mentre gli altri due prendevano a scaricare le armi dei Sikh contro le altane delle sentinelle.

Prima di essere fulminati dalle scariche di mitraglia della polizia militare accorsa in massa, i tre giapponesi portarono con sé una mezza dozzina di sentinelle. Frattanto Takegawa s’era travisato con una delle divise degl’inservienti indiani del Campo rubata pochi giorni addietro e nel parapiglia che seguì il blitz nipponico era riuscito a guadagnare l’uscita dai reticolati senza esser né riconosciuto né fermato.

Di lui non si seppe più nulla e proprio questo, il mancato ritrovamento d’un corpo, suggerì che la sua fuga avesse avuto successo. Successo che fu confermato, anni dopo, dalle ricerche che un colonnello italiano, internato al Campo 28 (il c.d. Cimitero degli Elefanti), volle fare una volta rientrato in Patria riguardo alla storia che per oltre un mese aveva galvanizzato e tenuto in fermento tutto il blocco campi e che aveva costretto il generale Laird (comandante il blocco) ad aggravare le misure di sicurezza nella città del prigioniero, senza purtuttavia riuscire ad evitare il successo di altri tentativi, stavolta artisticamente made in Italy.

Nel 1944, per citare soltanto il più celebre, il tenente della X MAS Elio Toschi riuscì ad evadere per ben due volte, travestendosi rispettivamente da soldato inglese e da inserviente indiano. La prima volta fu ferito da una pallottola della ronda Sikh appena fuori da Yol, la seconda volta ebbe maggior fortuna e, travisato da addetto alle cucine, accoppò un paio di carcerieri e raggiunse Bombay da dove s’imbarcò per Goa, possedimento portoghese (e quindi neutrale) del Pacifico. Infine, da là, fece rotta verso l’Italia.

Di un altro di questi episodi fu protagonista, nel 1944, proprio il capitano Antonio B. insieme al seniore (grado corrispondente al colonnello) della Milizia Alfonso D., ad un ufficiale di cavalleria austriaco e a due ufficiali di Marina tedeschi.

Tutti ottimi conoscitori della lingua inglese, i cinque, durante lo svolgimento dei loro compiti di traduttori ed interpreti dentro e fuori i campi, avevano avuto modo di conoscersi ed organizzare turnariamente, con pazienza e prudenza, il furto di cinque uniformi complete da ufficiali medici britannici.

Nel giorno stabilito per un’ispezione della croce rossa internazionale, di cui erano venuti fortuitamente a conoscenza origliando alcune conversazioni di ufficiali inglesi, i cinque s’incorporarono tranquillamente al codazzo di ufficiali che seguivano gli ispettori, riuscendo al momento opportuno a tagliare la corda.

Riunitisi all’esterno del blocco campi, furono però raggiunti da una squadra di motociclisti inglesi lanciati all’inseguimento dopo la scoperta dell’evasione. Durante una breve sparatoria tra le rocce e le sterpaglie della circostante campagna un tedesco fu ucciso, il capitano B. ed il seniore furono catturati, mentre l’austriaco e l’altro tedesco riuscirono a far perdere le loro tracce raggiungendo successivamente il Tibet.

Allorché fu riportato indietro e introdotto alla presenza del comandante del campo 25 per la punizione del caso, il capitano B. ebbe la sorpresa di trovarsi nientemeno che dinnanzi al colonnello Mc Gould, l’ufficiale delle Scottish guards che l’aveva catturato a Tobruk, subentrato nei giorni immediatamente precedenti al vecchio Comandante.

Sappia, capitano, che considererò un’offesa personale ed alla nostra amicizia fra gentiluomini qualsiasi vostro nuovo tentativo di lasciarci.”

Antonio gli sorrise tendendo la mano. “Vedrò quanto posso fare per non scontentare un amico che ignoravo d’avere, colonnello Mc Gould” disse ironico “A condizione, naturalmente, che il rancio sia migliorato”, soggiunse subito, stringendo ora la mano di Mc Gould che ridacchiava sotto i baffi rossastri.

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In quella fredda ed innevata mattina dell’antivigilia di natale del 1958 il dott. Antonio B., direttore generale dell’ente per il turismo della Provincia di Udine, ritoccò con cura l’elegante apparecchiatura in ceramiche veneziane e cristalli di Murano della tavola imbandita. Al posto d’onore, ad uno dei capi della tavola, collocò, in luogo del normale piatto, un vassoio di portata d’argento massicio con relativo coperchio.

Un paio d’ore più tardi un uomo asciutto e ancor scattante sull’ottantina, dagli occhi smeraldini vivi e ridenti, sedette al posto d’onore, accompagnato dalla festosa accoglienza del proprio anfitrione che gli si rivolse nella sua lingua madre, l’inglese.

Beviamo, vecchio mio… beviamo alla nostra!” disse Antonio al brigadier generale Archiebald Mc Gould sollevando un flute di prosecco veneto.

Dopo ch’ebbero brindato, Mc Gould chiese allegramente alla moglie di Antonio quali delizie avesse preparato per l’occasione, ma Rosa rispose allargando le braccia e accennando col capo al marito: “Antonio ha voluto occuparsene personalmente”.

Fu così che il padrone di casa sollevò il gran coperchio argenteo di fronte allo Scozzese mostrando un enorme e fumante goulash contornato da numerosissime cipolle intere e caramellate.

L’ospite e sua moglie mandarono un’esclamazione di ammirata meraviglia mentre Antonio spiegava ad Archiebald:

Ti ho sempre detto che prima o poi avrei dovuto ricambiare la tua ospitalità, Vecchio Amico… e con essa, beninteso, tutte le cipolle che m’hai fatto mangiare a Yol. Soltanto che, come puoi vedere, io… non essendo un vecchio, dannato spilorcio Scozzese, non vado al risparmio.”

Mc Gould scoppiò a ridere di gusto insieme all’amico Italiano. “Bene, mio Caro… mi arrendo!” risero ancora, fragorosamente e a lungo, vuotando un altro calice di Prosecco “Molto bene… lieto davvero d’essere tuo prigioniero, Tony!”.

    

Michele Baroncini, 2013

Dedicato alla memoria del mio Nonno materno, Antonio Boscarolli fu Gaetano, capitano d’artiglieria alpina, prigioniero di guerra non collaborazionista internato al Campo 25 di Yol dal 1941 al 1946, con regime aggravato di detenzione dopo l’8 settembre ‘43.

Un ringraziamento al Sig. Marchese per avermi fortuitamente offerto l’opportunità di metter su carta un’idea che da troppo tempo mi serpeggiava in mente senza forma.