"Il Signor Parolini" (quinta parte)

(di Gregorio Vella)
23/03/18

Fu in una tarda mattinata di marzo che tutto il personale civile dello Stabilimento, con brevissimo preavviso e senza che venissero fornite spiegazioni, venne convocato in sala mensa.

Una Commissione ispettiva che veniva dal Ministero e che era composta da un dirigente civile, un colonnello dell’Esercito e un segretario, si era presentata dal Direttore senza alcuna preventiva comunicazione. Avevano l’incarico di accertare, sul momento, le presenze e le assenze del personale, che per questo era stato fatto affluire in mensa. Gli ingressi erano presidiati dai Carabinieri, che avevano pure sigillato sia l’ufficio del personale che l’orologio marcatempo all’entrata dello Stabilimento. La gente veniva chiamata, uno alla volta e i dipendenti chiamati dovevano farsi identificare presentando un documento di riconoscimento, dopo di che potevano uscire e riprendere la propria attività. Tutte le assenze rilevate ed a qualsiasi titolo, dovevano essere immediatamente e formalmente motivate dall’Ufficio del personale.

Mi dicevano che era un avvenimento non tanto frequente e che l’ultima visita simile risaliva a non meno di tre anni prima, quando due dipendenti, presenti ma irreperibili, s’erano beccati la sospensione per sei mesi.

Parolini era seduto in fondo alla sala, mi fece un segno di saluto e andai a sedermi accanto a lui.

Sarebbe passata almeno un’ora, fra preliminari e chiamata in ordine alfabetico.

  • Buondì Parolini, come va? Finalmente un diversivo. Se mi consente approfitterei di questo tempo morto e se ha voglia di chiacchierare le volevo chiedere qual era il lavoro, quello che l’altro giorno aveva definito “strategico” e che le facevano fare a Lochi .

  • Bene, grazie Gregorio e buongiorno anche a lei. Mi avevano assegnato al reparto dove si faceva la fusione ed il caricamento del tritolo, nelle bombe di profondità e, soprattutto, nelle teste dei siluri.

A quei tempi la Regia Marina stava giungendo al primato di avere una delle flotte subacquee più grandi del mondo, con più di cento battelli, quasi tutti moderni e di buon livello. Quindi di siluri ne servivano parecchi; anche perché c’era da armare pure i MAS, gli aerosiluranti e parecchie Unità di superficie; faccia conto che dall’entrata in guerra nel quaranta, fino all’otto settembre del quarantatré, ne avrebbero consumati quasi quattromila ed il siluro è un arma complessa e molto delicata, oltre che costosa. Il siluro era anche un arma molto determinante, ma la sua efficacia era inversamente proporzionale alla distanza dalla quale si lanciava, non era come oggi che sono filoguidati o autocercanti. Pensi che un sacco di volte nonostante la perizia e l’ardimento degli equipaggi e con il rischio di lasciarci la pelle, il siluro lanciato da distanze brevi se ne andava per i fatti suoi e si perdeva o andava a segno ma non esplodeva.

E’ successo un sacco di volte. Malfunzionamenti, anche di componenti secondari, ma forse anche collaudi approssimativi; si sentiva dire anche di materiali difettosi o di sabotaggi negli stabilimenti di produzione. Pensi che spesso gli equipaggi dei sommergibili, sia per risparmiare siluri, visto che la dotazione per ogni missione non superava la diecina, ma anche perché non è che si fidassero dell’arma in maniera completa, spesso preferivano emergere e fare a cannonate, con il pezzo da 100 che avevano a prora.

  • Sarà così Parolini; ma forse era anche perché la scienza del controllo di qualità a quei tempi era ancora all’età della pietra. Sarebbe nata proprio in quei tempi ma in Inghilterra, con le prime carte di controllo sulle linee di montaggio degli Spitfires, quando gli inglesi, che erano incessantemente bombardati ed isolati dai tedeschi, capirono che se volevano sopravvivere non si potevano permettere di fare a meno, per difetti di fabbrica, manco di un solo aereo. Sarebbe poi stata ben sviluppata dai giapponesi, quando nel dopoguerra invasero il mondo con le radioline e tutto il loro made in Japan. Che all’inizio era di bassa qualità, ma dopo e specialmente nel materiale fotografico, elettronico e soprattutto nell’automobilistico, facendo della qualità quasi una religione, riuscirono ad imporsi commercialmente, realizzando prodotti veramente affidabili.

Il concetto è abbastanza semplice. Quello basilare è che quando si fabbrica qualsiasi cosa che un cliente comprerà, bisogna sempre avere il pensiero fisso che il cliente dovrà essere soddisfatto per i soldi che ha speso, e quindi si deve organizzare la produzione di conseguenza, controllando e certificando ogni singola fase delle lavorazioni ed estendendo il concetto anche ai fornitori dei materiali o della componentistica. Sembrerebbe una faccenda complicata, e all’inizio lo è, ma una volta a regime funziona molto bene, creando un automatismo virtuoso di costante auto-miglioramento e si tende alla condizione che non avrò più alcun bisogno del collaudo finale sul prodotto finito, perché posso dare evidenza e tracciabilità di aver controllato bene e certificato sia i materiali che ogni singola fase della lavorazione; e quindi si abbassa sempre più e fino a percentuali accettabili, la probabilità che il prodotto finito presenti dei difetti .

  • Certo, penso che abbia ragione e credo pure che in Italia su questa materia qui siamo ancora parecchio indietro, anche con tutto il nostro boom economico degli anni sessanta; forse più che altro è una questione di mentalità e di cultura, più che tecnica.

  • Sono d’accordo. Ma torniamo ai suoi siluri ed ai ricordi di Lochi.

  • Si. A quei tempi di silurifici in Italia ce n’erano tre; c’era quello della Whitehead in Istria, non mi ricordo bene se era a Pola o a Fiume; poi c’era quello della Motofides a Livorno, che c’è ancora oggi e che adesso si chiama Whitehead-Motofides ed il terzo e più grande, che oggi non c’è più ma che nel quarantatré arrivò ad impiegare quasi settemila dipendenti, era a Baia vicino Napoli. Ci sono stato quando avevo vent’anni; era uno Stabilimento enorme dalle parti dei Campi Flegrei, con annesso, all’isolotto di S. Martino, il siluripedio che a quei tempi era il più grande ed avanzato del mondo. Pensi che quando lo Stabilimento fu ingrandito, verso la piana del Fusaro, la parte vecchia con la nuova venne collegata da una galleria attrezzata sotterranea di un chilometro e mezzo, che oltre a servire da comunicazione e da eventuale rifugio antiaereo, avrebbe consentito di continuare la produzione in emergenza, anche in caso di bombardamenti.

  • Ma i silurifici non fornivano i siluri già completi, con la loro testata esplosiva?

  • Quasi mai. Con tutta la vigilanza possibile la Regia Marina non si fidava di dare l’esplosivo da caricare, anche per questioni di sicurezza. Ma era pure successo che su siluri falliti e poi recuperati, si scopriva che erano stati caricati con robaccia. Certo non erano notizie che uno trovava sui giornali, ma sulle faccende dei sabotaggi di voci ne circolavano parecchie. Così la maggior parte delle testate le caricavamo noi, nelle Officine del Munizionamento a Valdilochi. In quel reparto c’ho lavorato per quasi un anno, nel quarantuno. Se ci fossi rimasto di più sarei morto. E non è solo perché sono sopravvissuto ad un incendio e a tre esplosioni, il difficile è stato di rimanere vivo non al tritolo che scoppia, ma a quello che non scoppia.

  • Perché Parolini? Non la seguo. Da quando sono qui mi sono occupato pochissimo di esplosivi di scoppio e dei detonanti e quindi ne so poco, a parte quello che ho letto sui libri di chimica a scuola. Per adesso mi sto istruendo su quelli di lancio e sui propellenti, soprattutto sotto l’aspetto della stabilità chimica. Problema che quelli di scoppio, come il tritolo o la pentrite, mi pare che non hanno perché sono stabilissimi. Per quanto ne so, quando trovano bombe inesplose risalenti all’ultima guerra, a parte gli inneschi, le trovano quasi sempre perfettamente attive.

  • Già, io non le voglio insegnare nulla, ma il tritolo è una brutta bestia. E’ come un mostro cattivo, addormentato e che ha il sonno pesante. Gli esplosivisti lo definiscono sordo, perché per farlo esplodere lo si deve “provocare” e di solito lo si fa con una piccola quantità di un altro esplosivo, meno “sordo”, tipo il tetrile che sta nella spoletta come detonatore. Si, perché se prende a martellate una zolla di tritolo puro è difficile che succeda qualcosa; e anche se gli da fuoco, ma fino a che le temperature della massa non diventano troppo elevate, brucia adagio come la cera, facendo solamente una fiamma rossa e fuligginosa. Ma se gli si fa esplodere qualcosa dentro, si “sveglia” e si decompone istantaneamente, liberando una potenza sbalorditiva e generando un fronte di detonazione che procede a ottomila metri al secondo.

  • Significa che se avessi una stecca di tritolo lunga otto chilometri e la faccio esplodere ad una estremità, l’esplosione raggiunge l’altra estremità in un secondo? Non la voglio scocciare ma non capisco il fatto che ha detto prima, cioè che è sopravvissuto al tritolo che non scoppia.

  • Proprio così. Il tritolo si carica per fusione. Arrivava dentro ai fusti di legno, in scagliette, dagli impianti di produzione della Biazzi, che a quei tempi erano, non mi ricordo bene se a Cengio in Valbormida nel savonese o a Colleferro, dalla fabbrica della BPD; si metteva il tritolo dentro ai fusori da duecento litri, che lavoravano con una camicia di acqua calda. Il tritolo appena sopra agli 80 gradi fonde, diventando pastoso e colabile. Si aggiungeva il nitrato d’ammonio puro e la polvere d’alluminio, perché l’alluminio bruciando nell’esplosione, faceva aumentare moltissimo la temperatura e quindi prolungava l’espansione dei gas e la loro pressione distruttiva sull’obiettivo. La miscela così composta che si chiamava “tritolital” ed era destinata alle armi subacquee; veniva tenuta sotto costante e lenta agitazione con dei mescolatori meccanici e quindi colata dentro gli involucri delle teste dei siluri che prima venivano riscaldati ad una temperatura leggermente superiore a quella della miscela fusa. Le teste dopo caricate venivano messe a bagnomaria o avvolte con parecchie coperte di lana per fare avvenire il raffreddamento e quindi la solidificazione nella maniera più lenta possibile; era per evitare le criccature del materiale esplosivo, che diventando solido si contraeva. Il tutto veniva fatto in un locale segregato e che diventava una specie di bolgia infernale, per via delle esalazioni. A quei tempi non è che ci fosse tanta attenzione all’igiene del lavoro e poi il fatto di essere in guerra giustificava ampiamente anche il sacrificio della gente, che per tante ore al giorno respirava roba tossica. L’aspirazione dell’aria non era mai sufficiente, anche per non variare troppo le temperature del processo. Menomale che un anziano ci aveva insegnato l’accorgimento di respirare attraverso un doppio panno inumidito, che mi legavo dietro la nuca e fra i due panni ci mettevamo della polvere di carbone.

  • Ma certo! è il principio dell’adsorbimento con il carbone attivo. Geniale! Avevate anticipato di almeno vent’anni un ritrovato utilissimo e che oggi si usa correntemente; anche nelle cappe delle cucine.

  • Non ne sapevamo nulla ma evidentemente funzionava e ringrazio sempre chi me lo ha insegnato. Per il carbone avevo sempre la faccia nera, come quella dei i macchinisti dei treni, ma almeno sono rimasto vivo. Tanti compagni di lavoro si sono ammalati e parecchi c’hanno lasciato la pelle, anche dopo tanti anni che avevano smesso. Cominciava con la pelle che diventava gialla, poi i capelli, che prima diventavano giallo verdastri e dopo cadevano.

  • Ma certo Parolini; mi ricordo che a scuola, a chimica organica si studiava una reazione che si chiama xantoproteica. Il nome deriva dal greco xanthòs, che vuol dire giallo e la colorazione viene dalle proteine della pelle e dei capelli che reagiscono con i gruppi nitrici.

  • Ma non era solo questo. Si arrivava al punto da alterare completamente anche il senso del gusto. Qualsiasi cosa mangiavi, anche una caramella, lo sentivi amara e la sputavi. Qualcuno non riusciva più a mangiare e deperiva. Poi si ammalava il fegato, dopo i reni, ed era fatta. Ecco perché dico che era un reparto come di punizione, anche se si cercava di fare ruotare il personale il più possibile. Ma non si poteva fare a meno degli operai esperti che così venivano maggiormente sacrificati. Come se fossero a perdere. Oggi tutto questo non c’è più, fortunatamente i processi sono tutti automatici e comandati a distanza. In Italia poi non produciamo più neanche tritolo, visto che gli americani, quando se ne sono andati dopo la guerra, ce ne hanno lasciato così tanto che loro non sapevano più dove metterlo. Come sa bene il tritolo dura quasi eterno; pensi che è riutilizzabile pure quello che rimane per anni sottacqua, in fondo al mare.

  • Ma in Germania o nelle nazioni che a quei tempi erano nemiche, era uguale? Come facevano?

  • Credo che per il bene della propria Patria, suppergiù fosse la stessa cosa dappertutto. Forse tranne un po’ in America, che lì sono sempre stati un po’ avanzati in tutto. In Inghilterra mi risulta che era pure peggio. Li c’era il fenomeno delle “ragazze canarino”, che non è che le chiamassero così perché sapevano cantare. Era perché siccome questi lavori, e soprattutto durante la prima guerra mondiale, li facevano fare alle donne, visto che gli uomini erano tutti a combattere, queste ragazze si distinguevano a prima vista perché erano gialle come i canarini e parecchie pure mezze calve e con le parrucche. Si diceva che partorissero bambini che appena nati erano gialli pure loro. E poi gli inglesi oltre al tritolo, usavano parecchio anche un altro esplosivo, che era l’acido picrico e che faceva lo stesso danno, ma che forse era ancora più nocivo. Mi ricordo un particolare quasi divertente. Per andare a Lochi in Stabilimento, tutte le mattine alle sette meno un quarto partiva un trenino dalla passeggiata Morin in viale Italia, che poi si instradava sui binari di viale S. Bartolomeo. Alla partenza venivano a salutarci ed a chiacchierare con noi parecchi ex colleghi, pensionati ed anche qualcuno che da militare era in licenza; era una cosa molto bella, come se il lavoro ci accomunasse ancora e mantenesse viva una continuità e un legame di sentimenti, oltre che di amicizia. Capitava allora di vedere gli operai gialli, che parlavano del lavoro quasi sempre con i pensionati gialli.

  • PAROLINI ! C’E’ PAROLINI? – chiamò ad alta voce uno dei controllori.

  • Scusi Gregorio, devo andare che tocca a me. Ci vediamo.