Monaco 1972: L’alba del controterrorismo

(di Paolo Palumbo)
07/03/18

Nel 1970, re Hussein di Giordania giunse ad una inevitabile rottura con i palestinesi la cui presenza all’interno del Regno, era divenuta scomoda e ingombrante. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, guidata da Yasser Arafat, aveva di fatto oltrepassato i limiti trasformando il territorio giordano in una base logistica per diverse organizzazioni dedite alla guerriglia. Per di più i servizi segreti di Amman vennero a conoscenza di un piano ordito dagli stessi palestinesi per uccidere il monarca. La notizia di un possibile attentato fece infuriare Hussein il quale elesse subito un governo militare diretto dal brigadiere generale Muhammad Daud ordinando la repressione violenta di ogni nucleo di fedayn operante in Giordania. L’organizzazione di Arafat ribattezzò quel triste periodo di guerra civile in “Settembre Nero”, un nome che in breve tempo diventò sinonimo di terrore e violenza. Nell’autunno del 1971 Salah Khalaf e Sabri al-Banna, o meglio conosciuto come Abu Nidal, formarono un gruppo autonomo da al Fatah, il cui obiettivo principale era colpire il più duramente possibile sia Israele, sia i traditori giordani.

Operazione Iqrit e Biri’m’

Nel novembre 1971 alcuni membri di “Settembre Nero” si vendicarono del trattamento subito da re Hussein assassinando il primo ministro giordano Wasfi Tal durate una sua visita in Egitto. L’anno successivo la stessa organizzazione fu artefice di uno dei degli episodi più drammatici nella storia dell’aviazione civile: l’8 e il 9 maggio i terroristi dirottarono il volo Sabena 571 con 101 persone a bordo. In quell’occasione la tragedia fu scongiurata dall’intervento delle forze speciali israeliane del Sayeret Matkal che mostrarono al mondo la loro letale efficienza.

La milizia di Abu Nidal, lungi da sentirsi sconfitta, bramava di restituire il colpo ad Israele e l’occasione si presentò alle Olimpiadi di Monaco di Baviera, previste dal 26 agosto all’11 settembre del 1972. Da sempre le Olimpiadi, rappresentavano un evento importante non solo dal punto di vista sportivo, ma anche politico. La XX edizione di Monaco, ad esempio, esprimeva il riscatto di una Germania in piena ripresa, ma ancora con il morale scosso dai tragici eventi del nazismo. Riunire in nome dello sport tutte le nazioni del mondo voleva dire molto molto per i tedeschi; ciò nondimeno sul governo di Bonn gravavano forti responsabilità riguardanti la tutela dei suoi ospiti, in un periodo dove il terrorismo di stampo marxista era particolarmente attivo. Tra le nazioni partecipanti vi era anche Israele, la cui delegazione era arrivata sul suolo tedesco sebbene le garanzie di sicurezza non fossero confortanti.

Samuel Lalkin, capo della rappresentanza israeliana non era per niente tranquillo. Alcuni giorni precedenti la cerimonia di apertura, l’ex maggiore delle IDF arrivò a Monaco per valutare coi suoi occhi le misure di sorveglianza predisposte nei luoghi che avrebbero accolto gli atleti1. L’edifico al numero 31 della Connolly Strasse – prescelto per alloggiare la squadra di Tel Aviv – era accessibile a chiunque: non era previsto alcun cordone di interdizione e chiunque era in grado di entrare con relativa facilità alle stanze degli atleti. Se fosse dipeso dal giudizio di Lalkin gli israeliani avrebbero dovuto rifiutarsi di dimorare in quello stabile. Tuttavia vi era in gioco il prestigio di una giovane nazione e un veto – per quanto plausibile – sarebbe stato biasimato dal mondo intero. La squadra israeliana, contigua a quella di Hong Kong e dell’Honduras, era dunque consapevole della sua vulnerabilità: gli stessi sportivi avevano appurato come sulla Connolly Strasse vi fosse un continuo via vai di persone non autorizzate. Di queste carenze erano a conoscenza anche gli otto palestinesi di Settembre Nero i quali – grazie alla complicità di alcuni militanti della Baader-Meinhof – erano arrivati a Monaco senza destare alcun sospetto. Prendeva il via l’operazione Iqrit e Biri’m’ dal nome di due villaggi palestinesi colpiti dall’esercito israeliano. Il piano d’attacco ordito da Settembre Nero era molto semplice e prevedeva il rapimento degli atleti israeliani per poi scambiarli con oltre duecento prigionieri detenuti nelle carceri di Tel Aviv.

All’alba del 5 settembre i terroristi, camuffati da sportivi, si avvicinarono al portoncino che introduceva nelle camere del team israeliano. Per assicurarsi il fattore sorpresa, gli arabi avevano ottenuto un duplicato delle chiavi d’ingresso, ma non appena le infilarono nella serratura qualcosa andò storto. Il tentativo di forzare la porta svegliò gli occupanti: i terroristi, oramai scoperti, sfondarono l’ingresso urlando agli israeliani di non muoversi. Alcuni di loro provarono a reagire ma i palestinesi risposero aprendo il fuoco con gli AK47 e uccidendo all’istante Moshe Weinberg, l’allenatore della squadra di lotta libera, insieme ad un altro suo amico. I sopravvissuti furono malmenati e trascinati in un’altra stanza: il capo di Settembre Nero sapeva che da quel momento in poi il tempo sarebbe stato un loro prezioso alleato. Il frastuono e le urla delle persone attivò subito la polizia di Monaco che inviò sul posto circa 300 agenti i quali circondarono l’edificio. Dopo le prime ore trascorse in modo concitato, un portavoce palestinese fece pervenire alla polizia una lettera contenente i nomi di 236 detenuti da liberare in cambio della vita dei pochi israeliani. Inoltre nell’elenco figurava il nome di Kozo Kamoto, un terrorista giapponese complice nel dirottamento al volo Sabena, oltre a Ulrike Meinhof e Andreas Baader, i leader dell’omonimo gruppo carcerati nella Germania Occidentale2.

Le trattative

Il primo poliziotto a interloquire con gli arabi fu Manfred Schreiber nella duplice veste di responsabile della sicurezza del villaggio Olimpico e della polizia di Monaco. Schreiber era conscio di giocare un ruolo di secondo piano e che non poteva assumersi la responsabilità di una negoziato diretto con i terroristi3. Il poliziotto sapeva inoltre che le istanze dei palestinesi non potevano essere accolte dal suo governo, ma solo da Israele. La pretesa di rilascio per Ulrike Meinhof e Andreas Baader metteva però il governo di Willi Brandt in una situazione poco invidiabile anche perché il nodo più difficile da sbrogliare era relazionarsi con Golda Meir, determinata a non regalare nulla ai terroristi.

Nel frattempo il leader di Settembre Nero, Mohammed Mahmud Essafadi (nome di battaglia Issa, Gesù in arabo) accordò alla polizia un limite di tempo utile per liberare i detenuti; se ciò non fosse stato possibile avrebbe iniziato ad uccidere degli ostaggi. Grazie all’intercessione di Schreiber, Issa concesse una proroga di tre ore pretendendo però che la polizia federale autorizzasse il trasferimento degli israeliani dalla Connelly Strasse all’aeroporto di Monaco. Una volta giunti a Fürstenfeldbruck i terroristi volevano tre aerei pronti a decollare ad orari scaglionati verso una località ancora ignota.

L’intransigenza di Israele e la palese incapacità delle autorità tedesche a trattare con i rapitori non promettevano niente di buono e la polizia iniziò seriamente a considerare un intervento di forza per liberare gli ostaggi. L’audace azione di Settembre Nero stava, intanto, riscuotendo un’eco straordinaria in tutto il mondo: la loro impresa era già di per se un’importante vittoria poiché aveva portato alla ribalta la questione palestinese. Essafadi, da buon interprete del palcoscenico mediatico, regalò altre due ore di tempo alle autorità ridimensionando la richiesta ad un solo velivolo pronto a decollare alla volta dell’Egitto, mentre sul numero di palestinesi da liberare negò ulteriori diminuzioni4. Tutti speravano fino all’ultimo che Israele concedesse qualcosa, ma era evidente – pensò Schreiber – che nessuno tra arabi e atleti israeliani avrebbe mai lasciato la Germania.

L’attacco

Quando ormai i negoziati giunsero ad un punto morto il comandante della polizia vagliò l’unica opzione rimasta: liberare gli ostaggi con un’azione forzosa. Fino al quel momento i tedeschi si erano dimostrati pessimi intermediari e alcune soluzioni proposte per eliminare i terroristi sfioravano il ridicolo. Aaron Klein cita alcuni piani di intervento davvero grotteschi con poliziotti travestiti da cuochi, cibo avvelenato e finanche agenti non armati, ma esperti in arti marziali, infiltrati tramite i condotti dell’aria condizionata. Tutti i poliziotti sapevano come agire in un contesto semplice da pattuglia urbana, ma nessuno aveva mai sparato in condizioni critiche con la presenza di civili5. Oltre a questo, nemmeno uno tra le autorità pensò di inviare un “negoziatore” professionista capace di capire la situazione psicologica dei terroristi i quali – dato rilevante, ma trascurato – agirono sempre a volto coperto dimostrando di non aver alcuna intenzione di morire o immolarsi per la causa.

Le uniche strade percorribili da Schreiber erano quattro: la prima attaccare i terroristi dove si trovavano, penetrando all’interno dell’appartamento della Connelly Strasse, la seconda era coglierli di sorpresa durante il trasferimento verso gli elicotteri che li avrebbe portati all’aeroporto, terzo attaccarli mentre stavano salendo sugli elicotteri oppure, quarta ed ultima soluzione, tentare un’imboscata mentre si imbarcavano sugli aerei. La prima opzione fu subito esclusa, e solo la seconda e la quarta furono ritenute più ragionevoli, ma sempre con un alto grado di rischio. Scheriber e il suo aiutante Georg Wolf brancolavano nel buio: il numero dei terroristi era ancora incerto e nessuno sapeva veramente quali fossero le condizioni dei prigionieri.

All’aeroporto di Fürstenfeldbruck due squadre della polizia erano in attesa dell’arrivo del convoglio: il primo team era pronto a neutralizzare Issa e il suo vice che, secondo le congetture di Schreiber, sarebbero saliti a brodo per primi al fine di ispezionare l’aereo; la seconda, composta da cinque tiratori scelti, avrebbe agito all’esterno tenendo a bada il resto del gruppo. Un primo segno preoccupante di come sarebbero andate le cose avvenne quando la squadra di agenti incaricata di eliminare i capi del commando palestinese decise di abbandonare, motu proprio, la missione per non rischiare la vita per nulla. L’ufficiale imbarcato sull’aereo, Reinhold Reich, criticò insieme ai suoi uomini gli ordini ricevuti: tutti convenirono sugli inutili rischi che avrebbero corso se fossero rimasti a brodo del 727 e senza alcun ordine lasciarono l’aereo rifugiandosi dietro un compound vicino alla torre di controllo. La ritirata dell’ufficiale tedesco e della sua squadra era sicuramente un gesto di codardia inaccettabile, sebbene i timori palesati da Reich avessero un che di fondato. Schreiber e Wolf avevano, infatti, ordinato che il velivolo fosse rifornito al pieno di carburante: cosa sarebbe accaduto – pensò Reich – se una bomba o un proiettile vagante avesse colpito i serbatoi?

Mohammed e il suo aiutante raggiunsero per primi il velivolo della Lufthansa mentre il resto del gruppo con gli ostaggi restò in attesa vicino gli elicotteri; nessun funzionario dal posto di osservazione era in grado di capire cosa stesse accadendo sulla pista. I tiratori scelti appostati erano diventati insufficienti, poiché i terroristi da tenere sotto tiro non erano più cinque, bensì otto. In più nessuno sniper si era coordinato con i piloti di elicottero affinché atterrassero in modo da offrire loro un angolo di tiro ottimale. Infine, dato ancor più grave e sbalorditivo, gli Scharfschützen non avevano con se nemmeno una radio per comunicare tra loro6. Non appena Issa e l’altro terrorista si incamminarono in direzione dell’aereo, il comandante tedesco ordinò ai tiratori di fare fuoco su due dei terroristi che sorvegliavano gli ostaggi, ma solo un proiettile raggiunse l’obiettivo. Ai primi due colpi seguirono quelli degli altri tiratori, uno dei quali ferì il secondo di Issa. A quel punto seguirono raffiche di AK 47 e iniziò una sparatoria tra terroristi e polizia: lo scontro a fuoco con gli israeliani ancora nelle mani di Settembre Nero fu l’evento nefasto che nessuno si sarebbe aspettato. Tutti gli israeliani furono uccisi, caddero inoltre cinque terroristi e un agente.

Le conseguenze

La morte degli atleti israeliani e gli errori commessi dai tedeschi a Monaco spronarono diversi Paesi europei ad interrogarsi su quale fossero i sistemi migliori per fronteggiare la crescente minaccia del terrorismo. Cosa non aveva funzionato a Monaco? Quali erano stati i poteri e i margini di trattativa di Schreiber e quanto la politica aveva influito sulle sue decisioni? Poteva la polizia, con gli strumenti a disposizione, combattere contro dei terroristi determinati?

La polizia federale aveva senz'altro agito in modo maldestro, ciò nondimeno aveva fatto il possibile entro i limiti nei quali era consona operare di solito. Gli agenti di Monaco non avevano le competenze necessarie per calcolare tutte le variabili di un caso come quello e a dimostrarlo fu la colpevole e gravosa mancanza di intelligence nel corso di tutta l’operazione. La squadra di agenti distaccata per sorprendere Issa all’interno del Boeing 727 e poi fuggita per “scongiurare inutili rischi”, palesò una totale mancanza di “sangue freddo”. Lo stesso dicasi per i tiratori scelti i quali decisero di premere il grilletto senza alcun segnale dei loro colleghi a bordopista.

L’unico dato certo emerso dal disastro di Monaco era che se lo stesso episodio fosse capitato in qualsiasi altra capitale europea, la reazione della polizia sarebbe stata identica, o quasi. Quanto accaduto in Germania favorì dunque l’istituzione di unità di polizia specialmente dedicate alla gestione e risoluzione di situazioni ad alto rischio. Ma chi poteva istruire gli agenti ad agire in situazioni dove oltre a neutralizzare il nemico dovevi anche salvare vite umane?

All’inizio degli anni Settanta gli unici ad avere sviluppato misure efficaci contro il terrorismo erano l’Inghilterra e Israele. Gli altri Paesi pensavano ancora di affrontare contesti di guerriglia urbana implementando la presenza delle forze dell’ordine o migliorandone qualche dotazione di base. La strage Monaco provò che tutto ciò non era sufficiente. Bisognava, infatti, intervenire sulla forma mentis delle forze dell’ordine che regolava la conduzione di sequestri, dirottamenti o fatti violenti che coinvolgessero degli inermi.

Nel 1972, Londra aveva appena intrapreso la sanguinosa lotta verso i militanti dell’IRA, creando i primi nuclei operanti sotto copertura, le Mobile Reconnaissance Force. Nei primi anni Sessanta il 22° Special Air Service formò la Counter Revolutionary Warfare Wing (CRW) la quale, in origine, aveva come scopo principale la protezione di VIP le cui funzioni erano quelle di tutelare gli interessi della Gran Bretagna in ogni parte del mondo7.

Proprio l’episodio delle Olimpiadi modificò la tipologia di addestramento della CRW trasformandola in una delle unità più temibili ed efficienti al mondo8. Inoltre, lo stesso SAS divenne il punto di riferimento per la creazione di unità analoghe in Europa e finanche negli Stati Uniti dove il colonnello “Charlie” Beckwith – reduce da un’istruttiva permanenza a Hereford – gettò le basi per la costituzione della Delta Force. Francia e Germania seguirono l’esempio britannico con la creazione del GIGN (Groupe d’Intervention de la Gendarmerie Nationale) e il GSG9 (Grenzschutzgruppe 9); qualche anno più tardi anche l’Italia autorizzò la formazione del GIS (Gruppo Interventi Speciali) dei Carabinieri e del NOCS (Nucleo Operativo Centrale di Sicurezza) della Polizia.

Il GSG9

L’incompetenza della polizia della Germania Occidentale funse da capro espiatorio per spiegare il massacro di Monaco. Come sottolineato in precedenza, la scarsa preparazione degli agenti influì pesantemente sull’esito dell’intera operazione. Non appena i venti di tempesta si placarono, l’allora ministro degli interni tedesco Hans Dietrich Gencher, ordinò la costituzione di un reparto speciale capace di competere ad armi pari con i terroristi. Il 26 settembre 1972 il governo di Bonn stabilì dunque che all’interno della Polizia Federale di Confine, si addestrasse l’unità poi nota come GSG9. Al decreto di fondazione né seguì uno successivo, il 15 febbraio 1974, che ne sanciva le responsabilità operative: “al GSG9 saranno assegnate missioni particolari di polizia, particolarmente rilevanti. Essi saranno impegnati in quei casi dove le circostanze impongano una singola azione di risposta contro i criminali violenti. Questo soprattutto nei casi in cui a colpire siano le organizzazioni terroristiche”9. In altri casi il GSG9 poteva intervenire in supporto della polizia federale quando questa non era in grado di coordinare situazioni ad alto rischio10.

Al comando dell’unità fu nominato il colonnello Ulrich Wegener (foto) al quale spettò il compito di strutturare un tipo di addestramento che mescolasse insieme le tecniche di contro guerriglia a delle della normale polizia. Il comandante tedesco – che aveva trascorso anche quattro settimane di addestramento con i paracadutisti israeliani – riuscì a coniugare le due procedure poiché, come fu decretato dal governo stesso, i terroristi andavano trattati secondo una metodologia militare.

Nel 1974 il GSG9 contava circa 200 uomini con un quartier generale, tre unità da combattimento, unità di raccolta informazioni e comunicazioni, specialisti del genio, una sezione addestramento, elicotteri e settore logistico11. Malgrado la formazione teutonica s’ispirasse al SAS e ai reparti speciali israeliani, i fondamenti principali per la conduzione della guerriglia urbana provenivano dalle teorie di poliziotto brasiliano, Carlos Maringhella autore del Mini Manual do Guerrilherio Urbano nel quale sosteneva che per ottenere il massimo profitto da uno scontro in città occorreva impiegare piccole unità d’azione consistenti in non più di quattro o cinque persone. La cosa rilevante, sulla quale insistette Wegener, era l’intercambiabilità dei suoi uomini: tutti dovevano essere pronti sullo stesso livello e con le medesime conoscenze. Per questo motivo la selezione delle reclute era molto severa e avveniva esclusivamente tra gli elementi migliori della polizia confinaria (tutti dovevano avere almeno due anni e mezzo di servizio). Con il passare del tempo il team germanico sviluppò le proprie peculiarità, compreso l’impiego di armi particolari: il GSG9, ad esempio, fu il primo ad utilizzare le pistole mitragliatrici Heckler&Koch MP5, che poco tempo dopo diventò l’arma di elezione delle unità controterrorismo.

La mattanza di Monaco non fermò Settembre Nero che proseguì la sua attività criminosa per diversi anni; altri attentati e ulteriori dirottamenti avrebbero segnato la storia di molte città europee le quali, però, incominciarono a rispondere con violenta determinazione ai ricatti dei terroristi.

 

1 Aaron J. Klein, Striking Back. The 1972 Munich Olympics Massacre and Israel’s Deadly Response, New York 2005,p. 20.

2 Ibidem, p. 48.

3 F. Bolz-K.J.Dudonis-D.P.Schulz, The Counterterrorism Handbook. Tactics, Procedures, and Techniques, Boca Raton-London-New York 2012, p. 100.

4 Ibidem, p. 101.

5 Striking Back, cit., pp. 63-64.

6 L. Thompson, The Counterterrorist Manual. A Practical Guide to Elite International Units, London 2009, p. 21.

7 P. Macdonald, The SAS in Action, London 1990, p. 76

8 La prima Close Quarter Battle House, poi chiamata Killing House, fu strutturata dopo l’esperienza in Oman e il servizio di protezione al Sultano Qaboo. Nelle stanze iniziarono ad addestrarsi soldati del SAS addetti alla protezione VIP e team preparati per eventuali liberazioni di ostaggi. Al ritorno dall’Oman, gli ex responsabili del servizio di sicurezza nel sultanato iniziarono a reclutare altri colleghi per la formazione di squadre di bodyguard. Negli anni Settanta il servizio di scorta da parte degli uomini del 22° decadde e la stessa CRW Wing venne ridimensionata. La tragedia di Monaco convinse il governo britannico a dare maggiori risorse al Reggimento affinché perfezionasse un tipo di addestramento controterrorismo. T. Geraghty, Who Dares Win. The Story of the SAS 1950-1980, Tiptree Essex 1980, pp. 221-223.

9 R. Tophoven, GSG9. German Response to Terrorism, Bonn 1985, p. 11.

10 La gestione delle operazioni speciali in uno stato federale erano subordinate al governo decentrato, lo stesso valeva per unità come il GSG9 le cui azioni – dipendenti in prima istanza al Ministero degli Interni - rispondevano sempre alle autorità locali, senza sovrapporsi alla polizia del Lander. Ibidem.

11 Ibidem, p. 18.

(foto: web)