Le foibe: tra negazionismo e revisionismo

(di Carmine Savoia)
10/02/17

Il 10 febbraio ricorre il "giorno del ricordo" in memoria dell'eccidio perpetrato dalle forze jugoslave del maresciallo Tito ai danni della popolazione italiana in Istria, Venezia Giulia e Dalmazia negli anni immediatamente successivi all'armistizio italiano dell'8 settembre del 1943. Si ricorda in particolare l'efferatezza con cui Tito volle epurare da quei territori ogni traccia di italianità, portando a compimento esecuzioni sommarie ed arbitrarie, gettando migliaia di persone vive all'interno delle foibe, ovvero le cavità di origine carsica presenti in abbondanza nella regione, gole che per centinaia di metri sprofondano nelle viscere della terra e che sono divenute la tomba di molte migliaia di nostri connazionali.

Una storia, quella delle foibe, letteralmente infoibata. Ancora oggi c’è chi sminuisce i fatti e scredita i numeri, come se non fossero già bastati tutti questi anni in cui agilmente si è potuto circoscrivere la quantità delle testimonianza e delle prove. Anni in cui la politica ha ignorato il dramma dei nostri connazionali, sia quello degli infoibati che degli esuli, prediligendo talvolta all'affermazione della verità e della giustizia le proprie simpatie e vicinanze politiche a Tito. In tal senso desta stupore l'assenza delle più alte cariche dello Stato alle commemorazioni previste per la giornata odierna.

La storia, purtroppo, la scrivono i vincitori e se talvolta non bastano i muri di negazionismo per impedire alla verità di venire alla luce, si arriva ad usare l’arma della giustificazione storica per coprire i propri crimini di guerra e quelli dei propri compagni. Ebbene sì, sono ricorrenti le analisi storiche che con maliziosa faziosità tentano di ridurre l’eccidio delle foibe ad atti isolati di violenza improvvisa e quindi non premeditata, frutto del capovolgimento di fronte, attraverso i quali gli slavi hanno vendicato gli anni di “feroce occupazione” italiana, iniziata nel 1918 con la fine della prima guerra mondiale. In tal senso vengono ridimensionati i numeri, esasperato il malcontento ed il rancore slavo verso gli italiani e soprattutto viene sottolineata la politica di italianizzazione adottata dall'Italia fascista in quelle terre, cercando di addossarle tutta la responsabilità dell'eccidio, insinuando che l'annessione dell'Istria, della Venezia Giulia e della Dalmazia non avesse motivazioni storiche e di carattere irredentistico e che soprattutto vi sia stata una proporzionalità tra le azioni italiane compiute durante il governo della regione e le scorribande dei partigiani di Tito continuate poi negli anni della dominazione jugoslava.

Confutiamo innanzitutto la prima argomentazione, ovvero la favola secondo la quale la Venezia Giulia, l’Istria e la Dalmazia non si potessero considerare, nei primi anni del ‘900, come terre irredente da annettere per completare l’unificazione nazionale, alla stregua delle altre.

L’italianità di quelle terre è sancita dalla storia ed ha radici profonde che risalgono al III secolo a.C quando Roma ebbe i primi contatti con le popolazioni degli Istri e dei Liburni presenti nella regione. Seguirono nei secoli la fondazione delle colonie di Aquileia, di Tergeste (Trieste) e di Pola, lo sviluppo di importati traffici commerciali e l’arrivo della cultura, degli usi e dei costumi romani. Da questo momento in poi la storia della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia non è stata dissimile da quella delle altre regioni del nord Italia. Si sono susseguite infatti, come del resto in gran parte dell’Italia, svariate dominazioni successive alla caduta dell’Impero Romano: quella dei Goti, dei Bizantini e dei Franchi di Carlo Magno; mentre l'unica traccia slava presente in questa storia risale al Medioevo, tra il VI ed il VII secolo, e tra l'altro parliamo di una invasione. Infine, la Repubblica di Venezia governò l’Istria e la Dalmazia per ben quattro secoli fino alla sua caduta, nel 1797, quando iniziò la dominazione austriaca, dominazione condivisa con il resto dell’Italia nord-orientale.

In quest'ottica i moti risorgimentali italiani del 1848 ebbero un forte richiamo emotivo sugli italiani della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia, fomentando nei loro animi una decisa volontà politica separatistica nei confronti dell’Austria, che successivamente li portò a rivendicare l'annessione al Regno d'Italia costituitosi nel 1861.

Con la prima guerra mondiale, nonostante la "vittoria mutilata", l'Italia annesse buona parte della Regione, ad eccezione di Fiume e di quasi tutta la Dalmazia, portando a termine quello che appare come un chiaro processo di completamento dell'unità nazionale. Bisognerà aspettate il Trattato di Roma del 1924 per risolvere, invece, la questione di Fiume.

Dopo la guerra, con l'avvento dell'amministrazione italiana, si infiammano i contrasti tra le varie anime presenti nella regione, ovvero quella italiana - maggioritaria - e quelle della minoranza slava. Per confutare la seconda argomentazione, ovvero quella che asserisce che la responsabilità dell'eccidio delle foibe sia conseguenza diretta delle politiche attuate dall'Italia, addentriamoci nella storia degli ultimi anni prima delle foibe, quelli che vanno dal 1918 al 1943.

È in dubbio che l’amministrazione italiana nell’immediato dopoguerra risultò impreparata ed incapace a creare un clima di distensione tra l’Italia e le minoranze linguistiche slave. Con l’avvento del fascismo tale clima peggiorò, in quanto la stessa minoranza italiana presente in Jugoslavia, precisamente in Dalmazia, subì continue discriminazioni, che, sebbene non sfociarono mai in una violenza collettiva e sistematica, comunque comportarono un periodo di reciproche ritorsioni.

La politica attuata dal fascismo per italianizzare la regione prevedeva l’imposizione della lingua italiana all’interno delle scuole a scapito di quella slovena e croata; vennero soppresse associazioni culturali, sportive e di qualsiasi altra natura delle due minoranze. Appare evidente che tale politica, per quanto discriminatoria ed ingiusta, non abbia avuto quel carattere di violenza fisica che possa far intravedere una sorta di proporzionalità tra essa e la crudeltà della violenza sistematica perpetrata da Tito e dalle sue milizie attraverso le foibe.

Con la seconda guerra mondiale, invece, e con l’invasione della Jugoslavia da parte delle forze dell’asse nell’aprile del 1941 l’Italia incorporò ad essa buona parte della Dalmazia con le relative isole, ottenendo così il pieno controllo delle sponde del Mar Adriatico.

Dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943 giunsero nella regione le forze tedesche, le quali puntarono principalmente al controllo delle vie di comunicazione e delle infrastrutture strategiche; ciò comportò che nell’entroterra e nei territori più impervi si instaurassero le milizie partigiane jugoslave. 

Da questo momento iniziano i primi macabri rituali delle foibe: infatti nei paesi, dove i tedeschi non giunsero rapidamente, il vuoto di potere fu colmato dai “Poteri Popolari” di Tito. Si generò un clima di violenza diffusa e non furono colpiti soltanto gli ex squadristi fascisti locali, ma anche persone totalmente estranee alla politica. Una violenza dunque sommaria, arbitraria e molte volte totalmente gratuita, in cui più che un sentimento di rivalsa nazionale prevaleva l’odio razziale verso gli italiani. In tale ottica questi ultimi furono arrestati, deportati e uccisi: parliamo di appartenenti alle forze dell’ordine, rappresentati dell’amministrazione statale italiana, professionisti dell’ambito civile, medici, farmacisti e quindi essenzialmente chiunque rappresentasse, anche minimamente, l’Italia.

Ma se nel 1943 l’attività di epurazione degli italiani restò per certi versi circoscritta, è dal 1944-45 che avviene la diffusione totale di questi fenomeni. 

Quando nel mese di aprile del 1945 le forze tedesche furono definitivamente sconfitte, le regioni della Venezia Giulia e dell’Istria finirono sotto il controllo dell’esercito jugoslavo di Tito. I reparti jugoslavi giunsero a Trieste il primo maggio del 1945, anticipando le forze anglo- americane; l’esercito di Tito entrò poi a Fiume e a Pola, completando l’occupazione dell’intera Venezia Giulia. Così Tito dichiarò l’annessione dell’intera regione: iniziarono gli arresti e le deportazioni di migliaia di persone ad opera della Polizia Segreta jugoslava, ossia l’OZNA.

Finirono nell’occhio del mirino dell’ OZNA tutti coloro che potessero rappresentare un ostacolo ai piani di annessione jugoslavi. Non furono risparmiati neanche i cosiddetti partigiani bianchi, ovvero anche alcuni membri antifascisti del Comitato di Liberazione Nazionale.

In conclusione appare evidente che ogni argomentazione atta a revisionare l'eccidio, sminuendolo e giustificandone le ragioni, non abbia alcuna base storica. Purtroppo la riluttanza mostrata da certa politica italiana nel fare emergere l’eccidio e la lunga occupazione jugoslava dell’Istria e della Dalmazia non permette oggi - dopo quasi più di cinquant’anni - di avere numeri certi in merito a coloro che furono arrestati, uccisi e gettati nelle foibe. Le fonti sono discordanti tra di loro: si parla di circa 1000 morti per gli eventi del 1943, mentre per quelli del 1945 se ne stimano circa 6000, anche se non mancano le fonti che definisco le vittime totali dell’eccidio 30.000.