La solita mancanza di visione geopolitica dell'Italia

(di Tiziano Ciocchetti)
30/05/18

In queste ore si sta svolgendo a Parigi un importante vertice cui partecipano i diversi attori della situazione libica. Fortemente voluto dal presidente Macron – tanto da organizzarlo utilizzando i servizi segreti, scavalcando il ministero degli esteri -, vede la presenza dell’uomo forte di Tobruk, il generale Haftar, capo dell’autoproclamato Esercito Nazionale Libico, e Sarraj, premier di Bengasi.

Si evince chiaramente l’intento della Francia di assumere un ruolo guida nella regione, diventando il garante della pacificazione nazionale libica.

Anche l’Italia è stata invitata alla conferenza, ovviamente relegata ad un ruolo secondario, nonostante gli stretti rapporti economici con il Paese Nordafricano.

Certamente l’attuale – interminabile – crisi di governo non fa che acuire la cronica mancanza di visione dell’interesse nazionale del nostro Paese.

Nel 1911, quando è iniziato il nostro rapporto con la Libia, la politica estera italiana si dipanava tra i crescenti bisogni di un Paese appena unificato e i giochi di potere delle Potenze europee. Per non rimanere politicamente e militarmente isolata, l’Italia si era legata alla Triplice Alleanza, con la Germania guglielmina e la secolare nemica, l’Austria-Ungheria.

D’altra parte le vicende risorgimentali avevano portato il giovane regno ad una freddezza di rapporti con la Francia, mentre non poteva aspettarsi un’alleanza con l’Inghilterra, la quale l’aveva sempre elegantemente scansata.

La Nazione aveva necessità di tutto e non aveva raggiunto una vera autosufficienza in nessuno dei campi economici, incluso il settore dell’industria pesante. l’imprenditoria e le banche erano tuttavia favorevoli all’espansionismo fuori dai confini nazionali. Si investiva all’estero, nei Balcani, in Nord Africa. Si pensava con insistenza a una colonia che potesse assorbire investimenti e manodopera (esuberante soprattutto al sud). Da qui un complesso lavorio diplomatico per preparare una eventuale occupazione degli unici territori nordafricani non ancora colonizzati: la Cirenaica e la Tripolitania, che facevano parte dell’Impero Ottomano.

Che questo Impero fosse entrato in una crisi ormai irreversibile era cosa nota da tempo, anche se le Potenze europee trovavano ancora utile servirsene. Gli assegnavano una duplice funzione: dare spazio ai loro investimenti finanziari e fare da equilibratore tra le diverse aree di influenza. Tutti infatti avevano motivo di temere il vuoto politico e strategico che una dissoluzione avrebbe creato.

In Turchia le menti più illuminate tentavano di arrestare il declino ammodernando lo Stato e le sue forze armate, ma i soli modelli a disposizione erano europei, radicati in culture assai diverse da quella islamica. In realtà il mondo islamico li avrebbe potuti importare soltanto come strumenti di ammodernamento tecnico delle strutture statuali; non certamente come mezzi di sradicamento della propria cultura e delle tradizioni musulmane.

Il non aver compreso questa caratteristica di quell’antica civiltà e perciò il non essersi resi conto del sistema di valori sui quali si fondava, fu probabilmente il primo imperdonabile errore della classe politica italiana.

Il problema dell’Italia era di avere una strategia globale, che fissasse realisticamente gli obiettivi generali a lungo termine dello Stato e determinasse compiti e risorse da assegnare alle diverse componenti chiamate a realizzarli, incluse le forze armate. La guerra italo-turca sembra emblematica di una mancanza di strategia globale di ampio respiro: una gravissima carenza che purtroppo si è protratta a lungo nella storia nazionale italiana.

In realtà l’Italia – che dipendeva dagli equilibri internazionali assai più di quanto potesse condizionarli – avrebbe dovuto valutare con particolare lungimiranza le ripercussioni internazionali di una guerra contro la Turchia. Non era un mistero per nessuno che l’Impero Ottomano fosse considerato il Grande Malato e che un suo ulteriore indebolimento avrebbe avuto effetti devastanti che non convenivano a nessuno, e meno che mai all’Italia. Questo aspetto del problema fu invece trascurato rispetto ai motivi immediati. Probabilmente non ci si rese conto che l’Italia, così fragile nel contesto delle Potenze europee, avrebbe potuto provocare indirettamente un danno assai più grave di quanto fosse in grado di fare direttamente con le proprie forze. Eppure si conoscevano i nazionalismi balcanici, cariche di potenziale destabilizzante per l’intera Europa. Infatti, proprio alla vigilia della guerra, il ministro degli Esteri San Giuliano aveva lucidamente esposto al presidente del consiglio dei ministri Giolitti (foto) anche questo aspetto della situazione.

Nel luglio del 1911 si verificò la crisi di Agadir: la rivalità franco-tedesca manifestava chiaramente il rischio che tutto il Nord Africa stesse per divenire possesso delle Potenze europee. Tutto ciò allarmò Giolitti, che decise di passare all’azione occupando la Tripolitania-Cirenaica. In vista di quel momento la diplomazia italiana aveva lungamente operato negli anni precedenti, riuscendo a tessere una rete di accordi con tutte le principali Potenze europee: nel 1900 e nel 1902 con la Francia (che mirava ad avere mano libera in Marocco, e perciò era interessata a non creare problemi all’Italia); nel 1907 con l’Inghilterra (che preferiva una presenza italiana al centro del Mediterraneo al rischio di una ulteriore penetrazione della Germania); nel 1909 con la Russia (che nulla avrebbe tralasciato pur di umiliare la Turchia e arrivare alla libera navigazione degli stretti).

Giolitti non ignorava tuttavia la precarietà di questi consensi, legati più che altro a momentanee convenienze. Ritenne perciò opportuno tener segreta la preparazione per non provocare qualche passo diplomatico internazionale che, in extremis, potesse mettere il bastone fra le ruote all’iniziativa italiana.

In effetti il panorama politico era molto complesso, tanto da indurre il ministro degli Esteri San Giuliano a inviare a Giolitti, subito dopo Agadir, un promemoria segreto per illustrargli con grande chiarezza il suo punto di vista. Il documento, datato 28 luglio 1911, esaminava i seri motivi che avrebbero consigliato la pace, ma riteneva che le circostanze richiedessero nonostante tutto la guerra.

San Giuliano si rendeva conto che una eventuale sconfitta della Turchia avrebbe finito con lo scatenare l’insurrezione dei popoli balcanici interni ed esterni all’Impero Ottomano, e che un fatto del genere avrebbe quasi certamente provocato un intervento armato austriaco. Questa ipotesi, oltre ad essere temibile per l’espansione dei Vienna alla quale avrebbe inevitabilmente dato luogo, era pericolosa anche perché avrebbe offerto alla Russia una facile occasione per intervenire in favore degli slavi ortodossi.

Tuttavia, nonostante ciò, ecco le ragioni che consigliavano la guerra.

  1. C’era rischio che la Francia, una volta completato il controllo sul Marocco, lasciasse cadere quella parte dell’accordo italo-francese del 1902 che avrebbe dovuto favorire l’Italia;
  2. L’estensione dell’influenza francese rischiava di danneggiare l’Italia, paradossalmente, in ambito triplicista. Le ragioni erano sottili e alquanto arzigogolate: nell’alleanza esistevano accordi in base ai quali, se l’Austria o l’Italia avessero alterato gli equilibri balcanici, la Potenza che ne avesse ricevuto pregiudizio avrebbe avuto diritto a compensi (anche territoriali). Nel caso – non improbabile – di una iniziativa austriaca nella regione, Austria e Germania sarebbero state costrette dai patti a offrire all’Italia un compenso. A questo punto, anziché cercare spazi in area balcanica, avrebbero avuto una buona occasione per offrire all’Italia il loro consenso all’occupazione della Tripolitania e della Cirenaica. E Roma non intendeva affatto accettare. Anche per quest’ordine di motivi sarebbe dunque stato consigliabile impadronirsi al più presto delle due regioni nordafricane.
  3. L’Italia avrebbe comunque tratto un vantaggio dal successo militare e dall’ingrandimento territoriale quando, l’8 luglio 1914, si sarebbe dovuto discutere il rinnovo della Triplice Alleanza che scadeva in quella data.

La dichiarazione di guerra (valida ai sensi dello Statuto albertino anche senza l’avallo del Parlamento) fu presentata alla Turchia il 29 settembre 1911, mentre il Parlamento era in vacanza.

Con la sconfitta turca, e il conseguente ritiro dal territorio libico (pace di Losanna del 18 ottobre 1912) parve che la posizione strategica dell’Italia nel Mediterraneo fosse notevolmente rafforzata. La realtà fu sostanzialmente diversa. Occorreva innanzitutto tener conto che i francesi comandavano a Biserta e Tunisi, e che gli inglesi stavano a Malta, Cipro, Alessandria e Port Said, oltre che a Gibilterra. Perciò una prima radicale limitazione alle nostre possibilità proveniva dalla situazione geopolitica, che imponeva all’Italia rapporti di buon vicinato con almeno una delle suddette Potenze.

Tutto ciò trovava la ragione fondamentale nello stato di inferiorità economica, scientifica e tecnologica dell’Italia e delle sue strutture industriali. Senza l’attiva collaborazione della Francia e dell’Inghilterra il processo di industrializzazione dell’Italia si sarebbe fatalmente arenato e allora si sarebbe dovuto ricorrere alla Germania, con la conseguenza di una totale dipendenza. L’Italia aveva comunque bisogno di materie prime che provenivano in buona parte dall’area di mondo controllata da Francia e Inghilterra.

Certamente la flotta italiana avrebbe potuto operare efficacemente in Mediterraneo Centrale, a patto di disporre di basi adeguate che tuttavia non esistevano, ad eccezione di Taranto. I porti di Trapani, Augusta, Messina, Napoli, Tobruk e Tripoli non avrebbero potuto dare alla flotta l’appoggio logistico necessario, a meno di eseguirvi imponenti e costosi lavori di ampliamento. Ma non si prese minimamente in considerazione tale ipotesi, in quanto tutti i finanziamenti per la Marina erano finalizzati al miraggio di una potente flotta.

Per tutte queste ragioni il possesso della Libia rimase un fattore di debolezza. In quanto erano fonte regolare di preoccupazione per la necessità di assicurare i rifornimenti per la popolazione e le forze militari di stanza, le quali in caso di guerra sarebbero rimaste isolate.

Oggi che invece il controllo da parte italiana delle coste libiche è fattore imprescindibile per l’interesse nazionale, vediamo la nostra diplomazia barcamenarsi nei soliti bizantinismi, con il solo risultato di lasciare la strada aperta alla solita ingerenza transalpina.

(foto: Quirinale / Eliseo / web)