La battaglia di Tapso

(di Federico Gozzi)
09/12/17

La battaglia di Tapso fu uno scontro militare, avvenuto il 7 febbraio del 46 a.c. (secondo il calendario gregoriano), tra le legioni guidate da Caio Giulio Cesare e le restanti forze a disposizione della Repubblica Romana, dopo la sconfitta a Farsalo e l'uccisione di Pompeo.

Tapso è annoverata tra i capolavori tattici e strategici di Cesare, poiché i suoi uomini sbaragliarono completamente gli avversari, spianando quindi la strada al proprio comandante, il quale, grazie a questa vittoria, rafforzò la propria posizione politica avvicinandosi ad ottenere un potere assoluto. La successiva fuga dei repubblicani in Iberia porterà allo scontro di Munda, dove furono annientati completamente e dove Cesare ottenne il trionfo totale.

Cesare, sbarcato in Africa, avviò con la parte rivale una serie di scaramucce, per poi dirigersi e mettere sotto assedio la città di Tapso. Dapprima il dictator bloccò l'accesso meridionale alla città ereggendo tre linee fortificate. Ciò era un punto forte della sua tattica: aveva utilizzato le fortificazioni anche ad Alesia contro i galli, a Brindisi, durante l'assedio di Alessandria d'Egitto e infine contro il monarca del Ponto Farnace II a Zela.
Metello Scipione, comandante in capo delle truppe repubblicane, tentò di tagliare ogni via di uscita ai cesariani dividendo le proprie forze (rinforzate anche dalle truppe del re numido Giuba) e attestandole sull'istmo, ove si erano piazzate le legioni di Cesare, sia sull'ulteriore passo che collegava la città alla terraferma, situato a Nord-Ovest dalla posizione cesariana.

Il dictator era completamente accerchiato: ogni possibilità di ritirarsi gli era stata preclusa. Se avesse tentato di sfondare su di un lato sarebbe stato vulnerabile ai fianchi, rischiando quindi di essere sconfitto. Una situazione veramente spinosa.
Quest’ultima si rendeva ancora più grave per il conquistatore delle Gallie per via della sua inferiorità numerica: secondo diverse fonti (le più attendibili sono Plutarco e i Commentarii cesariani), Cesare disponeva di circa 10 legioni; Scipione, invece, aveva sotto il proprio comando almeno 40.000 uomini (ovvero una decina di legioni), delle unità di auxilia, le quali erano composte da elefanti, diverse unità di cavalleria (secondo alcune stime 2500), e infine i soldati numidi di Giuba. Nonostante la posizione sfavorevole e la disparità numerica nei confronti degli avversari, Cesare serbava un asso nella manica: il terreno paludoso di Tapso. Infatti, Scipione e Giuba avevano accerchiato sì Cesare, ingabbiandolo all'interno dei due istmi, ma allo stesso tempo questa mossa si era rivelata per loro come un'arma a doppio taglio, poiché furono costretti a disporre il proprio schieramento su un suolo acquitrinoso e ristretto. Il vantaggio tattico che comportava per Cesare era che il terreno riduceva la forza d'urto della cavalleria e degli elefanti, oltre che della fanteria leggera.
I cesariani quindi scesero in battaglia e si stabilirono adottando la tattica privilegiata dal loro comandante: la fanteria al centro, in modo da sostenere l'urto nemico, la cavalleria, gli arcieri e i frombolieri ai fianchi. Dietro la formazione fu posizionata la V° Legione, addestrata appositamente per combattere gli elefanti. Il vincitore di Farsalo e Alesia si posizionò sul lato destro, come sua abitudine. Secondo Plutarco, Cesare ebbe uno dei suoi attacchi epilettici, che gli impedirono di comandare e combattere durante lo scontro.
Scipione, di contro, schierò gli elefanti di fronte ai legionari avversari, e adottò anche lui lo schema classico romano: cavalleria ai fianchi e fanti al centro.

Secondo le cronache, la battaglia ebbe inizio non con un ordine diretto di Cesare ma per volontà della X° Legione, che si lanciò all'assalto nonostante i continui richiami all'ordine dei loro ufficiali. Cesare diede l'ordine di attaccare dopo la presa d'iniziativa della Decima.

Il primo pericolo immediato per i legionari cesariani era costituito dagli elefanti, che furono prontamente respinti grazie all'intervento della Quinta, la quale riuscì, tramite vari stratagemmi, come quello di lanciare sassi e fare un forte rumore, a spaventare i pachidermi e quindi a far in modo che essi fuggissero. Nella loro fuga travolsero le file dei repubblicani, i quali, assieme ai numidi, finirono in rotta. Cesare aveva vinto anche questa volta, ma la battaglia non era finita.

Nonostante la fuga dei nemici, i soldati cesariani, stanchi della lunga guerra civile e delle campagne guidate dal dictator precedentemente, non obbedirono agli ordini diretti del loro comandante di fermarsi, e quindi continuarono il loro inseguimento: fu una strage, un inaudibile bagno di sangue. Stando ai resoconti dell'epoca, i militi di Scipione subirono circa 10.000 perdite, mentre tra i legionari di Cesare morirono circa 50 uomini. Non fu risparmiato nemmeno chi presentò la resa. Nessun prigioniero.

I sopravvissuti non ebbero vita facile: molti loro comandanti, tra cui lo stesso Scipione e Catone l'Uticense, si suicidarono all'indomani dell'esito della battaglia. Altri, come Tito Labieno e i figli di Gneo Pompeo Magno, organizzarono un'ultima disperata resistenza in Spagna con i reduci della disastrosa “Campagna d'Africa”.

Nel giro di poche settimane, l'intero Nord Africa cadde nelle mani del Dictator, il quale rivolgerà la propria attenzione agli ultimi irriducibili, trionfando.

(immagine apertura: Michele Marsan)