I conflitti derivati dalla rapida disgregazione degli imperi coloniali nell’immediato dopoguerra, rappresentano ancora oggi un valido modello per comprendere gli attuali scenari bellici. Dal 1949 in avanti, l’Impero britannico subì più di tutti lo stravolgimento dei fragili equilibri politici che regolavano i suoi domini: ribellioni più o meno pacifiche imposero al Parlamento un ulteriore impegno militare in Irlanda, Indocina francese, Eritrea, Palestina, Malesia, Cina, Egitto, Oman e Aden.
La strategia britannica doveva fare i conti con situazioni molto diverse secondo i paesi in cui spediva i soldati o rafforzava guarnigioni già esistenti. Le istanze indipendentiste locali portarono ad un tipo di guerra diverso laddove i rapporti tra militari e popolazione costituivano una parte fondante per il conseguimento di risultati positivi ed efficaci a lungo termine. Per questo motivo, l’esercito britannico, ma anche quello francese, ha giocoforza gettato le fondamenta della Counterinsurgency, che implica una serie di atteggiamenti e regole utili a strappare al nemico il consenso della gente, privandolo del supporto necessario per condurre operazioni di sabotaggio. Su questo argomento, la storiografia sottolinea l’importanza del conflitto in Malesia come esempio ottimale di applicazione delle tecniche di Counterinsurgency, ciò nondimeno quanto accadde in Oman dal 1962 al 1975 offre un quadro ugualmente interessante circa la tattica impiegata dall’esercito inglese e dalle sue forze speciali.
Il Sultanato dell’Oman
Tra la Gran Bretagna e il Sultanato dell’Oman vi fu sempre un rapporto privilegiato, risalente addirittura al 1646 quando la Compagnia delle Indie Orientali tracciò per l’Impero una proficua rotta mercantile. Ufficialmente le relazioni diplomatiche si aprirono soltanto nel 1798 con un Trattato d’Amicizia sottoscritto innanzitutto in funzione antipirateria1. Le relazioni commerciali tra l’Impero e l’Oman sfociarono in un interessante scambio culturale riscontrabile nell’educazione ricevuta dai tre Sultani che dal 1913 in avanti ressero le sorti del paese: i primi due furono istruiti al Mayo College (soprannominato l’Eton dell’India) e il terzo, Qabus idn Sa’id, salito al potere nel 1970, presso l’Accademia Militare di Sundhurst2.
Il Sultanato dell’Oman rimase così sempre al primo posto tra le priorità della politica estera di Whitehall, sia per il petrolio, sia per le rotte navali che lambivano lo Stretto di Hormuz. Dal punto di vista politico però il Sultanato dell’Oman era mal governato e con la fine della guerra le cose andarono sempre peggiorando. Tra il 1954 e il 1959, ad esempio, la successione dell’Imam causò una serie di disordini (anche detta guerra dello Jebel Akhdar) sorretti da attori esterni quali l’Arabia Saudita, l’Egitto e l’Iraq che pressavano per una supremazia araba nella regione. In questo frangente l’Inghilterra interpose un contingente militare inviando lo Special Air Service, i Cameronian e i Trucial Oman Scouts (forze paramilitari formate dagli inglesi nel 1951) con l’appoggio aereo della Royal Air Force. L’arrivo dei soldati riportò l’ordine e da quel momento in poi il Sultano affidò la gestione del suo esercito a sottufficiali anglosassoni pagati a “contratto”.
I moti degli anni Cinquanta furono il prodromo per una nuova e più importante ribellione occorsa nel decennio successivo nella remota regione del Dhofar. Le motivazioni che condussero ai tumulti andavano ricercate nella forte immigrazione che spingeva gli uomini a lavorare nelle zone più ricche del golfo: qui i dofhari incontrarono le idee sul socialismo, appurando coi propri occhi l’agiatezza in cui vivevano le altre regioni3. Le condizioni di vita nel Sultanato dell’Oman erano effettivamente al limite del tollerabile poiché il sultano manteneva nella povertà e nell’ignoranza gran parte della popolazione: l’istruzione era insufficiente, in pochi sapevano leggere e ogni slancio riformista era severamente perseguitato dai militari omaniti.
Nel 1965, le tribù rivali del Sultano Said bin Taimur, si riunirono nel Dhofar Liberation Front (DLF), supportato dal vicino regime comunista della Repubblica Democratica Popolare del Sud Yemen. Il DLF aveva come obiettivi principali la destituzione del Sultano e la cessazione di ogni influenza politica e militare britannica nell’Oman. Dapprima il numero delle rappresaglie ribelli rimase abbastanza contenuto, fino al biennio 1965/66, quando si registrò un pericoloso aumento delle azioni di sabotaggio, principalmente contro le infrastrutture e i convogli petroliferi. Il 13 maggio 1966 cadde la prima vittima tra l’esercito inglese – il capitano Woodman in servizio nel reparto indigeno Northern Frontier Regiment delle Sultan Armed Forces (SAF).
Dal 1° gennaio 1968 la rivolta del Dhofar entrò nella sua fase più cruenta, conformandosi, inoltre, ai tipici conflitti della “Guerra Fredda”. La maggioranza dei membri del DLF abbracciò la causa marxista le cui istanze furono appoggiate – per puro calcolo – dal vicino Yemen e dall’Iraq. Il 12 giugno 1970 l’attacco alle installazioni militari di Izki mise i rivoltosi in una situazione di vantaggio, garantendole il controllo di alcuni giacimenti petroliferi vicini allo stretto di Hormuz. Il Sultano Sa’id fu deposto a favore del figlio Qabus idn Sa’id (Qaboo), mentre il Parlamento approvò l’invio delle forze speciali.
La strategia di Watts
Una volta giunto in Oman lo Special Air Service assunse il controllo delle operazioni militari. Il tenente colonnello John Watts – il quale aveva già maturato esperienza durante la guerra dello Jebel Akhdar - disegnò una nuova strategia che prevedeva l’utilizzo di unità miste denominate BATT o British Army Training Team. Le BATT dovevano occuparsi sia dell’addestramento di nuove forze reclutate in loco, sia del coordinamento operativo delle SAF. Come ricorda nelle sue memorie il colonnello Tony Jeapes, il luogo ove si era acquartierato il reggimento non era tra i più ospitali. L’accampamento era circondato da impervie colline – in lingua araba jebel – difficili da attraversare in qualsiasi stagione e abitate da tribù ostili che subivano la presenza delle SAF come un esercito di occupazione. “The population on the jebel – racconta Jeapes – were actively hostile, so that even if SAF managed to establish a position they would be surrounded by enemy territory”4. Le SAF erano per la maggior parte comandate da ufficiali inglesi assunti sotto contratto (non proprio mercenari) e per questo non conquistarono mai la confidenza degli indigeni. Lo stesso Jeapes intuì che per vincere la guerra nel Dhofar era indispensabile guadagnare la fiducia della popolazione, estirpandola dall’influenza negativa dei capi popolo filo marxisti. Il tenente colonnello Watts tracciò così una strategia articolata su cinque punti i quali rappresentano – in linea generale – i cardini della counterinsurgency: 1) la creazione di una cellula addetta all’Intelligence; 2) un team di informatori; 3) un supporto medico ai sanitari del SAS; 4) l’impiego di un veterinario ed infine, 5) quando possibile la formazione di unità militari che includessero i dhofari.
Le azioni dirette condotte dal SAS erano circoscritte dacché gran parte delle giornate passava istruendo le milizie Firqa arruolate in loco tra coloro che avevano rinnegato la causa eversiva: gli indigeni si rivelarono soldati poco avvezzi alla disciplina, tuttavia il loro utilizzo si concentrò in piccoli gruppi con incarichi di ricognizione. Diversamente dalla campagna malese, dove l’esercito britannico assunse un ruolo diretto alla guida della controguerriglia, nell’Oman preferì un “approccio indiretto”. Negli anni trascorsi nel Sultanato si concretò la teoria secondo la quale una forza straniera non era in grado di piegare un’insurrezione locale se non coinvolgendo direttamente le forze indigene: “As a form of intervention, the “advisory approach” implies other advantages: by putting local forces in the lead, it results in interventions that are more discreet and less politically problematic, for both the intervening force and the host-nation government”5.
Gli adoo (nemici) erano un avversario temibile ma non omogeneo. La guerriglia era ripartita tra il People Liberation Army istruito dagli yemeniti e nei paesi comunisti, affiancato da una semplice milizia locale proveniente alle tribù, il cui raggio d’azione non si spingeva mai oltre il confine dei loro rispettivi villaggi. Tra i due gruppi sussistevano delle sostanziali differenze non solo rispetto l’uso delle armi, ma soprattutto riguardo la cultura religiosa. I guerriglieri “professionisti”, formatisi all’estero all’ombra del marxismo, non professavano la stessa devozione dei capi villaggio e questo creava un’insanabile spaccatura all’interno del fronte ribelle. Gli inglesi e le truppe del Sultano sfruttarono a loro favore i dissapori tra i due gruppi, riuscendo ad separare la popolazione più osservante dai guerriglieri del PLA.
La strategia vincente del comandante Watts culminò con il successo delle operazioni Jaguar (ottobre 1971) e Simba (1972) volte a stabilire e consolidare la presenza delle SAF nel Dhofar e al confine con lo Yemen. I rivoltosi – sentendosi braccati e alla ricerca di nuovi consensi – commisero l’errore di attaccare – il 19 luglio 1972 – la piccola guarnigione di Mirbat dove ad attenderli c’erano l’esercito omanita e appena nove uomini del SAS.
Nella notte tra il 18 e 19 luglio 1972, 250 guerriglieri iniziarono ad avvicinarsi al presidio BATT di Mirbat per coglierlo di sorpresa. Fortunatamente i movimenti degli adoo furono intercettati dalla gendarmeria dhofari (comandata da un sottufficiale del SAS) che allertò subito la caserma. Malgrado il nemico avesse fallito il fattore sorpresa, i militari del SAS erano consapevoli di essere in inferiorità numerica e la loro unica speranza sarebbe stata quella di richiedere, con urgenza, l’appoggio aereo. Gli uomini del SAS contavano sul misero appoggio di 30 miliziani dell’Oman del nord e 25 gendarmi6. Nonostante fossero armati di una sola Browning cal.50, una vecchia GPMG e un cannone da 25 libbre – brandito dal gigante delle Fiji Labalaba – gli inglesi respinsero uno dopo l’altro gli assalti dei guerriglieri, fino a quando non ottennero l’appoggio aereo che cancellò definitivamente ogni speranza di conquistare il fortino. Per gli adoo la sconfitta di Mirbat segnò la fine di ogni tentativo di opposizione al governo del Sultano e per gli inglesi fu una conferma importante sulla validità del loro sistema. Essenzialmente gli inglesi avevano avuto successo per una coincidenza di fattori favorevoli quali l’avvento al trono del sultano Qaboo e l’avvio di riforme più liberali, comprendenti un sostanzioso esborso in denaro per espandere ed equipaggiare l’esercito del sultanato. Autorità civili e militari, inoltre, lavorarono in perfetta coordinazione contro una compagnie ribelle priva di una leadership carismatica e con molte divisioni interne.
Definire la campagna in Dhofar come “caso modello” ha un senso, in particolar modo rispetto l’azione militare sostenuta dal SAS: “There are both tactical and operational lessons to be learnt from this campaign, particularly about intelligence, propaganda, air support, psychological operations (psy-ops), the role of special forces, the use of coethnic troops and militias, civil aid, veterinary services, supply, embedding of expertise, division of territory, local knowledge, and operational planning”7. Dopo il Dhofar, la lezione “inglese” fu largamente esportata in tutti gli altri paesi coinvolti nelle varie guerre “per procura” combattute durante la Guerra Fredda, in primis gli Stati Uniti in Vietnam. Il SAS è stato sicuramente un interprete eccezionale di questa filosofia e continua ad esserlo ancora oggi, sebbene gli scenari odierni vedano in campo avversari molto più temibili e motivati.
(foto: web)
1 Gregory Fremont-Barnes, A History of Counterinsurgency. From Cyprus to Afghanistan, 1955 to the 21st Century, vol. 2, Praeger, Santa Barbara, California-Denver, Colorado, 2015, p. 75.
2 J. E. Peterson, Britain and “The Oman War”. An Arabian Entanglement, in “Asian Affaires, 1976, Vol. 7, Issue 3, p. 285.
3 History of Counterinsurgency, cit., p. 77.
4 Tony Jeapes, SAS: Operation Oman, London, 1980, p. 29.
5 David H. Ucko, Robert Egnell, Counterinsurgency in Crisis. Britain and the Challenges of Modern Warfare, New York, 2013, p. 156.
6 Peter Macdonald, The SAS in Action, London, 1990, p. 55.
7 Fremont-Barnes, cit. p. 90.