La mattinata del 28 Ottobre 1917 è un esempio lampante di come in guerra le sorti possano capovolgersi all’improvviso, a dispetto di qualunque precauzione si possa aver preso. Nel contesto della brillante operazione di sfondamento a Tolmino e Caporetto, con le truppe italiane in fuga e gli austro-tedeschi in rapido avanzamento, il generale Albert von Berrer rimase ucciso durante un’innocua operazione di trasferimento per l’incontro inaspettato con una pattuglia italiana.
Nelle drammatiche giornate della ritirata verso il Tagliamento, l’avvenimento suscitò non poco entusiasmo, ma le circostanze in cui questo avvenne furono oggetto di numerosi equivoci. La notizia venne comunicata al pubblico il 30 ottobre dall’agenzia Stefani, unica ad avere l’esclusiva per la diffusione dei dispacci dello Stato Maggiore, e fu in seguito ripresa dalla stampa nazionale ed estera. Già il 5 novembre il “The New York Times” titolava “German general killed”, anche se la collocazione fu erroneamente posta sul fronte orientale, per la precisione Riga. Il 18 novembre usciva invece sul Corriere della Sera, a ritrarre l’evento, una fortunata tavola illustrata di Achille Beltrame, che rimase negli anni il simbolo di quel rocambolesco colpo di fortuna. Protagonisti ne sono due carabinieri(1) ed infatti proprio la paternità dell’azione rappresentò il primo equivoco formatosi. Il merito, nel caotico “dopo Caporetto”, venne attribuito a carabinieri, bersaglieri ed anche arditi, quest’ultimi impegnati nella difesa di Udine. E sebbene il giorno seguente uscì sullo stesso Corriere un articolo in cui si riconosceva, pur con imprecisioni circa lo svolgimento dell’azione(2), il merito al sergente bersagliere Giuseppe Morini, nell’immaginario collettivo ne rimase l’Arma la protagonista indiscussa. Questo almeno finché non furono disponibili le testimonianze dei partecipanti. Il primo Dicembre il Secolo illustrato rilasciò l’intervista fatta al Morini, in quel momento convalescente all’ospedale “Fratelli bandiera” a Milano dopo essere rimasto ferito al braccio sinistro nei combattimenti fra Paludea e Travésio del 3 Novembre. Altrettanto importanti furono la testimonianza del catturato tenente von Graevenitz e le fonti di produzione tedesca, fra cui spiccano la biografia del generale von Berrer di Hanns Möller-Witten pubblicata nel 1941 e l’opera del generale Krafft von Dellmensingen Der Durchbruch am Isonzo. La notevole attenzione della stampa ben si spiega con il disfattismo imperante di quei giorni. La morte di un generale nemico, sebbene militarmente non così rilevante, rappresentò un toccasana per il morale italiano. Significava che, pur nella disfatta, si era ancora in grado di cogliere qualche successo. Per le truppe tedesche fu invece uno shock ; il generale era infatti oggetto non solo del rispetto gerargchico, ma di una vera e propria ammirazione per le sue qualità umane.
Vediamo ora come si sono svolti i fatti cominciando dalla parte tedesca.
Albert von Berrer, Classe 1857, nato a Unterkochen, Württemberg, dopo il ginnasio ad Heilbronn ed il liceo a Stoccarda segue le orme di due suoi fratelli intraprendendo la carriera militare. Si arruola volontario nel reggimento granatieri “Konigin Olga” a Stoccarda da dove uscirà promosso sottotenente nel 1876. Allo scoppio della Grande guerra è tenente generale della 31a Divisione di fanteria destinata al settore lorenese, inquadrata nel XXI Corpo della VI armata del principe ereditario Rupprecht. I primi scontri però li sosterrà sul fronte orientale, nel febbraio del 1915, durante la seconda battaglia dei laghi Masuri. Negli anni seguenti lo troviamo sempre sul fronte orientale: nel ’16 è al comando del XXI Corpo d’armata in aiuto agli austro-ungarici, impegnato a contrastare l’offensiva Brusilov, mentre nell’estate del ‘17 si distingue durante l’offensiva Karenskij, guadagnando così la Pour le Mérite, la massima onorificenza militare imperiale. Nell’ottobre dello stesso anno fa parte del corpo di spedizione germanico inviato a sostegno degli austriaci sul fronte italiano. Si tratta della XIV Armata del generale Otto von Below, composta da quattro Corpi d’armata per un totale di 6 divisioni tedesche e 8 austroungariche(3 in riserva). Von Berrer è al comando del LI° Corpo d’armata, composto dalla 26a Divisione di fanteria del Wurttemberg e dalla 200a (prussiana) divisione Jäger. A seguito dello sfondamento del fronte isontino a Tolmino e Caporetto si dirige in direzione Udine. La notte del 27 sono a San Pietro al Natisone e l’alba seguente viene occupata la frazione di Azzida. Alle 8 del mattino il generale a bordo della sua auto imbocca la strada Cividale-Udine. Lo accompagnano il suo primo aiutante, maggiore Vender, il capitano di cavalleria Boeszoermeny ed il tenente von Graevenitz. Alla guida il sergente Freitag ed il caporale Koenemann. L’Obiettivo è guidare l’avanzata sul campo, ricongiungendosi ad elementi della 26esima divisione che, stando agli ordini impartiti dovrebbero già aver occupato Udine. Von Berrer disdegnava le retrovie ed era un fautore della guerra di movimento in cui l’esercito tedesco eccelleva ed in cui finalmente poteva tornare ad esprimersi. L’intera campagna era infatti puntellata di truppe d’avanguardia che celermente, senza curarsi dei capisaldi nemici e della copertura laterale, continuavano ad avanzare, incalzando gli italiani in ritirata, impedendone la riorganizzazione. Alla luce di ciò la mancanza di una scorta è perfettamente comprensibile. Quello che però il generale ignorava era che Udine fosse ancora saldamente in mano italiana. Dov’era finita quindi la 26a divisione? A far luce interviene Von Dellmensingen, all’epoca generale del Deutsche Alpenkorps, nel suo Der Durchbruch am Isonzo. Nella marcia notturna verso Udine egli si ritrovò dietro la 26a, la quale, poco dopo Ziracco, deviò dalla strada principale (la Cividale Udine) finendo poi sperduta nella campagna,a sud del ponte san Gottardo che invece avrebbe dovuto attraversare.
Il racconto viene completato dal tenente generale Eberhard von Hofacker, all’epoca in comando della 26a. “… noi eravamo tagliati fuori da ogni collegamento con le retrovie tanto che i reparti italiani provenienti in ritirata dal Corada si dirigevano a sud di Cividale e confluivano tutti su Udine, tagliandoci la strada dietro. Ci dovevamo perciò difendere da tutte le parti a mo’ di riccio.” Urge un po’ di chiarezza. A causa del buio la divisione si perde, finendo a sud della meta prevista. Si trova a Selvis, schiacciata da un lato dal fiume Torre in piena, e dall’altro dalle stesse truppe italiane in ritirata su Udine, con cui ingaggia scontri a fuoco. Privi di collegamenti telefonici sono isolati. A complicare il tutto il reggimento Alt-Württemberg viene assalito dai numerosi prigionieri italiani che ,resisi conto delle crescenti difficoltà dei tedeschi, riprendono le armi. L’intervento dell’Olga Regiment permette ai germanici di ristabilire la situazione. Tutto questo ovviamente Von Berrer lo ignora.
Torniamo ora al nostro sfortunato generale. Lasciata Azzida, dopo Remanzacco incontra elementi del 6° Battaglione Jäger (200a divisione). Il capitano Von Blankenburg che li comanda informa il suo superiore dell’assenza, per quanto ne sappia lui, di truppe tedesche più avanti. Von Berrer non si fida e prosegue imperterrito, sa che la 26a è avanzata di notte ed ha piena fiducia nei suoi uomini, impossibile che non siano già ad Udine, anzi con un po’ di fortuna avranno anche sorpreso Cadorna a fare i bagagli(2). La sua fiducia viene in parte incrinata quando anche il colonnello Stümke del 125° reggimento fanteria, incontrato quasi contestualmente, gli confessa di non sapere dove siano finiti gli altri reparti della 26a. Von Berrer manda allora indietro a piedi il maggiore Vender con l’ordine di far confluire tutte le unità del settore su Udine. Anche se da Remanzacco all’incontro con Stümke avevano percorso solo due chilometri possiamo immaginare come l’avanzare a piedi nel terreno fangoso sia parso ingrato allo zelante maggiore. Col senno di poi avrà invece ringraziato la sua buona stella. Frattanto il generale prosegue la marcia verso il Torre, trovando però il ponte fatto saltare dagli italiani in ritirata. Nessun problema per il nostro intrepido generale che riesce a guadare con la macchina per poi reimmettersi sulla strada principale. Siamo ora alle porte di San Gottardo. La scena del guado presenta inoltre un inaspettato testimone. Si tratta del tenente Frederic Henry, alias Ernest Hemingway che nel suo A Farewell to Arms ci da questa descrizione: “Quando fui passato mi voltai a guardare. Poco più su c’era un altro ponte, e lo stava percorrendo un’automobile color fango. Le spallette erano alte e la macchina scomparve là dietro ma vidi scorrere al disopra la testa del conducente, quella dell’uomo che gli stava accanto e quelle dei due seduti dietro. Tutti portavano elmetti tedeschi. Poi l’automobile uscì dal ponte e sparì fra gli alberi e i veicoli abbandonati sulla strada.” Il ponte, che nel romanzo è rimasto in piedi a pretesto per una generosa invettiva sul caos della ritirata, viene poco dopo attraversato da un drappello di tedeschi in bicicletta. Quasi certamente parte della compagnia ciclisti di quel 6° Jäger incontrato fuori Remanzacco dal generale.
Torniamo ora alla realtà. Siamo alle porte di San Gottardo. L’epilogo è letteralmente dietro l’angolo.
Poco dopo essere entrata nell’abitato, che all’apparenza sembra deserto, la macchina si trova sbarrato il passo da militari italiani, sbucati improvvisamente dal gomito della strada. Lasciamo ora intervenire von Graevenitz che, dopo la prigionia, stilò la testimonianza riportata in H. Möller. Gli italiani sono una mezza compagnia, circa sessanta. Gli autisti sbigottiti arrestano il mezzo e gli italiani aprono il fuoco. Subito Von Berrer è colpito ad una spalla, ma il generale non perde il suo sangue freddo e grida “Tutti fuori! Mano alle pistole! Sparate!”.Gli occupanti escono ed iniziano a rispondere al fuoco, mentre gli autisti terrorizzati tentano di rimettere in moto la macchina per sganciarsi dal combattimento. Ma, per citare Sergio Leone : “Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto”. In questo caso siamo a 3 pistole contro sessanta fucili. Decisamente impari. Difatti subito il capitano Boeszoermeny, colpito, cade nel fossato. Il tenente prova a scuoterlo ma nulla da fare ; è morto. Frattanto anche il generale viene colpito a morte, ma di questo von Graevenitz, così impegnato a salvarsi la vita, non può testimoniare ocularmente. Gli autisti intanto, vista l’impossibilità di manovrare sotto la grandine di pallottole hanno abbandonato il mezzo. Von Graevenitz ,rimasto quindi da solo, si getta dietro l’automobile utilizzandola come copertura per poi correre in direzione delle case ma, senza che se ne renda conto, viene attaccato alle spalle ed immobilizzato da un soldato italiano. Ferito e prigioniero si unisce alle colonne in ritirata. I nostri autisti son invece stati più fortunati; sebbene uno sia stato ferito riescono a raggiungere Remanzacco dove informano dell’accaduto il maggiore Vender. Circa un’ora e dieci minuti dopo l’accaduto gli Jäger del 6° occupano San Gottardo, ora effettivamente disabitato. Lo spettacolo è una macchina crivellata da ben diciassette fori di proiettile ed i corpi dei due ufficiali spogliati di ogni bene, comprese le mostrine dei gradi. A completare la tragedia giungerà poco dopo il figlio ventenne del generale, il tenente dei dragoni Wanhart. Le salme saranno trasportate a Cividale ed inumate il primo novembre. Von Berrer sarà poi riesumato ed il 22 dicembre seppellito al Pragfriedhof nella sua Stoccarda con una cerimonia in pompa magna a cui presenziò il re Guglielmo II del Württemberg (3).
Note
1) La scelta di ritrarre i carabinieri può essere spiegata con la volontà propagandistica di tener alta l’immagine dell’Arma, incrinata dalla repressione degli scioperi e, soprattutto, dall’esecuzione delle sentenze dei tribunali militari.
2) L’orario è anticipato, fra le 5 e le 6 del mattino. L’azione si svolge poi da un’angolazione diversa ; invece di sbarrarne il passo il Morini fa fuoco da tergo contro la vettura. Ciò che perplime di questa versione è il perché la macchina non abbia semplicemente accelerato per sganciarsi.
3) Ad Udine risiedette il Comando Supremo del Regio Esercito fino al 27 Ottobre del 1917 quando si trasferì a Padova . Cadorna partì invece alle 15.30 per Treviso, di modo da essere più vicino alle operazioni in corso.
4) Sebbene parte del Deutsches Reich dal 1871 il Württemberg mantenne il suo monarca anche se privo di qualunque potere sovrano. A seguito della sconfitta tedesca abdicò, come il suo Kaiser, nel Novembre 1918.
VERSIONE ITALIANA
Dopo la versione di von Graevenitz ci confrontiamo adesso con quella dell’altro protagonista di questa vicenda: il sergente Giuseppe Morini. Vedremo infatti che per alcuni aspetti esse differiscono.
Giuseppe Morini nasce a Civitavecchia il 23 Marzo del 1891. Bersagliere già nella chiamata di leva, rimane poi nei fanti piumati. I fatti lo trovano sergente nel III Battaglione bersaglieri ciclisti. I reparti ciclisti erano in tutti gli eserciti truppe scelte, capaci di grande mobilità al pari della cavalleria, ma di minor vulnerabilità e costo di mantenimento (i cavalli costano e magnano N.d.A.). Dopo lo sfondamento tedesco furono sempre in prima linea nel contrastare le avanguardie germaniche per permettere agli sbandati ed ai numerosi civili in fuga di ripiegare oltre il Tagliamento e poi fino al Piave(4). Le battaglie della ritirata sono state, fino a pochi anni orsono e con alcune eccezioni, sempre relegate se non taciute dalla storiografia ufficiale. Fra quel vergognoso “prima” – Caporetto - e l’eroico “dopo” – Piave - sembra esserci solo una caotica ed ignominiosa fuga. L’epos invece sta nel mezzo. Sta nelle decine di schermaglie, piccoli contrattacchi ed ostinate difese messi in atto per lo più senza coordinazione, a livello degli ufficiali più bassi, per la sola volontà di non cedere terreno patrio. Se queste battaglie non ci fossero state è impensabile credere che la ritirata avrebbe avuto successo; la Terza Armata sarebbe stata schiacciata ben prima di arrivare al Tagliamento e immaginare dopo un Piave sarebbe stata pura fantascienza. Citarle tutte è difficile, ma oltre l’eroico sacrificio del Genova cavalleria e del lanceri di Novara a Pozzuolo del Friuli (la Balaklava italiana N.d.A.) (5)meritano menzione la difesa di Udine, la difesa del Monte di Ragogna e quella di Monte Festa. I bersaglieri ciclisti, al pari degli arditi si prestavano perfettamente a questi ruoli di contenimento.
L’alba del 25 vede quindi partire il III Battaglione alla volta di San Vito al Tagliamento, dalla base di Cassola. Arrivati a destinazione nel tardo pomeriggio del 27, passano alle dipendenze della 22divisione di cavalleria. Il nuovo obiettivo assegnatogli è di perlustrare l’arteria Cividale-Udine, per rendersi conto delle mosse effettive dei tedeschi, la cui direttrice d’avanzata è perlopiù ignota al comando superiore. Anche in questo l’incontro con il nemico è causato da un equivoco. Appena usciti da Udine i ciclisti si imbattono in un insolito quartetto: due generali italiani che con alcuni artiglieri tentano di posizionare un cannone. Gli alti ufficiali assicurano al comandante del reparto, maggiore Carlo Tosti, che poco più avanti truppe italiane hanno allestito una provvisoria linea difensiva. Rincuorati dalla notizia e convinti di star dirigendosi verso truppe amiche i bersaglieri mantengono la disposizione di marcia. Giunti però in prossimità di San Gottardo la compagnia di testa è sottoposta al fuoco di fucileria di una pattuglia tedesca nascosta in una casa. I ciclisti abbandonano i mezzi ed assumono le disposizioni d’attacco, ma nel momentaneo caos della sorpresa (e della caduta dalle biciclette N.d.A.) il comandante dell’avanguardia viene catturato. Il capitano Del Re si era infatti spinto in avanti per prendere contatto con le linee italiane e perciò nel momento dell’attacco si trova momentaneamente isolato dai suoi uomini. I tedeschi ne approfittano fulmineamente e catturano l’ufficiale. Gli italiani tentano di rispondere al fuoco, ma il nemico, in inferiorità numerica, decide di abbandonare lo scontro. Preso dunque atto della presenza di avanguardie nemiche, il secondo in carica il tenente Mari dispone i suoi uomini in schieramento difensivo, ordinando al sergente Morini di posizionarsi poco più avanti, in corrispondenza della curva stradale, di modo da controllare chiunque fosse arrivato da Est. Morini è in compagnia del caporale Schiesari e di tre altri bersaglieri che fa schierare protetti in una casa, di modo da avere un’amplia visuale dell’area circostante. Egli invece scende in strada a sorvegliare l’ingresso dell’improvvisato caposaldo. Sono circa le 8 del mattino, il generale von Berrer sta partendo da Azzida proprio ora. Trascorsi circa trenta minuti Morini scorge una macchina arrivare dalla Cividale. La prima impressione del sergente è che siano ufficiali alleati; sta anche per fare il saluto militare quando si accorge che a sventolare sul cofano non sono né l’Union Jack o il Tricolore, ma gli inconfondibili colori della Reichskriegsflagge. Due secondi, il tempo sufficiente per riaversi dalla sorpresa, ed il sergente si piazza in mezzo alla strada puntando il fucile mentre grida ai suoi di scendere in strada. Mentre la vettura tenta un’inversione il’91 del Morini esplode tre colpi. La macchina è ferma; ne fuoriescono gli chaufferurs mentre un ufficiale, pistola alla mano, fa fuoco contro il giovane bersagliere. Inizia fra i due un vivace scambio di pallottole finché il Morini, ventre a terra, si trova a dover ricaricare. L’altro ne approfitta per sganciarsi dallo scontro e scompare dietro un casolare. Sostituito il caricatore il bersagliere indirizza un paio di colpi agli unici bersagli ancora in vista; i due autisti. Uno cade a terra ma, seppur ferito, si rialza e prosegue la fuga. Rimane l’ufficiale. Lo trova nascosto e tendente al panico dietro lo spigolo di una latrina. La vista dell’italiano ha però un effetto rinvigorente sul tedesco; la paura scompare lasciando il posto all’ira. Dopo un colpo esploso a vuoto inizia un violento corpo a corpo che vede il bersagliere disarmare e poi immobilizzare il suo avversario. A questo punto sono sopraggiunti i rinforzi ed è allora, perlustrando la macchina, che gli italiani si avvedono di un altro occupante, ben più prezioso dell’appena catturato tenente von Graevenitz. Un uomo anziano ed impeccabile nell’uniforme imperiale restituisce ai curiosi uno sguardo spento e vitreo, mentre il sangue già inizia a coagularsi dalla ferita in fronte. I documenti subito ne restituiscono l’identità, ma la sorpresa degli italiani è ancora maggiore quando nelle tasche del pastrano del generale trovano le carte in cui sono segnate le direttrici d’attacco delle colonne austro-tedesche. È interessante notare come in quest’ultime il limite per le avanguardie tedesche sia rappresentato dal fiume Tagliamento, non dal Piave; ciò conferma che la portata degli obiettivi fosse più ridotta e proprio questa sottostima dell’efficacia dell’operazione è da considerarsi come concausa del mancato annientamento delle forze italiane. Si può dire che Caporetto stupì entrambi. Gli uni paralizzati da uno sfondamento senza precedenti e gli altri dal loro stesso rapido avanzamento. Ciò è pacifico se si considera che la guerra di posizione aveva abituato entrambi i belligeranti a misurare i successi in pochi chilometri, talvolta persino in metri; di certo non 150 chilometri in meno di tre settimane.
Una volta spogliati i cadaveri dei loro averi i bersaglieri consegnano in custodia il prigioniero ad un vicino comando di carabinieri. Saranno loro i primi ad informare lo Stato Maggiore di quanto avvenuto. Ed è lecito supporre che proprio per questo ne verranno considerati i primi responsabili. Intanto la macchina abbandonata è ancora fonte di guai. Constatatone l’ottimo stato, il capitano Prina ne prende possesso ma, fatti pochi metri si imbatte in un gruppo di commilitoni che, vedendo le insegne nemiche, aprono il fuoco su di lui. La vettura finisce fuoristrada ed è definitivamente kaputt; possiamo solo immaginare la caterva di improperi che l’illeso capitano avrà riservato ai suoi sottoposti. Alla scena tragicomica assiste anche il tenente prigioniero, ma la distanza gli impedisce di vedere chiaramente lo svolgimento; difatti nella sua testimonianza ricondurrà lo sbandamento all’imperizia del guidatore. Capacità alla guida a parte, sono ben altri i punti su cui la dichiarazione di von Graevenitz si discosta da quella del Morini. Innanzitutto il numero di soldati italiani: solo se stesso per il bersagliere, ben 60 secondo il tenente. Nella versione italiana manca poi il riferimento al capitano Boeszoermeny e la morte del generale sembra essere avvenuta in due momenti successivi: sul colpo in un caso, dopo una prima ferita nell’altro.
Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza. Della morte di Boeszoermeny non possono esserci dubbi, vista la sua tomba nel cimitero di Cividale, accanto a quella del suo superiore. I casi sono due: o Morini omette l’episodio non considerandolo rilevante, oppure tenendo conto della pioggia battente e della concitazione del combattimento, non se n’è semplicemente reso conto. Lo stesso von Graevenitz ci dice poi che il corpo del capitano cadde in un fossato ed allora è plausibile ritenere che gli italiani non l’abbiano notato. Tenendo conto che a breve ripiegheranno su Udine, non li si può certo biasimare per la scarsa investigazione. Anche le ferite del generale non paiono in realtà problematiche. Egli può benissimo essere stato ferito prima ed aver avuto ancora il tempo di gridare gli ordini prima di essere colpito a morte. Di certo il Morini, trovandoselo con una ferita in fronte in perfetta vista non si sarà certo messo a fare l’autopsia del paziente. Il numero dei soldati presenti rappresenta invece l’elemento più vistosamente difforme.
Possiamo subito dire che la versione tedesca presenta alcune perplessità. Il numero di colpi riportati dalla macchina appare ridicolamente basso. Solo diciassette fori, per stessa ammissione tedesca, a cui vanno poi sommati i colpi di fuoco amico ricevuti dal capitano Prani. Ora, diventa difficile credere che sessanta uomini che sparino su di una macchina ferma a pochi passi di distanza siano così imprecisi. Risulta altresì inverosimile che sotto un tale fuoco qualcuno degli occupanti ne sia uscito vivo. Da ultimo, la stessa disposizione della compagnia che, stando alle fonti italiane, risulta schierata in profondità di qualche centinaio di metri con Morini come punta avanzata. Questo schieramento è tatticamente più credibile di un ammasso di uomini fra le strade di San Gottardo. Per queste ragioni la versione del bersagliere appare più realistica.
Sul perché von Graevenitz abbia testimoniato diversamente possiamo solo avanzare ipotesi: la prima è per salvaguardare l’onore del militare, che certo preferisce raccontare di essere stato sopraffatto in uno scontro impari; la seconda, a mio avviso preferibile, è che la testimonianza risenta del tempo e della mancanza di visione d’insieme al momento dei fatti. Egli, a differenza del Morini, rese la sua alcuni anni dopo la fine della guerra e non è difficile ritenere che nella concitazione degli eventi abbia creduto di trovarsi di fronte un numero maggiore di avversari; gli stessi che al momento della sua cattura erano ormai sopraggiunti sul posto.
Note
4) Furono circa 300.000 gli sbandati e 400.000 i profughi.
5)La Battaglia di Balacklava si svolse il svolse il 25 Ottobre 1854, nell’ambito della guerra di Crimea. L’episodio che la rese celebre fu The Charge of the Light Brigade in cui la cavalleria inglese caricò frontalmente l’artiglieria russa. Il termine viene qui usato come sinonimo di carica di cavalleria eroica e suicida.
Bibliografia:
Gaspari Paolo La battaglia dei capitani 2005 Gaspari editore.
Seccia Giorgio Udine,28 Ottobre 1917 .Da pagina 38-45 del periodico mensile Storia Militare, volume n. 223 di Aprile 2012 edito da Albertelli Edizioni Speciali S.r.l.
Archivio storico Corriere della Sera. Articolo 19 Novembre 1917.
(foto: web)