1991: Il golpe che (non) cambiò la Storia

(di Andrea Gaspardo)
19/08/21

Una citazione di incerta attribuzione, ma spesse volte sovra utilizzata nei contesti storici più disparati, afferma che: “Ci sono momenti che fanno la Storia; altri la cambiano per sempre”. In quest'ottica, il tentativo di colpo di stato avvenuto in Unione Sovietica tra il 19 ed il 22 Agosto del 1991, merita senza dubbio di essere annoverato tra questi.

In realtà bisogna dire da subito che il “Colpo di stato di Agosto”, come viene chiamato nella storiografia ufficiale della Russia contemporanea, non ha affatto cambiato la Storia dato che, di per sé, fu un evento “inutile”. Contrariamente alle ipotesi fatte da alcuni storici, analisti ed opinionisti vari in merito a fantasiosi scenari rispetto ai quali il “golpe di Agosto” avrebbe potuto riuscire nel suo intento di preservare l'Unione Sovietica, l'autore della presente analisi non può che dissentire nella maniera più profonda.

L'Unione Sovietica era condannata dal 1964, da quando l'allora leader Leonid Ilych Brezhnev defenestrò il suo predecessore Nikita Sergeevič Khruščëv annullandone molte delle riforme ed imponendo al suo vastissimo “impero” l'insostenibile “purga” della “Stagnazione Brezhneviana”. Tale periodo di regresso economico, politico ed intellettuale erose a tal punto i fondamenti sui quali si basava lo stato che, quando dopo la morte in rapida successione di gran parte degli uomini della cosiddetta “vecchia guardia”, nella prima metà degli anni '80, il potere passò all'allora cinquantaquattrenne Mikhail Sergeevič Gorbačëv, la situazione era già obiettivamente compromessa pressoché da ogni punto di vista.

Uomo relativamente giovane ed energico, Gorbačëv tentò nondimeno di cambiare il corso degli eventi imbarcando lo stato sovietico in un titanico programma di riforme che avrebbero dovuto allo stesso tempo cambiare, modernizzare e dare continuità al sistema. Le sei parole chiave che racchiudevano tale programma erano:

Khozrasčët (“contabilità economica”): introduzione dei concetti di trasparenza contabile e profitto nella gestione economica delle imprese;

- Demokratizatsiya (“democratizzazione”): democratizzazione all'interno di un sistema che comunque doveva rimanere monopartitico;

- Novoe Mishlyeniye (“nuova idea politica”): una nuova visione delle teorie politiche che garantisse la convivenza a livello globale dei diversi blocchi e che allo stesso tempo rinnovasse l'ideale socialista/comunista nell'Unione Sovietica;

- Uskorenie (“accelerazione”): massiccia espansione della spesa pubblica per sostenere i settori dell'economia sovietica più svantaggiati;

- Glasnost (“trasparenza/apertura”): allentamento della censura di stato e promozione della libertà d'informazione e di espressione;

- Perestroika (“ricostruzione”): completa riforma sia a livello strettamente economico che a livello istituzionale del sistema socialista/comunista dell'Unione Sovietica per farlo entrare nel “Nuovo Millennio”.

Non è questa la sede per esaminare in dettaglio gli aspetti delle riforme gorbacioviane né le ragioni che, da ultimo, portarono al loro fallimento, tuttavia è necessario ricordare che esse misero in moto da subito una serie di “sommovimenti tettonici” che destabilizzarono ulteriormente un sistema che, come sopra citato, era già in fase terminale. Ciò non poteva non allarmare da subito tutti quei settori più conservatori ed oltranzisti che avevano invece come primo punto della propria agenda la preservazione del sistema così com'era stato fino a quel momento.

Le cosiddette “forze reazionarie” iniziarono a mobilitarsi già agli inizi del 1988, quando il conflitto del Nagorno-Karabakh iniziò drammaticamente a riesplodere dopo essere rimasto latente per un periodo di oltre sessantacinque anni. Nei tre anni successivi, non meno di 19 conflitti a sfondo etnico scoppiarono a catena in diverse aree dell'impero senza che l'apparato repressivo sovietico e la dirigenza di Mosca, sempre più disorientata, riuscissero a contenere le spinte nazionaliste.

Nel frattempo, la Caduta del Muro di Berlino (novembre 1989), la Riunificazione della due Germanie (1990) e lo scioglimento del Patto di Varsavia, fecero cadere uno dopo l'altro come birilli tutti i regimi comunisti dell'Europa Orientale privando così l'Unione Sovietica della cintura di stati satelliti che essa aveva costituito alla fine della Seconda Guerra Mondiale e che era stata fino a quel momento considerata indispensabile per poter mantenere la sicurezza geostrategica dell'impero sovietico.

Sul fronte economico, la situazione dell'URSS era, se possibile, ancora più disperata. Dopo il picco toccato nel 1988 (quando raggiunse i 2 trilioni e 660 miliardi di dollari di allora di PIL, seconda economia al mondo sia a livello nominale che a parità di potere d'acquisto), l'economia sovietica entrò in una fase di crisi prolungata dovuta tanto a fattori interni quanto esterni.

Nel 1991, quando la crisi raggiunse il suo picco, la scarsità di cibo, di medicinali e di altri beni di prima necessità era registrata ampiamente su tutto il territorio dell'Unione, la gente doveva aspettare per lunghe ore in fila indiana per acquistare quantità sempre più limitate di beni essenziali, le riserve di carburante potevano soddisfare solamente il 50% della domanda interna, l'inflazione aveva raggiunto la “fantastica” cifra del 300% e le fabbriche erano disperatamente alla ricerca di valuta forte per poter pagare gli stipendi di operai ed impiegati.

Per cercare ad un tempo di rilanciare il suo programma di riforme, mobilitare il sostegno popolare e contenere le spinte nazionaliste e centrifughe, Gorbačëv chiamò a raccolta gli elettori del suo paese il 17 di Marzo del 1991 al fine di approvare un “referendum sul futuro dell'Unione Sovietica” sulla base di un “Nuovo Trattato dell'Unione” che prevedeva la trasformazione dell'URSS in una “Unione di Stati Sovrani”. Sebbene il referendum si fosse risolto in un certo successo per il leader sovietico, con il 77,85% degli elettori delle 9 repubbliche partecipanti che lo approvarono e anche le élite delle 6 repubbliche che lo boicottarono (Armenia, Georgia, Moldavia, Lituania, Lettonia ed Estonia) dimostrarono un certo grado di apertura ad intavolare trattative politiche al vertice, il contenuto del testo finale era tale da spingere gli “oltranzisti” a sciogliere ogni riserva.

La congiura che seguì interessò una vasta sezione del Partito Comunista dell'Unione Sovietica, delle Forze Armate, del KGB e di altri apparati di sicurezza sia a livello federale che a quello delle singole repubbliche. L'organo politico che costituì il volto “mediatico” dei “golpisti” venne ribattezzato “Comitato Statale per lo Stato di Emergenza” e la leadership era costituita da 8 tra gli uomini più potenti della nomenclatura comunista:

- Gennady Ivanovich Yanaev: (russo), vice-presidente dell'Unione Sovietica;

- Valentin Sergeyevich Pavlov: (russo), primo ministro dell'Unione Sovietica;

- Vladimir Alexandrovich Kryuchkov: (russo), capo del KGB;

- Dmitry Timofeyevich Yazov: (russo), maresciallo dell'Esercito e ministro della Difesa;

- Boris Karlovich Pugo: (lettone), ministro dell'Interno;

- Oleg Dmitrevich Baklanov: (ucraino), primovice-capo del Consiglio di Difesa;

- Vasily Alexandrovich Starobubtsev: (russo), capo dell'Unione dei Contadini;

- Aleksandr Ivanovich Tizyakov: (tataro), presidente dell'Associazione delle Imprese di Stato, degli Impianti Industriali, delle Costruzioni, dei Trasporti e delle Comunicazioni.

Sebbene tra gli storici ed i politologi ci sia il quasi unanime consenso che la principale forza trainante dietro all'organizzazione del golpe fosse il KGB guidato dall'ineffabile Kryuchkov, un rapido sguardo alle posizioni occupate dai principali “congiurati” all'interno dell'establishment sovietico, fa capire bene come gli “eventi di Agosto” opposero le “forze nuove” liberate dalla stagione riformatrice inaugurata da Gorbačëv ai gangli del potere sovietico che in 74 anni avevano stratificato una vera e propria “cupola” che si era dimostrata nel complesso irriformabile e che temeva giustamente di essere “spazzata via” dalle riforme della Perestroika perdendo anche tutto il suo potere economico.

Al di là del fatto di riformare l'Unione Sovietica in uno stato “confederale”, le riforme promosse da Gorbačëv nel “Nuovo Trattato dell'Unione” avrebbero spogliato il Partito Comunista, le Forze Armate e di Sicurezza ed il KGB delle loro principali fonti di finanziamento dato che essi avrebbero dovuto cedere il controllo dei settori dell'economia sovietica sui quali avevano messo le mani nel corso dei decenni. Le motivazioni dei golpisti quindi erano solo marginalmente “ideologiche” (in tal caso essi si sarebbero mossi due anni prima, quando il Comunismo era sotto attacco nell'Europa Orientale) ma assi più “mondane”, con buona pace dei nostalgici e dei lettori distratti. Questo in sostanza fu il contesto nel quale maturarono “gli eventi di Agosto”.

Il 4 di Agosto del 1991, Gorbačëv lasciò Mosca alla volta della sua dacha estiva situata a Foros, sulla costa del Mar Nero non lontano da Yalta, in Crimea, pianificando di tornare nella capitale in occasione della firma del “Nuovo Trattato dell'Unione” che avrebbe dovuto avere luogo il giorno 20 dello stesso mese, e fu quello il momento nel quale i congiurati decisero di colpire!

Il 17 di Agosto i congiurati si riunirono in un'anonima pensioncina di Mosca. Il fatto che le investigazioni successive agli eventi abbiano dimostrato che l'edificio appartenesse al KGB la dice lunga sul coinvolgimento profondo del servizio segreto di stato nell'architettare e dirigere la ribellione contro il potere legale.

Lo scopo ufficiale della riunione era lo studio del “Nuovo Trattato dell'Unione” ma quello reale era di prendere le decisioni irrevocabili e firmare i documenti che avrebbero poi dovuto essere utilizzati dai golpisti per “dare ordini” agli organi di stato. Il 18 di Agosto, mentre tutti gli altri congiurati rimanevano a Mosca, il primo vice-capo del Consiglio di Difesa, Bakhlarov, volò in Crimea accompagnato da diversi “fiancheggiatori” del golpe, tra i quali merita di essere citato il generale Valentin Ivanovich Varennikov, figura apicale nella Storia militare dell'Unione Sovietica e uno degli architetti della Guerra Sovietica in Afghanistan.

A questo punto cessano le certezze e inizia quella che in ambito militare viene chiamata “la nebbia di guerra”. Infatti per correttezza intellettuale, sebbene la maggior parte dei libri di Storia abbia da allora accettato e riportato la verità “ufficiale” risultante dalle inchieste dei tribunali sovietici e russi condotte nei mesi e negli anni successivi agli eventi, esiste anche una verità “alternativa” sempre sostenuta dai golpisti, in particolar modo da Kryuchkov e Varennikov, che diverge non poco da quella “ufficiale” favorevole a Gorbačëv.

Secondo la verità “ufficiale”, il leader sovietico sarebbe stato una “vittima” dei golpisti mentre secondo Kryuchkov e, soprattutto, Varennikov, dopo un primo momento di sorpresa, Gorbačëv avrebbe addirittura avvallato l'operato dei golpisti, in certi casi persino consigliandoli, nel tentativo di etero dirigerli e trarne beneficio per se stesso. La cosa non è di poco conto perché, se la versione dei congiurati fosse vera, la figura di Gorbačëv ne uscirebbe completamente compromessa. Qui si pone un problema di obiettività delle fonti.

Ben prima della stesura di questa analisi, l'autore ha avuto modo di documentarsi riguardo alle vite di molti dei personaggi che parteciparono al colpo di stato del 1991 e sebbene la tentazione di dare credibilità al chekista Kryuchkov sia pressoché nulla, non altrettanto si può dire di Varennikov.

Come quasi tutti i generali dell'Armata Rossa, Varennikov tenne per tutta la vita diversi diari dettagliatissimi aventi come oggetto il suo stato di servizio. Molti di questi diari si sono poi rivelati delle autentiche “miniere d'oro” per gli storici impegnati nello studio di diversi eventi della Storia sovietica tanto da finire per ritenere Varennikov una fonte autorevole. Egli stesso poi diede un grande contributo alla ricerca storica nella Russia post-sovietica avente come scopo la riscoperta di diverse figure storiche della Russia zarista, come per esempio Pëtr Arkadyevich Stolypin.

Sebbene Varennikov abbia avuto numerose ragioni per odiare personalmente Gorbačëv, da lui ritenuto personalmente responsabile tanto della ingloriosa conclusione della Guerra in Afghanistan quanto dello sfascio delle istituzioni militari sovietiche, il fatto che egli abbia deliberatamente falsificato la Storia solamente per colpire il suo nemico (il quale, per la verità, in Russia gode già di una popolarità bassissima) fa parzialmente storcere il naso.

Quale che sia la “vera verità”, dopo che alle ore 4:32 del pomeriggio il KGB ebbe completamente tagliato fuori la dacha del leader sovietico da ogni comunicazione con i centri nevralgici del potere, Bakhlarov, Varennikov ed altri partecipanti al putsch si presentarono al cospetto di Gorbačëv, comunicandogli la sua completa esautorazione ed il passaggio di potere al “Comitato Statale per lo Stato di Emergenza”.

Dopo un lungo periodo, il gruppo lascio Gorbačëv agli “arresti domiciliari” a Foros nelle mani del KGB e, alle ore 7:30 di sera, volò nuovamente a Mosca dove gli altri congiurati avevano già iniziato le discussioni formali e la firma dei documenti esecutivi.

Alle ore 11:25 di sera tutte le discussioni e le formalità erano finite e Yanaev era stato investito a tutti gli effetti dei poteri presidenziali (anche se venne messo in chiaro da subito che la responsabilità delle azioni politiche sarebbe stata di natura collettiva).

Che le intenzioni dei golpisti non fossero affatto “gentili” lo si evince dal fatto che, a conclusione della sessione del “Comitato”, essi si premurarono di ordinare ad una fabbrica situata nella città di Pskov ben 250.000 paia di manette da destinare a Mosca mentre Kryuchkov raddoppiò il salario di tutto il personale del KGB, richiamandolo dalle vacanze e ponendolo in stato di massima allerta e ordinò di liberare tutti i prigionieri detenuti fino a quel momento nella prigione di Lefortovo in modo da lasciarla “libera di accogliere i nuovi ospiti che presto sarebbero arrivati”.

Era chiaro che quello che i congiurati volevano porre in atto, non fosse una semplice defenestrazione di Gorbačëv dalla sua posizione di potere come era stato fatto nel 1964 da Brezhnev ai danni di Khruščëv, bensì una purga verticale dell'intera società sovietica in modo da rimuovere completamente tutti i semi della “modernizzazione” che erano stati piantati nel corso di quei 6 anni. Inutile dire che l'ultima volta che il paese aveva assistito ad un evento di simili proporzioni era stato durante gli anni dello Stalinismo.

Il giorno successivo, mentre il “Comitato” emanava le sue direttive volte alla soppressione delle libertà individuali e collettive per un periodo di sei mesi, i carri armati appartenenti alla 2a divisione dei Fucilieri Motorizzati delle Guardie “Tamanskaya” e alla 4a divisione dei Fucilieri Motorizzati delle Guardie “Kantemirovskaya” partendo dalle loro basi situate rispettivamente ad Alabino e a Naro-Fominsk attraversarono Mosca assieme ai paracadutisti delle VDV diretti verso la Casa Bianca, la sede del Soviet Supremo della Repubblica Socialista Federativa Russa con l'intento di prenderne il controllo ed arrestare tutta la dirigenza russa, in particolare il presidente, il riformatore radicale Boris Nikolayevich Yeltsin.

Tuttavia i leader golpisti non avevano valutato sufficientemente bene tre aspetti dell'operazione:

- primo: la risolutezza di Yeltsin a resistere al golpe. Grazie ai suoi addentellati all'interno delle strutture del potere, il carismatico leader russo era da tempo a conoscenza che i fautori della linea dura all'interno del PCUS stavano tramando per far deragliare la Perestroika ed aveva organizzato in seno alle istituzioni della Repubblica Socialista Federativa Russa una sorta di “governo parallelo” che venne prontamente “mobilitato” per opporsi al “Comitato Statale per lo Stato di Emergenza” e iniziò ad emanare direttive volte ad invalidare quelle pubblicate dai congiurati;

- secondo: la capacità da parte dei media di aggirare la censura. Nonostante il fatto che l'unica radio indipendente del paese, “Ekho Moskvy”, ed i media ufficiali della Russia Sovietica, “Radio Rossii” e “Televidenie Rossii”, fossero stati interdetti dal KGB sin dalle prime ore del golpe, successivamente essi riuscirono nuovamente a trasmettere, diventando la cassa di risonanza di tutte le forze che si opponevano al colpo di stato;

- terzo: la rivolta del popolo, soprattutto nelle grandi città del paese. Sebbene in gran parte dell'Unione Sovietica (persino nelle cosiddette “repubbliche ribelli”) la gente adottasse un atteggiamento di prudente passività nei confronti degli eventi, nelle principali città da sempre cuori pulsanti dell'impero, Mosca e Leningrado, la gente scese in massa per le strade sfidando il coprifuoco ed i carri armati. Per esempio a Leningrado 100.000 persone risposero alla chiamata del popolarissimo sindaco Anatoly Aleksandrovich Sobchak e manifestarono per le strade a partire da mezzogiorno del 20 di Agosto. A Mosca venne proclamato lo sciopero generale e la popolazione eresse barricate tutto intorno alla Casa Bianca, fraternizzando con i carristi ed i paracadutisti che invece avrebbero dovuto teoricamente prendere il controllo dell'edificio.

I tentennamenti da parte dei membri del “Comitato” golpista vennero abilmente sfruttati da Yeltsin che in una ormai famosa scena ripresa dalle telecamere del mondo intero, salì su un carro armato T-80 della divisione “Tamanskaya” e lesse un proclama intitolato “Ai Cittadini della Russia” nel quale chiamò il popolo alla mobilitazione.

Alla sera del 19 Agosto, i carristi delle due divisioni d'élite cedettero infine alla pressione popolare e, contrariamente agli ordini ricevuti, rischierarono le bocche da fuoco dei loro mezzi corazzati, ma non per sparare contro la Casa Bianca, bensì per difenderla; le forze lealiste avevano messo a segno una importante vittoria ed erano rimaste “padrone del campo”.

Il giorno successivo gli uomini del “Comitato”, sentendo sempre più forte la pressione sia sul fronte interno che su quello internazionale, pianificarono un nuovo atto di forza contro Yeltsin ed i difensori della Casa Bianca, ora spalleggiati dai soldati della “Tamanskaya” e della “Kantemirovskaya”.

Il nuovo attacco avrebbe dovuto essere portato a termine questa volta dai soldati dell'Esercito dell'Interno dell'MVD, il Ministero degli Interni dell'Unione Sovietica, in particolar modo dagli uomini della divisione Indipendente dei Fucilieri Motorizzati per Impieghi Speciali dell'Esercito dell'Interno dell'MVD dell'Unione Sovietica “Felix Dzerzhinsky”.

Questa scelta non era affatto casuale perché, tradizionalmente, i soldati dell'Esercito dell'Interno erano stati utilizzati sin dalla nascita dell'URSS per reprimere i moti popolari, le rivolte nei gulag, le guerriglie a carattere nazionalista e persino i rari ammutinamenti delle Forze Armate regolari. Proprio per questa ragione, sin dalla sua istituzione, i vertici del potere sovietico avevano preferito che i ranghi dell'Esercito dell'Interno fossero rimpolpati soprattutto da coscritti provenienti dall'Asia Centrale, dal Caucaso, Tatari di varie origini e solo secondariamente Russi e Ucraini orientali, mentre i Baltici e gli Ebrei sovietici erano quasi tassativamente esclusi dal servizio.

Per l'occasione, i soldati dell'MVD sarebbero stati spalleggiati dai paracadutisti delle VDV e dagli uomini delle due forze speciali del KGB, i famigerati gruppi “Alfa” e “Vympel”. Tuttavia, dopo aver condotto una ricognizione in incognito nella zona difesa dai “lealisti”, tanto i comandanti delle VDV, Vladislav Alekseyevich Achalov ed Aleksandr Ivanovich Lebed, ed il comandante delle due forze speciali del KGB, Viktor Fëdorovič Karpukhin, dichiararono che, sebbene il blitz fosse tecnicamente possibile, sarebbe sicuramente sfociato in un bagno di sangue. Il piano venne così abbandonato e, poco tempo dopo, l'astuto generale Lebed, avendo compreso da che parte stesse soffiando il vento, decise di passare dalla parte dei “lealisti” portando con sé anche i suoi uomini.

Purtroppo, non tutto andò come auspicato perché, attorno all'1:00 di notte del 21 Agosto, una colonna di carri armati e veicoli da combattimento per la fanteria (BMP) fu avvistata mentre emergeva da un tunnel situato nelle immediate vicinanze della Casa Bianca. Ad oggi non è chiaro a chi appartenesse quella colonna di corazzati coinvolta nell'azione di forza e diverse versioni sono state proposte. Per alcuni, si trattava di soldati appartenevano ad un'unità della “Tamanskaya” rimasta fedele ai “golpisti”, per altri si trattava invece di uomini dell'Esercito dell'Interno che nella notte erano stati scambiati per soldati regolari, mentre altri ancora parlano di uomini delle unità speciali e paramilitari del KGB travestiti apposta con uniformi dell'esercito regolare sovietico per confondere i lealisti.

Oscuro è anche il nome di colui (o coloro) che diede l'ordine di avanzare, anche se molti indizi sembrano puntare il dito verso Kryuchkov. In ogni caso, una volta che i corazzati vennero avvistati, i manifestanti che difendevano la Casa Bianca si precipitarono a barricarne l'entrata utilizzando filobus e mezzi della nettezza urbana e lanciando bottiglie molotov contro i corazzati.

Negli scontri che seguirono, un BMP venne dato alle fiamme e tre difensori della Casa Bianca vennero uccisi dalle pallottole esplose dai non ben identificati “armati”. I tre uomini che morirono quel giorno (ufficialmente gli unici morti causati del golpe, ma alcune fonti parlano di 10 morti totali) furono:

- Vladimir Aleksandrovich Usov: economista di 37 anni e figlio di un ammiraglio della flotta sovietica appartenente alla comunità russa della Lettonia;

- Ilya Maratovich Krichevskiy: architetto di 28 anni di etnia ebraica appartenente ad una famiglia di intellettuali;

- Dmitry Alekseyevich Komar: di appena 22 anni, nato in una famiglia di militari della zona di Mosca, pluridecorato veterano della Guerra in Afghanistan, originariamente si era tenuto lontano dalle manifestazioni ed aveva cambiato idea solamente in un secondo momento dopo aver ascoltato alla radio un appello da parte del braccio destro di Yeltsin, il vice-presidente della Repubblica Socialista Federativa Russa, Aleksandr Vladimirovich Rutskoy (ex-pilota delle V-VS, le Forze Aeree Sovietiche, Eroe dell'Unione Sovietica ed anch'egli veterano della Guerra in Afghanistan) che chiamava a raccolta tutti gli “Afghantsy” (così vengono chiamati i veterani dell'Afghanistan nelle società post-sovietiche) per “difendere la libertà e la democrazia e morire servendo la Rodina (la Madrepatria) un'ultima volta, tutti assieme”.

La morte di Usov, Krichevskiy e Komar fu come un elettroshock per tutto il paese. Inorriditi dalla piega che gli eventi avevano preso, gli uomini del “Comitato”, che in fondo altro non erano che grigi burocrati privi di qualità che avevano organizzato il tutto rispondendo più ad un disperato istinto di autoconservazione che non ad un vero fervore rivoluzionario-vetero comunista, iniziarono velocemente a sganciarsi. Tale decisione fu ulteriormente accelerata dalla contestuale presa di posizione pubblica da parte di Yuriy Pavlovich Maksimov, Yevgeniy Ivanovich Shaposhnikov e Vladimir Nikolayevich Chernavin, rispettivamente comandante in capo delle Forze Missilistiche Strategiche, comandante in capo delle Forze Aeree (V-VS) e comandante in capo della Marina, i quali comunicarono al ministro della Difesa, il golpista Yazov, che non avrebbero eseguito ordini relativi al lancio di testate nucleari in caso di escalation internazionale della crisi.

Chernavin fu persino più esplicito dei suoi parigrado delle altre branche di servizio nelle sue minacce quando, dopo aver raggiunto Murmansk ed essersi unito alle forze della Flotta del Nord, ordinò all'intera Marina Sovietica di prendere il mare e pare abbia minacciato i golpisti di consegnare l'intera Marina Sovietica agli Stati Uniti d'America. Come “l'Ammiraglio d'Acciaio” scrisse successivamente in maniera colorita nelle sue memorie: “avevo mezzo milione di uomini, 1.100 unità navali ed un terzo delle testate nucleari del nostro paese a farmi da scudo nel caso quelli (i golpisti) avessero perso il controllo dei nervi”.

Dopo un altro giorno di febbrili trattative e di oscure manovre politiche ai vertici dello stato e sempre sotto la costante pressione internazionale, Gorbačëv venne infine liberato e riportato a Mosca mentre il “Comitato Statale per lo Stato di Emergenza” votò per il proprio autoscioglimento.

Nelle 48 ore successive tutti i membri del “Comitato” vennero arrestati con l'eccezione del Ministro degli Interni, Pugo, che, secondo la ricostruzione ufficiale, si suicidò insieme alla moglie (ma a tutt'oggi permangono insistenti ricostruzioni secondo le quali egli sia stato invece tolto di mezzo su esplicito ordine di Gorbačëv per eliminare un testimone scomodo di alcuni atti di repressione operati nel periodo tra il 1988 ed il 1991 in Lituania, in Lettonia, in Armenia, in Georgia, in Azerbaigian ed in Nagorno-Karabakh che vedrebbero pesantemente coinvolto anche lo stesso leader sovietico).

Oltre ai membri del “Comitato” vennero arrestati anche decine di fiancheggiatori operanti in tutte le istituzioni e, per ironia del destino, la prigione del KGB di Lefortovo, che i golpisti avrebbero voluto riempire con i loro rivali politici, finì invece per diventare la loro “amena dimora” per gli anni successivi fino a che un'amnistia voluta nel 1994 dallo stesso Yeltsin non li rimise nuovamente tutti in libertà, parzialmente insabbiando la Verità, che forse non sapremo mai in maniera completa.

Una volta ripristinata l'autorità costituzionale, tre cose apparirono chiare:

- primo, le varie repubbliche sovietiche avevano colto l'occasione del vuoto di potere per dichiarare la propria indipendenza facendo virtualmente cessare di esistere lo stato unitario;

- secondo, il Partito Comunista dell'Unione Sovietica era stato talmente screditato dagli eventi da risultare non più salvabile, come invece tentò di fare Gorbačëv (a titolo esemplificativo, ben il 70% (!) dei comitati del Partito a tutti i livelli nella sola Repubblica Socialista Federativa Russa avevano appoggiato il golpe! Per non parlare delle altre repubbliche sovietiche dove, in alcuni casi, l'appoggio al golpe era stato pressoché unanime!);

- terzo, l'uomo che più di ogni altro aveva contribuito alla sconfitta del colpo di stato, il presidente della Russia Sovietica, Yeltsin, era ora il vero “uomo forte” della situazione e stava lui dettando i tempi e le modalità della liquidazione dell'impero sovietico, evento che, da ultimo, si concretizzò il giorno di Natale dello stesso anno.

Si chiudeva così un capitolo della Storia e se ne apriva uno nuovo, che ancora oggi noi stiamo vivendo.

Foto: TASS