In ambiente militare USA si dice “amateurs speak tactics, professionals speak logistics”. Espressione che tende a indicare che sono di norma coloro che non hanno conoscenza reale delle problematiche militari che si dedicano a discussioni relative ad aspetti tattici, senza però considerare il contesto, magari meno evidente, ma al tempo stesso più importante ai fini di un’operazione militare, quale appunto la logistica.
Guardando al dibattito politico in atto in questi giorni in Europa in merito al sostegno militare all’Ucraina dopo la pax trumpiana, questo detto USA si potrebbe parafrasare con “i dilettanti parlano di “boots on the ground”, i professionisti di obiettivi strategici da perseguire”.
Purtroppo, però, per una certa politica appare più facile disquisire su quanti soldati mandare in Ucraina o dovunque altro nel globo terracqueo anziché chiedersi con serietà a cosa dovrebbero servire quei soldati, se il compito che gli si intende assegnare abbia o meno senso e se quei soldati sarebbero comunque in posti condizioni di assolverlo.
Per “essere in condizione di assolvere il compito” senza presunzione di voler essere esaustivo mi riferisco, tra l’altro, a:
- chiarezza di direttive politico-strategiche che vengono impartite a monte dell’operazione,
- efficienza della linea di comando multinazionale deputata ad impiegarli,
- rispondenza delle regole di ingaggio alla situazione reale sul terreno (ripeto, “reale” e non quella “ideale” magari ipotizzata in qualche salotto radical-chic),
- numero di militari da impiegare (numero che deve essere calcolato in relazione al compito che si assegna e non solo a quanto si sia disposti a spendere),
- disponibilità di armamenti, mezzi corazzati, supporto di fuoco,
- capacità di rapida rinforzo con unità aggiuntive in caso di imprevisto deterioramento del quadro di situazione.
Insomma, l’invio di un contingente militare non può essere considerato dalla politica come la semplice presenza di tizi in uniforme che facciano da spaventapasseri (o nel caso peggiore da bersagli) in questa piuttosto che quella zona di instabilità. Soprattutto, però, la missione deve essere politicamente chiara e militarmente realistica.
L’impressione, invece, è che spesso alcuni esponenti politici di vari paesi europei si dilunghino a parlare di interventi militari (entrando, da bravi “dilettanti” anche in dettagli “tattici”, quali in numeri del contingente) solo per coprire il vuoto pneumatico di una mancanza di idea politica di cosa, tramite quell’intervento militare, si vorrebbe conseguire.
In questi giorni, per esempio, da alcune capitali europee vengono rilanciate cifre impressionanti relative a migliaia di soldati da inviare in Ucraina, tanto che sembrerebbe di assistere a una accalorata asta da Sotheby’s o da Christie’s dove alcuni neo-miliardari cinesi si contendano qualche capolavoro della pittura caravaggesca.
Ottimo, ma quale sarebbe la missione e quale organizzazione sovranazionale o nazione leader dovrebbe gestire tali imponenti forze? Non appare altrettanto chiaro.
Non vorrei che i leader politici che fanno sfoggio di queste generose offerte ritenessero che se e quando una eventuale missione militare partirà loro potrebbero non essere più al governo e non dovrebbero rendere conto delle promesse fatte. Ad essere maligni tale poteva essere anche l’attitudine mentale dei capi di Stato e di governo NATO che a Cardiff nel 2014 impegnarono le loro nazioni a raggiungere dieci anni dopo (nel 2024) il non popolarissimo target del 2% del PIL dedicato a alla difesa.
Preso atto che, nonostante le promesse di aiuto all’Ucraina, nessuno dei leader europei sembra disposto a inviare propri soldati a “combattere” a fianco di quelli ucraini (intervento che avverrebbe non come NATO né come UE, ma come singola nazione), è evidente che le precitate offerte possano avere una valenza solo una volta che si siano interrotti i combattimenti. Cosa che può avvenire per un cessate il fuoco o una tregua (quindi senza il raggiungimento di una fine almeno ufficiale del conflitto) oppure con un accordo di pace o armistizio (che implicano la fine ufficiale del conflitto)
Non è solo una questione di durata1, ma di reciproco riconoscimento tra le parti belligeranti e di accettazione formale degli accordi di pace da parte in questo caso sia di Russia che di Ucraina. L’Europa, in effetti, non essendo né belligerante (sul terreno) né il negoziatore dell’accordo avrà inevitabilmente poco peso.
L’eventuale ruolo e connotazione di una forza militare multinazionale dipenderà dagli accordi che saranno raggiunti al tavolo negoziale e dal fatto che si tratti di una tregua o di un armistizio. Ignorando quale sarà l’esito dei negoziati (peraltro ancora formalmente non avviati) e quali le condizioni territoriali e i vincoli eventualmente posti dall’accordo a Russia e Ucraina, appare decisamente prematuro parlare di un intervento di così detto “peace keeping”.
Molti parlano di “forza di interposizione”. Se si ha bisogno di una forza d’interposizione è chiaro che non sia stato raggiunto un accordo di pace, ma solo una interruzione temporanea dei combattimenti. Interruzione che appunto potrebbe prendere forma di “cessate il fuoco” o di “tregua”. Senza andare qui a disquisire sulle differenze a livello di diritto internazionale tra l’una e l’altra, vediamo cosa ciò potrebbe comportare per definire almeno comando, struttura e composizione di questa fantomatica “forza d’interposizione”.
Non essendoci “formalmente” uno sconfitto, l’organizzazione sovranazionale (o al limite la nazione) che assuma il comando politico e militare della forza di interposizione dovrà essere ben accetta a tutte le parti in causa (Russia, USA e, sperabilmente, Ucraina). Questo dal punto di vista “formale”.
Da un punto di vista “sostanziale”, invece, la Russia, per quanto non abbia lontanamente raggiunto gli obiettivi strategici che sembrava proporsi tre anni fa, ne esce in condizioni più forti dell’Ucraina. Ciò preclude a priori qualsiasi ruolo a NATO e UE (comprensibilmente non percepite come imparziali da Mosca) nel comando di tale “forza di interposizione”. Il comando di tale forza non potrà che risalire alle Nazioni Unite. Organizzazione che potrebbe essere riconosciuta come non ostile sia da Mosca sia da Washington (entrambi anche forti del proprio diritto di veto in Consiglio di Sicurezza).
Il fatto che non possa trattarsi di missione NATO o UE non implica di per sé che nessuna nazione NATO/UE possa inviare a questa forza un proprio contingente. Ma si tratterà comunque di contingenti provenienti da nazioni che possano essere accettate da Mosca. Ovvero per la partecipazione di UK, Francia, Germania, Polonia, paesi baltici e scandinavi e la stessa Italia anticiperei un “niet” forte e chiaro.
Diverso potrebbe essere per i 4 paesi UE non NATO (Austria, Irlanda, Malta e Cipro) e per i paesi NATO che si sono mostrati più cauti nel posizionarsi (Turchia, Ungheria e Slovacchia). La parte del leone potrebbero farla paesi asiatici, africani o latino-americani (tra cui forse la Cina, l’India, il Brasile, l’Arabia Saudita). Peraltro, si tratta ancora una volta elucubrazioni che in questa fase sono del tutto premature. La forza ONU dovrà infatti essere percepita come imparziale sia da Russia che da Ucraina e ciò si rifletterebbe non solo sulle nazionalità dei contingenti ma anche sui loro compiti e le caratteristiche del loro schieramento.
Premetto che una forza d’interposizione lungo la linea di contatto non mi appare un’opzione realisticamente praticabile. Peraltro, volendola ipotizzare e volendo perseguire una soluzione credibile, quante forze servirebbero per fungere da interposizione sull’intero confine/linea di contatto tra forze russe e ucraine? Si tratterebbe di un fronte tra i 1.500 e i 2.000 km, che dovrebbe essere presidiato dalla forza ONU, con un area di separazione di una certa profondità che consenta libertà di manovra alle forze ONU (forze che, ricordiamolo, in ragione del prevedibile mandato ONU dovrebbero schierarsi in modo da poter interdire sia attacchi da parte russa che da parte ucraina). Forza d’interposizione che per assolvere il suo compito seriamente dovrebbe avvalersi anche di componenti aeree e navali.
Ritengo, pertanto, abbastanza inutile in questa fase tentare di ipotizzare quante decine o centinaia di migliaia di uomini, quanti aerei, quante, navi quante artiglierie e quanti corazzati potrebbero essere necessari. Anche perché noi non saremmo verosimilmente ritenuti accettabili da una delle due parti.
Guardiamo invece in faccia la realtà. In primis, a parte la Cina che avrebbe interesse magari a stabilire una grossa presenza militare tra Russia ed Europa, chi sarebbe disponibile a fornire tali forze? Certo, avere la Cina alle porte di casa e con i suoi assetti navali nel Mar Nero e nel Mediterraneo non sarebbe per noi europei una opzione felice e non dovrebbe farci dormire sonni tranquilli.
Resterebbe poi da valutare la reale capacità dell’ONU di gestire una operazione del genere. Si è visto ripetutamente il regolare fallimento dell’ONU nel gestire direttamente operazioni militari di una certa complessità. Ricordiamoci tra le altre le drammatiche esperienze in Congo (ONUC 1960-64), Somalia (UNOSOM I e II, 1992-95) UNPROFOR (nella ex Jugoslavia 1992-95), tutte finite con poco dignitosi ritiri, dopo perdite poco giustificate sia tra la popolazione civile che tra i contingenti ONU. Purtroppo, nonostante l’indubbia professionalità del contingente italiano, non possiamo neanche affermare che UNIFIL sia proprio un successone (Leggi articolo "UNIFIL: inutile invocare ora la risoluzione 1701, abbiamo chiuso gli occhi troppo a lungo")
Altri politici e commentatori ipotizzano che non si debba trattare di una forza di interposizione, bensì di forze europee schierate sin dal tempo di pace a fianco degli ucraini per dimostrare visibilmente il supporto europeo a Kiev in caso di rottura degli accordi da parte di Mosca. Questo sembrerebbe, prima vista, più logico e più facile. Osservo, però, che dovrebbe essere un’operazione solo UE. Gli USA di Trump non paiono assolutamente intenzionati neanche a supportare una tale operazione, cosa che li distoglierebbe dall’Indo-Pacifico, dal confronto prioritario con la Cina e che comprometterebbe i rapporti faticosamente ristabiliti da Trump con il Cremlino.
In questo caso basterebbero certo molti meno uomini. Insomma, si potrebbe anche pensare a una rappresentanza di tutti i paesi UE per mostrare la coesione dell’Unione con l’Ucraina. In pratica, il concetto della Allied Command Europe Mobile Force (AMF) degli anni della Guerra Fredda. Si trattava di una forza multinazionale NATO del livello di una divisione che, in caso di attacco sovietico, si poteva schierare rapidissimamente dall’Artico all’Anatolia per rinforzare il paese NATO attaccato. Un’idea che all’epoca funzionò. L’AMF avrebbe bloccato i carri armati sovietici? Certo che no! Però, le perdite che inevitabilmente l’AMF avrebbe subito sarebbero state di soldati provenienti da quasi tutti i paesi NATO. Queste perdite avrebbero di fatto stretto un patto di sangue che avrebbe rinforzato il dettame dell’articolo 5 del Patto Atlantico. Insomma, il cittadino del Canada non avrebbe potuto dire, nel caso di un attacco alla Turchia, “sono affari loro, a noi non interessa” perché nella difesa della Turchia erano caduti già nei primi giorni dei suoi compatrioti in armi.
Da un punto di vista degli ideali, una tale tipologia d’intervento può essere molto significativa. Ma nel caso dell’AMF, dichiarato l’articolo 5, sarebbe intervenuta l’intera potenza militare dell’Alleanza Atlantica, incentrata sul potere nucleare e convenzionale USA. In questo caso, niente articolo 5, niente USA e dovremmo poi vedercela come UE.
Certo, dovremo acquisire questa capacità di reazione autonoma. Però, al momento degli accordi Russia-Ucraina come saremo messi? Saremmo pronti? Temo che la risposta non possa essere positiva.
In conclusione, una certa politica, anziché dilettarsi a “giocare ai soldatini”, ovvero a fantasticare improbabili soluzioni militari partendo dagli scarponi (sul terreno) per arrivare alla testa, dovrebbe forse seguire il procedimento inverso. Ovvero partire dalla “testa”.
Ciò comporta avere una chiara idea degli obiettivi strategici che si vogliono e si possono raggiungere. Troppo spesso, soprattutto in Italia, la generosità nel rendere disponibili contingenti militari in diversi contesti sovranazionali è servita per coprire la carenza di una chiara visione nazionale di politica estera e di sicurezza. Era più facile offrire contingenti per qualsiasi intervento multinazionale, senza indagare più di tanto in merito alla concretezza della missione o all’adeguatezza delle regole di ingaggio . Insomma, era meglio continuare a giocare ai soldatini.
Trump da una parte e Putin dall’altra ci hanno chiaramente detto che non possiamo più permettercelo.
1 Tra Israele e Siria è un atto una “tregua” sin dal 1973, ovvero dopo la guerra dello Yom Kippur. Tregua che non è mai evoluta verso una “pace ufficiale”. Peraltro, quel confine e una strettissima area demilitarizzata tra i due paesi (che è controllata da una esigua forza ONU, UNDOF “United Nations Disengagement Observer Force”) sono rimasti relativamente tranquilli negli ultimi cinquant’anni.