Ucraina–Russia: una guerra destinata a durare?

(di Antonio Li Gobbi)
09/10/22

I combattimenti in Ucraina continuano con il loro bagaglio di morti e di distruzione. Nel contempo diventano sempre più minacciosi i toni delle dichiarazioni di tutti e tre i belligeranti che hanno voce in capitolo, ovvero Putin, Biden e Zelensky. Invece, quelli che definirei i "cobelligeranti a loro insaputa", ovvero NATO e UE, di fatto non paiono sinora avere né idee proprie riguardo al conflitto né, ove le avessero, la reale capacità di esprimerle.

Xi Jinping, nella miglior tradizione cinese, aspetta con calma sulle rive del fiume, sicuro che gli eventi gli consentiranno acquisizioni a prezzi di svendita in Russia, in Europa e forse anche in altri continenti.

Il fatto che i toni delle dichiarazioni ufficiali seguano una escalation minacciosa è evidente segno di insicurezza delle relative leadership e non deve essere interpretato come manifestazione di forza.

Ciò è molto preoccupante perché tutti e tre i leader che ho citato sono coscienti di come dall’esito del conflitto dipendano non solo i rispettivi interessi nazionali ma anche il proprio futuro personale e quello della propria cerchia più stretta di fedelissimi. Per Biden si tratta del futuro politico, non tanto suo, per evidenti motivi anagrafici, quanto dei Democratici USA. Per Putin si tratta anche della sua stessa vita, in quanto in caso di sconfitta difficilmente gli oppositori lo lascerebbero in vita e, comunque, certamente non in libertà. Anche Zelensky forse potrebbe correre rischi analoghi a quelli di Putin in caso di sconfitta, perché l’opposizione interna finora messa a tacere potrebbe essere restia a perdonargli una sconfitta.

Sul campo, i cronisti che seguono i combattimenti giorno per giorno ci riportano che le cose vanno male per le forze russe. Il punto chiave non è, però, di quante migliaia di chilometri quadrati l’una parte o l’altra abbia acquisito o perso il controllo. Fattore sì importante, ma non determinante in sé. Quello in corso si appresta ad essere un conflitto lungo in merito al cui esito potrebbe essere azzardato fare previsioni, a meno di un salto di livello, cui si accennerà più avanti, che potrebbe portarlo a rapida conclusione.

Puntate offensive e ritirate di decine e decine di chilometri in pochissimi giorni sono relativamente normali quando si confrontino forze meccanizzate e corazzate su terreni essenzialmente pianeggianti, come quelli ucraini, ove l’unico vero ostacolo paiono essere i fiumi, lungo i quali i russi possono ancorare una manovra difensiva e arrestare, sino alla bella stagione, l’attacco ucraino.

Più significativo, invece, potrebbe essere un certo evidente sfilacciamento della consistenza delle forze russe. Il Cremlino, infatti, aveva inizialmente impiegato forze regolari russe in misura decisamente ridotta (tra l’altro spesso inviando reparti con reclutamento nella Russia asiatica). Mosca ha quindi integrato i reparti regolari con milizie irregolari (ceceni, “Wagner”, siriani ) proprio per evitare di gravare su sui cittadini etnicamente russi in considerazione dell’esigenza di conservarne il favore.

La differenza di trattamento tra reparti di etnia russa e di altre etnie era risultata evidente anche durante il decennale intervento dell’URSS in Afghanistan (1979-89), generando non poche recriminazioni da parte delle altre etnie (foto).

La decisione di ricorrere a milizie irregolari è anche una scelta verosimilmente imposta a livello politico perché da un punto di vista militare non ha senso. Inevitabilmente, un tale mix di forze (regolari e non) comporta sul campo difficoltà di coordinamento, frammentazione della linea di comando (queste milizie non riconoscono l’autorità delle catene di comando regolari ma solo il carisma individuale dei propri capi), modalità e tattiche di impiego non conciliabili. Ovviamente, in caso di criticità o di insuccesso è inevitabile che si assista ad una serie di accuse reciproche tra gerarchie militari “regolari” e milizie addossandosi reciprocamente le colpe degli insuccessi. Lo vediamo anche in questi giorni con le accuse, ovviamente interessate, di Yevgeny Proigozhin (proprietario e fondatore del Gruppo Wagner) e di Ramzan Kadyrov (capo politico e militare dei ceceni) nei confronti delle gerarchie militari “regolari” e, soprattutto, del ministro della difesa della Federazione Sergej Sojgu.

A Mosca, infatti, è verosimilmente tempo di recriminazioni. È chiaro che Putin deve salvaguardare la propria credibilità e per farlo dovrà far cadere le teste di un paio di capri espiatori. Insomma, è tempo di “mors tua vita mea”.

Un fattore assolutamente non trascurabile, anche per l’impatto che ha sulle opinioni pubbliche occidentali, è che le diverse milizie che scorazzano in Ucraina non hanno alcun rispetto del diritto dei conflitti armati e si abbandonano a crimini ed efferatezze, anche come loro peculiare tecnica di combattimento. Cosa che, peraltro, ci viene regolarmente riportato dalle zone di cui Kiev riacquista il controllo.

Appare evidente, comunque, che i pianificatori russi abbiano sottostimato alcuni aspetti della così detta ”operazione militare speciale”. Indipendentemente da quelli che potessero essere gli obiettivi iniziali di Mosca, l’operazione si sta rivelando ben più onerosa in termini di tempo e di forze necessarie per raggiungere gli obiettivi di quanto evidentemente fosse stato pianificato.

Solo così si possono spiegare le più volte riportate difficoltà russe a garantire un adeguato sostegno logistico di aderenza alle truppe combattenti e a sostituire mezzi distrutti o inefficienti con materiali non vetusti. Lo stesso discorso vale per la mobilitazione parziale che è stata indetta a fine settembre.

Le forze mobilitate non possono fornire un reale contributo nel breve termine. Infatti, la mobilitazione, sia pure di riservisti che abbiano da pochi anni lasciato il servizio, non è cosa semplice ove non si disponga dal tempo di pace di una specifica e rodata organizzazione, che preveda richiami periodici, mezzi equipaggiamenti e materiali stoccati, ovvero delle unità “quadro” già organizzate i cui componenti si riuniscano regolarmente per addestrarsi. Questo non è il caso delle forze armate della Federazione Russa.

Nel caso russo, ove si voglia evitare di mandare dei potenziali sbandati e disertori allo sbaraglio, i soldati dovranno ripresentarsi ai centri di reclutamento e addestramento per essere riequipaggiati e le unità dovranno essere ricostituite quasi da zero. Attività che richiede tempo se si vuole che i reparti abbiano una sia pur minima capacità operativa.

È vero che circolano video di riservisti che tenderebbero a far ritenere che non ci si sia attenuti neanche a queste regole basilari. Tali video (fotogramma) potrebbero testimoniare alcune gravi inefficienze dell’apparato militare russo oppure essere strumenti della competizione senza esclusione di colpi tra forze armate regolari e milizie (Gruppo Wagner e/o ceceni in primis) tendenti a screditarsi a vicenda, cui si è già fatto cenno. Competizione a cui si è già accennato e che diventerà sempre più accesa in caso di evoluzione negativa della situazione sul campo.

D’altronde, l’esercito della Federazione Russa era strutturato sì per condurre operazioni di guerra classica ad elevata intensità, ma per periodi limitati e non era evidentemente predisposto a condurre operazioni ad alta intensità protratte nel tempo. Il prolungarsi dell’operazione sembra mettere sotto stress sia l’alimentazione logistica delle unità a contatto sia le procedure di ripianamento e sostituzione del personale.

È ben vero che in Siria, in Libia e nel Sahel stiano da anni operando con successo forze russe, però, le attività più impegnative sembrerebbero essere state delegate ai contractors del Gruppo Wagner.

In questo contesto non si può non affrontare l’aspetto del ricorso all’arma nucleare o ad armi biologiche e chimiche. È cosa nota che a Russia disponga di un variegato arsenale non solo nucleare, ma anche chimico e biologico. Peraltro, anche gli USA ne dispongono. Disporne non significa necessariamente volerne fare uso, come oltre mezzo secolo di deterrenza nucleare dimostrano. Un conto sarebbe però fare uso di tali armi contro un avversario che non ne disponga, ben diverso è quando si sa che si darebbe avvio a una spirale di azioni e reazioni con un avversario che pure ne dispone in abbondanza (in questo caso gli USA che reagirebbero a attacchi nucleari, biologici o chimici contro obiettivi ucraini).

Lasciamo subito da parte la distinzione tra ordigno nucleare tattico e ordigno strategico. La distinzione è certamente connessa al potenziale in kiloton o megaton, ma forse non è questo l’aspetto che oggi farebbe la differenza. Ben più rilevante del potenziale appare la distinzione a seconda dell’obiettivo, tattico o strategico, che si intenda perseguire.

Nel conflitto a tre, ovvero tra Russia, USA e Ucraina l’effetto sarebbe di natura strategica anche ove Mosca decidesse di lanciare un ordigno di limitato potenziale su un obiettivo puramente militare in Ucraina. Verosimilmente non nelle zone contesa, tutte abitate, volendone successivamente acquisire il controllo. Già questo fattore non lo catalogherebbe l’uso come tattico. Ma è l’impatto politico e psicologico che ne eleverebbe automaticamente il livello ad evento di portata strategica, si trattasse, per assurdo, anche di un ordigno di un solo chiloton utilizzato, per esempio, per interdire l’utilizzo del porto di Odessa (che ormai difficilmente i russi potrebbero acquisire) e chiudere il principale accesso al mare ucraino.

Un impatto di livello strategico che comporterebbe inevitabilmente il coinvolgimento diretto ed esplicito di Washington.

Al riguardo, può essere utile ricordare che la NATO ha certamente una “politica nucleare” alla cui elaborazione hanno concorso tutti gli alleati, ma questa, in effetti, rappresenta solo una forma di rispetto puramente formale nei confronti degli alleati. Di fatto, come è naturale che sia, la reale autorità sugli armamenti nucleari risale esclusivamente alla nazione che li possiede. Quindi, l’eventuale risposta a un attacco nucleare russo sarebbe di fatto decisa esclusivamente nello “studio ovale”, dandone informazione agli alleati a cose fatte. Né potrebbe essere diversamente stante l’estrema delicatezza e urgenza di tali decisioni.

Né gli USA potrebbero non rispondere con la stessa arma in caso di uso di ordigno nucleare da parte dei russi. Non potendo la ritorsione avvenire sul territorio ucraino occupato che si vorrebbe liberare, l’opzione più soft potrebbe essere l’uso di un ordigno nucleare di limitato potenziale su zone disabitate della Russia Asiatica con obiettivo essenzialmente la distruzione di risorse energetiche russe, limitando per quanto possibile le perdite umane, ma comunque sarebbe un colpo mortale alla sovranità di Mosca..

Al Cremlino non possono non immaginare questi sviluppi e, personalmente, non credo che si arrivi all’uso dell’arma nucleare. Occorre però tenere presente che tentare mettere un regime autocratico in un angolo non è mai una scelta saggia.

Hitler nel bunker si suicidò, ma se avesse avuto a disposizione l’arma atomica si può essere certi che non la avrebbe utilizzata? Ricordiamo anche che sia Putin sia il suo stretto entourage in caso di sconfitta perderebbero non solo il potere, ma anche la libertà e probabilmente la vita.

È naturale e perfettamente comprensibile che l’Ucraina, sul cui territorio e tra la cui gente si combatte una terribile e cruenta guerra civile oltre che una guerra convenzionale, non sia disposta a compromessi. E se anche lo fosse non potrebbe permettersi di dichiararlo in questo momento. Meno comprensibile è una posizione altrettanto intransigente da parte di UE e USA.

L’opzione nucleare verosimilmente è destinata a restare una minaccia che non verrà attuata, a meno che si cerchi la pur comprensibile vendetta anziché una pace stabile, in spregio alle esperienze dei secoli passati e alle basilari regole del negoziato internazionale.

Scartata l’opzione nucleare, i russi hanno bisogno di tempo per risolvere i propri problemi organizzativi e l’inverno potrebbe offrirgli l’opportunità di una pausa operativa che gli consenta tale riorganizzazione. Inoltre, Mosca si aspetta che la guerra del gas e del caro energia durante i prossimi mesi possa portare a cedimenti del fronte europeo. Fronte europeo che pare incapace di influenzare l’andamento del conflitto e che si è appiattito in maniera apparentemente acritica sui desiderata di Washington e dei paesi Est Europei, senza peraltro pretendere compensazioni per i danni cui questa lealtà lo espone.

Fronte europeo che, per il momento, a chi scrive ricorda i seguaci di Pietro d’Amiens, detto l’Eremita, ovvero quell’accozzaglia di genti di diversa provenienza e con diversi interessi (religiosi e laici, contadini e piccola nobiltà) passata alla storia come la “crociata dei pezzenti”. Crociata che giunta poi a Costantinopoli si sfaldò in maniera ben poco onorevole. Speriamo che l’UE messa alla prova si riveli un po’ meglio dei “pezzenti” di Pietro l’Eremita.

Foto: MoD Federazione russa / RIA Novosti / YouTube / U.S. Air Force