Trump distrae, la Cina avanza: la supremazia navale degli Stati Uniti in crisi?

(di Gian Carlo Poddighe)
24/05/25

Il protagonismo del personaggio Trump, con le sue imprevedibili mosse e dichiarazioni estemporanee, ha distolto l’attenzione dai problemi legati alla marittimità, nel senso più completo del termine, che è al centro della contesa tra Cina ed il mondo occidentale, con gli USA protagonisti. Una contesa tanto evidente ed essenziale da essere necessaria, al punto che anche Putin ha detto la sua, evidenziando importantissime misure al riguardo, investendo anche risorse che non ha, pur di stare al gioco.

La U.S. Navy si trova attualmente ad affrontare tre grandi sfide: la consistenza (della flotta), la capacità (operativa) e il costo (delle unità), sfide che in qualche modo coinvolgono e potrebbero riguardare anche gli alleati e ci coinvolgono, come paese ma anche come opportunità (e pertanto l’ulteriore sfida riguarda la capacità di cogliere le opportunità nei momenti di crisi).

Pechino ha la più grande marina globale intesa nel senso più ampio, una sola marina, la presenza in tutte le componenti della marittimità: rimanendo nello stretto e specifico solco delle forze navali la propaganda gioca un ruolo fondamentale, ed i numeri sono ballerini a seconda delle tesi (e degli autori).

Secondo un recente rapporto del Congresso USA (aprile 2025) la Cina nell'ultimo decennio avrebbe numericamente superato gli Stati Uniti in termini di forza navale.

Un settore dove non vale certamente il concetto “uno vale uno” anche se il Dipartimento della Difesa (DoD) USA interessatamente sottolinei come la Marina cinese (PLAN), con oltre 370 unità, sia la più numerosa e si prevede che raggiungerà la consistenza di circa 395 unità entro il 2030.

L’inevitabile confronto accredita la USN di “circa” 295 unità a settembre 2024, anche se in parallelo il World Directory of Modern Military Warships (WDMMW) stima che le unità in servizio “attivo” (l’efficienza è un altro aspetto che andrebbe esaminato, sia specificamente sia comparativamente) siano 232, sufficienti per mantenere ancora la superiorità in termini di dislocamento, capacità ed esperienza operativa.

Interessante quadro riepilogativo dove si evidenzia anche l’età media delle unità, dato troppo spesso trascurato. Quadro interessante, anche come orgoglio nazionale in quanto l’unico “fornitore” straniero considerato è l’Italia, anche se questo purtroppo dovrebbe cambiare a breve. - fonte WDMMW

Sempre a dimostrazione di quanto le valutazioni siano ballerine quanto inaffidabili, mancando un criterio omogeneo: secondo un centro di ricerca, il CSIS, a fine 2024, la Cina avrebbe avuto “operative” 234 unità, rispetto alle 219 della U.S. Navy, numeri difficilmente comparabili in quanto per unità “maggiori”, inclusi incrociatori e cacciatorpediniere (Destroyers) il bilancio è ampiamente a favore degli Stati Uniti. Le conclusioni del CSIS come di altri centri coincidono sull’aspetto preoccupante del ricorso da parte dell'industria cinese alla strategia di "fusione militare-civile", molto opaca del definire i confini tra i settori della difesa e del commercio del paese e ancor più preoccupante dovrebbe risaltare il fatto che la cantieristica cinese, con la CSSC (China State Shipbuilding Corporation) come massima espressione, dedicata sia alle costruzioni mercantili che militari, destina stabilmente tre quarti della propria produzione commerciale ad acquirenti esteri, provenienti da Danimarca, Francia, Grecia, Italia, Giappone e Corea del Sud, alleati degli Stati Uniti.

In questo modo risorse estere, valutabili in miliardi di dollari, sostengono cantieri navali destinati anche alla produzione militare, ed immediatamente convertibili, con importanti trasferimenti di tecnologia utili alla modernizzazione della PLAN e mettendo a disposizione degli appaltatori della difesa cinesi tecnologie dual use, al di là di qualsiasi possibilità di controllo o sanzione.

Anche nelle previsioni, influenzate spesso dall’ideologia e dalla militanza politica, le valutazioni divergono sullo stesso traguardo temporale, il 2030: si passa da un trend positivo, per riportare la consistenza della U.S. Navy a 381 unità, a un trend non ben determinato in diminuzione.

Un confronto tra i numeri attuali delle due marine e le capacità produttive dei due paesi è diventato comunque motivo di seria preoccupazione per l’establishment militare e i responsabili politici statunitensi.

Nonostante l'investimento di miliardi di dollari nei propri programmi di acquisizione, con costruzione navale nazionale, gli Stati Uniti devono costantemente registrare notevoli sforamenti del budget e subire gravi ritardi nelle consegne (rapporto GAO marzo 2025) con stime per alcune classi che già arrivano a tre anni.

Gli Stati Uniti si trovano quindi di fronte alla prospettiva di perdere il tradizionale dominio del mare, tanto costosamente raggiunto, e non solo sono afflitti da ritardi ma hanno perso molte delle capacità e possibilità di costruzione navale.

La focalizzazione sull'Indo-Pacifico, teatro dove necessariamente e prioritariamente contrastare l’ascesa e soprattutto le pretese cinesi, non fa che risaltare i problemi, le tre sfide contemporanee già menzionate.

Utilizzando nel possibile le stesse fonti per poter sviluppare corrette analisi comparative, il rapporto del Government Accountability Office (GAO) degli Stati Uniti del febbraio 2025 pone in evidenza problemi e alternative, con possibili soluzioni, in particolare riguardo alle quanto mai necessarie nuove costruzioni, che si possono riassumere come segue:

  1. I cantieri navali statunitensi non hanno capacità, ma neppure spazi fisici e moderne attrezzature necessari per costruire e consegnare in tempi utili il “volume” di naviglio sollecitato dalla U.S. Navy. Allo stesso modo, i cantieri navali statunitensi soffrono di infrastrutture obsolete che incidono non solo sui tempi ma su tutti gli aspetti di costruzione.
  2. Tutta la filiera dell’industria navale deve affrontare un notevole deficit di risorse umane, come risultato di una miope politica ultradecennale (che ha riguardato anche altri paesi occidentali, in nome della razionalizzazione e della globalizzazione). In pratica non si dispone né numericamente né come preparazione dei lavoratori necessari per soddisfare le richieste e le esigenze di costruzione. La ricerca da parte delle imprese interessate è, sotto certi aspetti, anche un suicidio/fratricidio dell’intero settore.

Per equilibrare la crescita numerica e l’attivismo navale della Cina, e contrastarne aspirazioni ed azioni, gli Stati Uniti dovrebbero costruire e immettere rapidamente in servizio un notevole numero di unità, di vario tipo.

Ai due colli di bottiglia della costruzione di cui sopra, si aggiunge un ulteriore problema: i costi, una sfida in quanto intervengono interessi consolidati (compresi quelli dei fornitori, i cantieri in testa, che delle ridefinizioni, i cambi di specifiche, gli adeguamenti dei sistemi e la conseguente riprogettazione, hanno fatto scudo per le proprie deficienze, assumendole addirittura come capitoli di reddito).

I programmi, paralleli, di mantenimento in efficienza della flotta attuale e di nuove costruzioni, sono parimenti risultati fuori controllo: manutenzione, riparazione, refitting presentano sforamenti inaccettabili di tempi, in anni, e costi, in termini di miliardi di dollari; il costo delle nuove “unità maggiori” come le portaerei è significativamente superiore alle previsioni ed agli stanziamenti iniziali.

I problemi riguardano tutte le tipologie di unità, ma per evidenziare i fenomeni può essere opportuno portare a campione il programma delle “super-portaerei” a propulsione nucleare della classe Ford: approvato nel 2007 e previsto di quattro unità, contrattualizzate a più di 13 miliardi di dollari di costo unitario, ha presentato e presenta extra prezzi incontrollabili nel corso della costruzione, spesso ripetitivi per ciascuna nave.

La costruzione della prima unità della classe, la USS Gerald R. Ford (CVN-78), completata nel 2017, ha richiesto più di un decennio, ma l’unità è stata classificata “combat ready” solo nell'aprile 2023, dopo grandi difficoltà nel completare le prove in mare ed i tests di qualificazione, difficoltà oggetto di rimpalli tra committente e fornitore, con dure critiche per sistemi difettosi.

Certamente parte dei costi e dei ritardi si possono e si devono addebitare a innovazioni e all’adozione di nuove tecnologie, ma ciò avrebbe dovuto riguardare la prima unità, il prototipo, ed affliggere meno le unità successive.

USS FORD CVN 78 e USS Bataan LHH 5 – le dimensioni hanno un senso = complessità del programma

Con le dovute distanze si possono e si devono studiare analogie e diversità su costruzioni di pari complessità (salvo la propulsione) in altri contesti industriali ed in altre marine, anche se le date (ed il contesto industriale di quel momento) possono influenzare l’analisi: l’Unione Sovietica impostò l'Admiral Kuznetsov nell'aprile 1982, varata nel dicembre 1985, entrata in servizio nel gennaio 1991, un processo che durò un totale di nove anni in piena crisi sistemica del paese, ma, a distanza di un ventennio, la Cina ha impostato la Shandong nel marzo 2015, varata nell'aprile 2017, entrata in servizio nel dicembre 2019, un periodo di 4,5 anni (reale operatività a parte).

Il Regno Unito ha impostato la HMS Queen Elizabeth nel luglio 2009, l'ha varata nel luglio 2014 e l'ha messa in servizio nel dicembre 2017, un periodo di otto anni.

Nell’unico caso di propulsione nucleare, in Europa, in Francia, la Charles de Gaulle tra impostazione ed entrata in servizio sono trascorsi 12 anni (tralasciando problemi di completa operatività).

Il problema delle costruzioni navali e dei tempi totali di acquisizione non riguarda però solo il caso - tipico della U.S. Navy - delle mega unità, anche simbolo del potere sul mare, ma riguarda purtroppo ogni programma, tanto da portare alla convinzione ed alla rassegnazione che la costruzione navale statunitense, ricorrendo alla terminologia medica delle emergenze, sia una sorta di pronto soccorso in situazione perenne di triage, con continua necessità di scelte, anche dolorose, e pertanto di approssimazioni successive.

Occorrono una strategia industriale ed una politica industriale innovativa e di largo respiro, lontane dalle attuali prassi che impongono valutazioni e selezioni immediati, in corsa (tipici del triage): non si devono avere rianimatori al capezzale di un malato (grave) ma si devono cercare partners e supporti per affrontare un percorso che sarà lungo e difficile, e per questo considerare anche gli alleati.

Un rapporto dello scorso marzo (2025) del GAO, Government Accountability Office degli Stati Uniti, concernente l’acquisizione di nuove fregate dopo la disastrosa stagione delle LCS, ha attribuito colpe prevalentemente alla U.S. Navy per un contratto in origine destinato a rispondere in forma sicura ed economica ad una specifica urgenza e poi diventato problema annoso, segnalando che "...l'approccio di acquisizione di nuove unità da parte della Marina non è in linea con moderni ed opportuni processi che premino tempestività e preventivi con la consegna navi pienamente rispondenti alle aspettative e alle specifiche".

Il rapporto ricorda come sull’onda dell’inderogabile urgenza la U.S. Navy abbia ordinato a Fincantieri, già nel 2020 durante la prima amministrazione Trump, la costruzione delle fregate classe Constellation, le prime di una notevole serie da replicare possibilmente in altri cantieri.

Il rapporto, pur colpendo la U.S. Navy, evidenza l’incognita e la cattiva (e forse interessata) pratica dei fornitori di sottoscrivere contratti già con la consapevolezza di non poter adempiere agli obblighi sottoscritti.

Il progetto era basato su quello delle fregate FREMM che Fincantieri aveva costruito per la Marina Militare, con la U.S. Navy che aveva giudicato come "i progetti di base e funzionali" fossero completi e rispondessero alle proprie specifiche intorno all'88%.

Dopo cinque anni, la realtà è ben diversa, con la U.S. Navy che - dopo aver chiesto tutta una serie di modifiche al progetto - è stata costretta a riconoscere come lo stesso, quasi in una sorta di regressione, sia completo solo al 70%, con ritardi accumulati di almeno tre anni “... il risultato di tali modifiche ha portato le fregate a una minima somiglianza con il progetto originale, che era stato 'propagandato' dalla stessa U.S. Navy come misura di riduzione dei rischi del passato”.

Le revisioni, vera riprogettazione, ancora in corso (2025), ha tra l’altro comportato un incremento del dislocamento tale da superare ampiamente i margini disponibili, al punto da dover già riconsiderare una riduzione della velocità contrattuale per risolvere problemi tecnici e contenziosi contrattuali.

Il sogno del momento- Le fregate FFG62 (Classe Constellation) pienamente operative

Un ulteriore dimostrazione di come, in generale, la cantieristica statunitense non sia stata in grado di costruire unità navali nei tempi previsti e nel budget approvato (lasciando contemporaneamente scoperto il settore mercantile).

I grandi conglomerati che ormai caratterizzano il settore, di fatto spartendosi le commesse, hanno fatto poco per cercare soluzioni: problema annoso, tanto che sui media si ripropongono costantemente gli argomenti di un articolo, addirittura del 2019, di John M. Donelly che denunciava come "...contrariamente alla politica della U.S. Navy, e nonostante una media di stanziamenti di quasi 16 miliardi di dollari per nuove costruzioni in ciascuno degli ultimi 30 anni, la maggior parte di queste viene consegnata con difetti abbastanza significativi da comprometterne l’operatività ..., secondo riscontri del GAO, ... una cattiva prassi che rischia di diventare la norma...". quella cattiva prassi che come già menzionato ha permesso si fornitori di sottoscrivere contratti già con la consapevolezza di non poter adempiere agli obblighi sottoscritti e persino di lucrare sulle inadempienze (con riflessioni da estendere anche ad altri settori ed altre latitudini).

Tornando all’attualità, marzo 2025, ed al perverso gioco dei numeri il più recente dei rapporti presentati al Congresso (Battle Force Ships Assessment and Requirement) fa riferimento ad una “forza” di 381 unità, un incremento rispetto all'obiettivo di 373 unità del rapporto del 2022.

Gli Stati Uniti stanno cercando di individuare ed adottare misure che permettano di tenere il passo con i principali competitors/avversari, in primo luogo, ovviamente, la Cina ma anche cominciando a tener conto delle velleità russe, sia in termini numerici sia come concentrazione in specifiche aree molto sensibili, ad esempio l’Artico, nevralgiche per la difesa ma anche per l’economia statunitense ed occidentale, in un’ottica ormai evidente di ritorno ai blocchi.

Queste sfide – i tempi di fornitura e la loro incertezza, i costi, l'inaffidabilità delle aziende private sulla base delle esperienze passate e gli imperativi competitivi legati ad altre potenze (l'ascesa cinese ma anche la “rinascita” russa, sia navale che mercantile) – sollevano seri interrogativi su come gli Stati Uniti possano soddisfare le loro crescenti esigenze.

Per limitarsi agli aspetti navali, la U.S. Navy dispone di tre opzioni per raggiungere e mantenere un livello adeguato di credibilità, numerica e di efficienza:

  1. Nuove costruzioni, con norme molto vincolanti e restrittive di produzione nazionale,
  2. Refitting delle unità in linea (con problemi di costi, tempi, infrastrutture),
  3. Acquisire, con deroghe legislative e l'autorizzazione del Congresso, un numero limitato di navi da costruite all'estero (e solo per alcune tipologie, considerando per specifici impieghi anche il ricorso all’“usato” reperibile sul mercato commerciale, come nel caso delle unità logistiche, con differenze abissali, sino a 26 -ventisei- volte per unità di nuova costruzione, secondo dichiarazioni dell’ex responsabile del Transportation Command, Steve Lyons).

L’esperienza ha messo in luce come il refitting (nelle condizioni attuali dell’industria navale nazionale) di unità, con una previsione di un ciclo di vita di 60 anni per alcune tipologie, non solo mette gli Stati Uniti in una posizione di svantaggio rispetto agli avversari high-tech, ma che interventi oltre il ciclo di vita inizialmente previsto risultano sino a tre volte più costosi e richiedono il doppio del tempo previsto per il completamento.

Va allo stesso tempo considerato, in termini di efficacia, il fattore invecchiamento della flotta (occidentale, non solo statunitense) in svantaggio rispetto alle possibilità cinesi.

Le difficoltà dell’industria, la minore capacità di costruzione, impongono peraltro il ricorso al refitting anche quando non sarebbe l’opzione più opportuna e conveniente, pur di mantenere un equilibrio numerico e di capacità di dispiegamento diffuso, multi-teatro.

Per le considerazioni di cui al precedente punto 3), i senatori Lee e Curtis hanno presentato due proposte di legge volte a migliorare la prontezza e le capacità della Marina e della Guardia Costiera degli Stati Uniti, che potrebbero aprire le porte ai cantieri navali stranieri per nuove costruzioni navali statunitensi, condividendo strategie e capacità industriali con alleati selezionati e particolarmente affidabili.

Proposte legislative sintetizzabili in due punti:

  • Consentire alla U.S. Navy di affidare la costruzione di una nave o di una componente importante dello scafo o delle sovrastrutture in un cantiere navale straniero, purché il cantiere navale si trovi in un paese membro della NATO o in un paese indo-pacifico con il quale gli Stati Uniti hanno in vigore un accordo di mutua difesa;
  • Garantire la sicurezza dei cantieri navali selezionati, richiedendo al Segretario della Marina degli Stati Uniti di certificare, prima della commessa di unità statunitensi, che tali strutture non siano di proprietà né gestite da soggetti cinesi o da multinazionali domiciliate in Cina.

In parallelo a questa linea, politica, secondo canoni “tradizionali” e per unità “tradizionali” sta montando un movimento, non si quanto moda del momento o giustificazione di tendenze e scelte “a priori”, verso una transizione dello strumento militare, da forze “massicce” e potenti, come quelle delle grandi potenze, verso profili di forza più agili e più piccoli, basati sull'intelligenza artificiale. Una transizione propugnata anche come forma di compensazione del divario numerico (dimenticando al rispetto che tale scelta riguarderebbe, senza nessun riequilibrio, entrambe le parti).

Chiudendo questa parentesi come doverosa citazione, e riservandosi di tornare sul tema, la costruzione navale è un processo complesso: secondo i canoni adottati e riconosciuti dal GAO, si possono in media identificare otto fasi di acquisizione di nuove unità, dalla sottoscrizione di un contratto alle fasi di progettazione e costruzione, fino al varo e alla consegna della nave, e su ciascuna di queste fasi si possono prospettare diversi interventi correttivi, che hanno portato o stanno portando a nuove ipotesi di soluzione dei problemi o criticità riscontrati.

Secondo il DoD (Dipartimento della Difesa) attualmente risultano sottoscritti 92 contratti di costruzione a favore della U.S. Navy, di cui 56 in fase di realizzazione, anche avanzata.

Il quasi scoraggiante rapporto del GAO arriva in un momento in cui la nuova amministrazione ha annunciato l'intenzione di accentrare alla Casa Bianca le responsabilità della costruzione navale e il Dipartimento della Difesa ha dato priorità a un focus sulla regione indo-pacifica in tutti i suoi aspetti.

È in questo contesto che da più parti, non tradizionali, si propugna – tutto da dimostrare – un modello, forse più di integrazione che di transizione come sopra richiamato, modello che potrebbe risultare valido anche in altre latitudini ed in altri teatri operativi, con o senza collegamenti con l’evoluzione (o moda) in corso negli USA.

Secondo tale modello le startup tecnologiche possono diventare parte delle soluzioni e contribuire ad aiutare e affrontare lacune di produzione e contenere le spese in termini di costo/efficacia (e allo stesso tempo contribuire a “fare massa” di presenza e reazione navale, anche se occorre ricordare che i fattori del potere navale e della sua credibilità ed esercizio sono molteplici e non certo e non solo numerici).

Senza sopravalutarne l‘importanza e la portata, i sistemi basati sull’AI, oggi di moda e pensandoci bene neppure una novità in campo militare, con i recenti eventi sul campo e con gli esiti di confronti in cui forze asimmetriche minori hanno condizionato risorse che in precedenza si ritenevano vincenti, impongono e fanno riflettere su nuove strategie. Ciò non implica cambi repentini nell'equilibrio di potere, né nelle forme né negli strumenti per esercitarlo, ma può essere indice della crescente importanza dell’integrazione in forze armate “massicce” e strutturate di profili di forza più agili e ridotti. Errato parlare di alternative. Certamente prospetta un altro caso intrigante che gli strateghi hanno tenuto sotto controllo.

In proposito è difficile parlare di numeri, fare previsioni, stabilire confronti: si parla ancora di possibilità e potenzialità, qualcosa si intravede in campo occidentale, meno si riesce a sapere e valutare riguardo i potenziali avversari. 

Si è aperto un nuovo settore, una necessità di investimenti per la Difesa che può essere più equilibrata e motivo di riequilibrio tra alleati, anche per gli intrecci e le modalità economiche che si stanno prospettando in termini di partenariato pubblico privato.

L’“America” sta premendo sull’Europa per l’adeguamento degli stanziamenti militari: è una posizione generale degli Stati Uniti che non dipende da questo o quel presidente, ma ha radici profonde ed è una questione strategica globale al di là dei conflitti recenti o in corso.

Esaminando freddamente la richiesta e la necessità, in termini di reiproci interessi, certamente si tratta di alleggerire la posizione americana sul fronte occidentale, perché l’“America” deve impegnarsi di più sul fronte orientale, asiatico, ma questo è specularmente interesse e utilità degli alleati europei (anche se non viene trattato ed evidenziato come sarebbe necessario).

Un segnale dal doppio risvolto, che può essere giocato dall’amministrazione statunitense di turno come contributo e giustificazione del proprio gravoso bilancio, con stanziamenti per la Difesa in continua crescita.

Con questo maggiore impegno europeo l’alleanza politico militare occidentale può risultare più equilibrata e soprattutto duratura: sinora è stata zoppicante, con una sola stampella, ma per essere efficace deve camminare con gambe proprie, se necessario correre; una corsa ad ostacoli dove servono anche le gambe degli alleati europei e asiatici, ben oltre la consunta stampella americana.

Si tratta di passare da una situazione in cui l’America saltellava su una sola gamba e con una sola stampella da una parte all’altra del mondo a una situazione in cui la componente americana dell’alleanza potrebbe svilupparsi e contribuire in maniera tentacolare, in maniera più incisiva, pervasiva ma (almeno in parte e almeno apparentemente) anche meno onerosa per i contribuenti USA.

È un quadro che finalmente comincia a trovare accettazione prima ancora che in politica tra economisti ed analisti europei, malgrado il maldestro e controproducente approccio “Rearm Europe”: il pacifismo demagogico non da dividendi, gli investimenti per la difesa, oltre a garantire la sicurezza necessaria per la crescita, possono essere opportunità di notevole ricaduta (e questo è particolarmente valido per il nostro paese che deve reindustrializzarsi in forma moderna e durevole).

La pace ha un costo e deve basarsi su credibilità, deterrenza e presupposti certi, anche economici; il pacifismo come tale (che non è né la volontà né la ricerca della pace...) non solo non da dividendi ma crea isolamento, fa perdere potere contrattuale, e questo ha un costo altissimo, insostenibile per paese come il nostro.

Siamo un paese che deve ritrovare la propria marittimità, perché la sua stessa sopravvivenza - prima ancora che il suo sviluppo ed il suo benessere - dipende dal mare

Essere partecipi del potere marittimo, anche nei suoi aspetti navali, è un dovere, prima ancora che un’aspirazione, è l’obbligo di investire risorse considerando quanto fanno copiosamente i potenziali avversari.

Foto: U.S. Navy / GAO / Fincantieri