Politica estera: ne abbiamo ancora bisogno?

(di Giuseppe De Giorgi)
21/11/18

La grande assente ai tavoli internazionali. Quello che molti economisti ed esperti di politica oggi studiano è proprio la mancanza tra gli Stati moderni di una politica estera di grande respiro. Dagli Stati Uniti alla Francia, all’Italia, il mondo sembra oggi essere percepito come un magma ingovernabile la cui sfide sfuggono alla capacità di pianificazione dei Governi. In sostanza si naviga a vista.

Quasi tutti i Paesi importanti dell’Occidente, infatti, preferiscono subordinare le scelte di politica estera alle necessità immediate di politica interna. E così il dialogo tra Paesi, che può servire proprio ad evitare disastri, è il grande assente nella scena politica mondiale. Ne è un chiaro esempio il caso che persino l’Amministrazione Trump non abbia mai completato le nomine al dipartimento di Stato, in questo modo la politica estera americana è finita sostanzialmente in mano, ad interim, ai cosiddetti “acting” senza potere, con tutte le conseguenze del caso.

“American First” è stato ed è il motto del neo presidente, una politica di “rientro” dentro i confini nazionali già iniziata con la precedente amministrazione e accelerata da quella odierna. Non troppo diverso è il caso della Gran Bretagna dove, nonostante una perfetta macchina diplomatica, si preferisce l’isolamento dallo scenario internazionale ed una piena inversione di rotta rispetto al passato con la Brexit in divenire. La Germania, dal canto suo, è invece concentrata sui dossier europei e sulla riemersione delle pulsioni xenofobe antisemite.

Il paese europeo più attivo sullo scenario mondiale è sempre stato tradizionalmente quello francese, ma le preoccupazioni domestiche stanno limitando la visione globale del suo presidente che sta pagando, fra l’altro, lo scotto di predicare bene e di razzolare malissimo, volendo inseguire il sogno di un’Europa francese nonostante le sue ecumeniche dichiarazioni di segno contrario.

L’Italia, poi, sembra aver rinunciato ad ogni impegno in politica estera. Questa crisi di visione evidenziata dall’Occidente non trova invece riscontro in Oriente. Russia, Cina, Turchia hanno definito e stanno attuando linee d’azione di lungo periodo frutto di precise strategie che danno coerenza e incisività alla loro azione sia nel campo militare che in generale di politica estera, come si vede in Siria, in Mediterraneo, nel Mar della Cina, in Africa Orientale (via della seta inclusa), etc..

E l’Europa? Dopo aver costruito un grande mercato, garantito diritti e libertà fondamentali dei propri cittadini, aver costruito le basi di una comune politica economica, il processo sembra essersi ormai fermato. Per rilanciare la forza dell’Unione Europea servirebbe la completa rinuncia alla sovranità nazionale dei singoli Stati, per dare vita a una federazione di Regioni semi-autonome (ma non troppo), con la Politica estera, militare e macroeconomica guidata da un Governo centrale. Dopo la rinuncia a batter moneta, sarebbe quindi necessario perdere un altro dei pilastri identificativi di una nazione indipendente, le proprie Forze Armate.

Per molto tempo l’Italia ha visto con favore questa ipotesi in quanto come stato sconfitto dagli alleati si trattava di perdere poco, in quanto Nazione già a sovranità limitata, peraltro insofferente verso il mondo militare.

La nostra classe politica vedeva con favore tale ipotesi per potersi concentrare sulla gestione del potere, senza la responsabilità della sicurezza e dell’interesse nazionale, in quanto delegate prima agli USA e poi eventualmente all’Europa.

Oggi il nazionalismo sta rinascendo in un’Europa indebolita dall’allargamento del suo perimetro a 28 nazioni assai poco uniformi sotto il profilo culturale e dei valori fondanti. Da un’Europa a 6 popoli di matrice Latina e Germanica si è passati, non a caso sotto la spinta Americana dell’Amministrazione Bush al coacervo attuale. La Brexit è il caso più evidente delle forze centrifughe in atto alimentate dal “rigetto” verso un’idea d’Europa sempre più percepita come estranea agli ideali iniziali e condivisi dai fondatori.

Lecito è chiedersi quale potrebbe essere il ruolo dell’Italia in questo scenario. Da un punto di vista geopolitico, infatti, il nostro Paese è una terra di “mezzo”: non al centro della massa continentale europea come la Germania o la Francia, non più frontiera avanzata dell’Impero americano, ma pur sempre il prolungamento meridionale dell’Europa verso un mare tuttora importante come il Mediterraneo. Da questa posizione, l’Italia ha sempre dovuto guardarsi contemporaneamente sia dall’Occidente sia dall’Oriente. Di qui la naturale predisposizione alla duplicità del nostro stare in Europa, vista dai partner come doppiezza levantina nel cercare di giocare contemporaneamente su più tavoli.

In passato il nostro Paese, pur legato con vincoli saldi agli Stati Uniti nella guerra fredda, non cessò mai di tentare di aprirsi un proprio spazio in quadranti geografici alternativi, cercando in questo modo di bilanciare ed attenuare le conseguenze del vincolo con l’America (vds il rapporto privilegiato con il Fronte di Liberazione Palestinese dei tempi di Andreotti e Craxi, in cambio della sospensione di attacchi terroristici in Italia).

Dalla fine del secolo scorso, anche le residue linee d’azione a disposizione dei governi italiani verso l’estero paiono perdere di spinta. Il venir meno dell’interesse degli Stati Uniti verso l’Italia, unitamente alla rinuncia al multilateralismo, implicita nella deriva sovranista, espone la natura di vaso di coccio dell’Italia fra vasi di ferro nell’arena internazionale. L’irrilevanza militare Italiana, sia in termini di mezzi che forse soprattutto della volontà/credibilità di un suo impiego per operazioni d’interesse nazionale, è senz’altro uno dei fattori di debolezza che rende difficile per l’Italia sviluppare politiche funzionali autonome, in scenari di profonde crisi e situazioni complesse come sono quelli dell’Africa settentrionale e del Medio Oriente. A rendere più pericoloso il contesto vi è senz’altro l’atteggiamento della Russia. Un tempo chiusa in sé stessa, è ora pronta a stringere rapporti con chiunque possa portare avanti la sua politica Zarista verso i mari caldi e in chiave anti-europea, non di rado in sintonia con le pulsioni del presidente Trump, anch’egli nemico di un’Europa forte e coesa.

Perfino la Turchia sviluppa una politica neo ottomana che la vede contrapporsi, con successo, all’Italia ad esempio nella valorizzazione dei giacimenti di gas naturale del Mediterraneo Orientale, senza che vi siano segnali di resistenza e di contenimento da parte del Governo Italiano. In Libia, l’Italia in affanno, si barcamena come può fra Francia, Qatar, EAU, Egitto e ovviamente Russia.

Yalta aveva affidato l’Italia alla tutela degli Stati Uniti, che hanno determinato la nostra politica estera dalla rovinosa sconfitta della Seconda Guerra Mondiale ad oggi, consentendo alla nostra classe politica di concentrarsi sulla sola politica interna, coerentemente con lo status di un Paese sconfitto e occupato/garantito militarmente dalle Potenze vittoriose.

Con il venir meno della garanzia e della tutela dello Zio Sam, sarà la nostra nuova classe dirigente capace di affrontare le conseguenze che la ricerca di sovranità nazionale imporrà?

Dall’ennesimo taglio al bilancio della Difesa, in continuità con la maggioranza dei governi precedenti, non sembrerebbe di percepire alcun cambiamento.

(foto: Presidenza del Consiglio dei Ministri / Eliseo)