Lo sviluppo della strategia navale cinese e il confronto con gli Stati Uniti

(di Tiziano Ciocchetti)
30/06/20

Secondo l’Accademia Cinese delle Scienze Militari la strategia navale nazionale deve avere l’obiettivo primario di espandere il potere marittimo e quindi gli interessi strategici cinesi. Infatti, dal punto di vista di Pechino, i mari che bagnano la Cina sono occupati da forze ostili e la catena di isole nelle vicinanze del continente costituiscono una minaccia alla sicurezza marittima del paese.

La crisi di Taiwan del 1996 costituisce una sorta di spartiacque, allorquando due gruppi di portaerei della U.S. Navy bloccarono gli stretti: con ciò venne oltremodo evidenziato l’impotenza operativa della PLAN (People’s Liberation Army Navy).

Da allora la Cina sta operando per garantirsi maggiore profondità strategica, non solo nell’Oceano Indiano attraverso il Mar Cinese Meridionale (con la base di Gwadar in Pakistan e quella di Gibuti) ma anche oltre Taiwan e le isole Ryukiu, verso il Pacifico orientale.

Proprio la politica muscolare di Pechino sta spingendo molti paesi asiatici a formare nuove alleanze, nell’ottica di una politica di contenimento della Cina.

Le crescenti preoccupazioni per il potenziale militare cinese hanno portato molte nazioni a collaborare, ma ha anche evidenziato che, oltre al timore per l’assertività cinese, è possibile instaurare una proficua collaborazione nel settore della sicurezza.

Il 25 maggio del 2007 avvenne il primo incontro, a Manila, del Quadrilateral Security Dialogue, un forum intergovernativo che coinvolge i governi di Stati Uniti, Giappone, Australia e India. Nato da un’idea del Premier giapponese Shinzȏ Abe, il quale voleva allargare all’India gli incontri del già esistente Trilateral Strategic Dialogue fra Stati Uniti, Giappone e Australia.

Questo forum non ha comportato impegni ufficiali e non ha neanche stabilito un programma definitivo, tuttavia rappresenta uno spazio per la cooperazione dei paesi partecipanti che hanno poi sviluppato, l’uno con l’altro, collaborazioni più profonde nel campo militare.

Nel 2017 gli Stati Uniti hanno annunciato di voler incrementare la collaborazione militare con il Giappone, l’India e l’Australia, aumentando il valore strategico di queste relazioni con le nazioni della regione indo-pacifica. Tale espressione, in sostituzione della precedente regione asia-pacifico, indica l’importanza data da Washington alla cooperazione con l’India.

È indubbio che, in questa regione dell’Asia, le alleanze ruotano intorno al Giappone. Nonostante la politica super aggressiva di Tokyo, nella Seconda Guerra Mondiale, nei confronti degli altri stati asiatici, il Giappone ha avuto il merito di cacciare le Potenze coloniali dal continente (tra l’altro i giapponesi fornirono un grande appoggio al leader indipendentista indiano Chandra Bose). Il concetto si basava sullo slogan l’Asia agli asiatici e sostenuto dalla postulazione di una politica Panasiatica, anche se applicata solo in modo parziale.

Ancora oggi, le relazioni tra Nuova Delhi e Tokyo, sono cementate da interessi comuni e valori condivisi, come l’architettura democratica basata su libere elezioni (anche se in India è molto diffuso il sistema clientelare) e una rappresentanza parlamentare. Soprattutto sono convergenti le posizioni politiche su temi come la sicurezza e in particolare la difesa delle rotte commerciali.

L’India è assai preoccupata per la presenza della PLAN nell’Oceano Indiano, con l’implemento delle capacità navali di Pechino che minaccia l’intera aerea, ma anche per i contrasti territoriali al confine tra i due giganti asiatici, nell’Arunachal Pradesh e nella regione di Ladakh, nel Kashmir.

Un altro terreno di scontro è sicuramente il Tibet. La Cina ha occupato il paese più alto della Terra sia per impedire all’India di impossessarsene, sia per impedire a un Tibet indipendente di ospitare truppe di Nuova Delhi, che gli consentirebbe il controllo strategico della regione.

Per questi motivi la collaborazione militare tra l’india e il Giappone è cresciuta sempre di più, sfociando nel 2008 con un accordo formale denominato Joint Declaration on Security Cooperation between Japan and India, il quale prevede una condivisione della politica estera, incontri regolari tra i ministri della Difesa, la cooperazione delle forze militari (attraverso esercitazioni congiunte), lo scambio di informazioni e, possibilmente, la collaborazione nel settore dell’industria militare.

Un altro attore asiatico, fondamentale per il contenimento della Cina, è l’Australia. Anche in questo caso il Giappone gioca un importante ruolo di trade union con l’alleato americano, in quanto Tokyo ha stretto nel 2007 un accordo con il governo di Canberra su questioni riguardanti la Difesa, denominato Joint Declaration on Security Cooperation.

L’accordo prevede la collaborazione in campo militare, con incontri periodici fra i ministri degli Esteri e della Difesa, che permettono di avviare nuovi progetti comuni e soprattutto di esprimere una posizione politica condivisa nei confronti della Cina.

Dal punto di vista strettamente militare, Giappone e Australia, impiegano molti sistemi d’arma statunitensi. Un caso emblematico è rappresentato dal caccia statunitense di 5° generazione Lockheed Martin F-35 Lightning II, acquistato dai due Paesi che potranno avvalersi di strutture locali per la manutenzione, la riparazione e l’integrazione degli armamenti trasportati. S prevede, quindi, una cooperazione e attività operative comuni onde sfruttare al meglio le potenzialità del nuovo velivolo.

LE CAPACITÀ A2/AD DELLA CINA

Figura emblematica, nella strategia espansionistica di Pechino, è certamente quella del terzo comandante della flotta cinese Liu Huaqing che nel 1994, quando era al vertice della Commissione Militare Centrale, lanciò un programma di riforma dell’industria della Difesa, finalizzato a persuadere Taipei e Washington che l’insieme delle forze cinesi avrebbero potuto condurre vittoriosamente una guerra aero-navale nello stretto di Formosa, se i taiwanesi avessero osato proclamare l’indipendenza.

Tale visione venne recepita nel 2012, al 18° Congresso del Partito Comunista Cinese, dal presidente Hu Jintao il quale affermò che la marina militare cinese sarebbe dovuta diventare egemone, tanto da trasformare il paese in una potenza navale.

Secondo le teorie di Liu c’erano due catene di isole che dovevano assolutamente cadere sotto il controllo della Cina.

La prima era formata dall’arcipelago del Giappone, le isole Ryukyu, Taiwan, le Filippine e la Malesia, mentre la seconda è formata dalle isole Marianne, Guam e Palau.

Componente essenziale delle capacità navale A2/AD (Anti-Access/Area Denial) – gli strumenti per porre in atto tale strategia sono molteplici, e possono andare dai sistemi missilistici di difesa aerea integrati, alle batterie mobili per la difesa costiera, ai missili cruise - della Cina sono i sottomarini a propulsione nucleare, alloggiati in tre basi: una ubicata vicino a Lushunku nel nord, una a Qingdao sul Mar Giallo e la terza a Sanya, nell’isola di Hainan a sud.

La base di Qingdao, ubicata a nord-ovest, sorge sotto le montagne e rappresenta il miglior accesso rapido alla prima catena di isole e al Giappone – la profondità media del Mar Giallo è di 44 metri, mentre i sottomarini nucleari, per muoversi senza produrre eccessivi rumori necessitano di almeno 70 metri di profondità - tuttavia, nonostante l’ottima posizione, Qingdao sta vivendo un parziale declino in coincidenza con l’ascesa della seconda base di sottomarini nell’isola di Hainan, in pieno Mar Cinese Meridionale.

A supporto dell’importanza geo-strategica di Hainan ci sono due elementi. Il primo è la vicinanza delle sue basi ai tre Choke-Point strategici di Malacca, Lombok e della Sonda, i quali rappresentano accessi vitali per le rotte energetiche della Cina.

Dal 2008 Pechino sta effettuando pattugliamenti nell’Oceano Indiano in funzione antipirateria, principalmente con unità appartenenti alla Flotta del Sud. Hainan, dominando il Mar Cinese Meridionale, si trova nella posizione migliore per l’impiego dei sottomarini a propulsione nucleare. Proprio negli ultimi anni la Marina cinese ha cominciato a proiettare i sottomarini nell’Oceano Indiano, impiegandoli – almeno ufficialmente - nei pattugliamenti antipirateria. Un SSN (Submersible Ship Nuclear) e un sottomarino convenzionale si alternano periodicamente, in modo da garantire una presenza stabile negli stretti di Malacca o della Sonda.

Tra il 2013 e il 2018, i sottomarini cinesi hanno toccato diversi porti che si affacciano sull’Oceano Indiano, come quello di Colombo nello Sri Lanka e quello di Karachi in Pakistan. In tal modo, la Marina cinese sta acquisendo competenze in operazioni a lungo raggio, in prossimità dell’India, la cui marina militare sta incrementando la flotta di SSBN (Submersible Ship Ballistic Nuclear) e li equipaggerà a breve termine con missili SLBM (Submarine-Launched Ballistic Missile) K-4, in grado di colpire il territorio cinese.

In tale contesto strategico emerge l’importanza di Hainan e della sua base navale di Sanya-Longpo, dove sono stanziati i sottomarini nucleari classe Jin e classe Shang.

L’isola di Hainan è situata a 420 km a ovest di Hong Kong e negli ultimi anni sta conoscendo un grande sviluppo nel settore delle infrastrutture. Situata a una latitudine vicina all’equatore, occupa una posizione invidiabile per il lancio di vettori spaziali (nonché missili balistici), in quanto può sfruttare la maggiore velocità di rotazione della Terra e la minore distanza dalle orbite geostazionarie.

A circa 1.000 km di distanza ci sono le isole Spratly (v.articolo), mentre le coste della Malesia si trovano a più di 1.600 km a sud, su questa rotta vi transitano circa il 75% degli idrocarburi importati dalla Cina e più del 65% delle sue esportazioni manufatturiere. Quindi sono rotte marittime di vitale importanza per Pechino, da difendere anche con l’utilizzo dei sottomarini nucleari lanciamissili.

La base di Hainan è l’ideale per l’impiego delle forze nucleari della marina, in quanto le acque che circondano l’isola sono molto profonde. Infatti, i dati batimetrici descrivono fondali profondi 500 metri, largamente sufficiente a eludere le apparecchiature di lotta antisom e i sonar nemici. La linea di sonda dei 200 metri comincia a 30 miglia marine dalla costa, quella dei 500 metri a 54 miglia marine, quanto necessita a un sottomarino nucleare per immergersi due ore dopo aver salpato.

Inoltre costituisce una fortezza naturale, con un’altitudine media di 500 metri e il monte Wuzhi che supera i 1.800 metri. Difesa in maniera massiccia, l’isola ha uno scudo di guerra elettronica e una base aerea in forte espansione, dove sono schierati i caccia J-11B e i cacciabombardieri JH-7A appartenenti alla 9ᵃ Divisione d’Aviazione della Marina cinese.

L’isola di Hainan è incastonata in un sistema difensivo, protetta a triangolo dalle Paracel e, più in profondità, dalle Spratly/Nansha, ormai consolidate con i polder, ovvero le lingue di mare artificiali create nel 2013. Fortificare i polder significa impedire in profondità, ad un eventuale aggressore, gli accessi alle coste cinesi e, comunque, impedire il rifornimento dell’isola di Taiwan.

Un’altra missione chiave della forza nucleare subacquea cinese è quella di attraversare in modo occulto lo stretto di Luzon, che separa Taiwan dalle Filippine, e raggiungere l’Oceano Pacifico. Infatti, per i cinesi, il dispiegamento di sottomarini nucleari d’attacco nel teatro del Pacifico, viene concepito come una barriera difensiva estesa, nella logica A2/AD, per contrastare i gruppi di portaerei statunitensi che tentassero di portare soccorso a Taiwan, partendo dal Giappone e dalle isole Hawaii.

Le continue attività – soprattutto rivolte verso l’Arcipelago giapponese – dei battelli della Marina cinese lungo la prima catena di isole, e oltre, indicano inequivocabilmente la strategia operativa adottata da Pechino.

Indicativo l’episodio accaduto il 10 gennaio 2018, quando un sottomarino d’attacco classe Shang ha lambito l’isola di Taiwan per poi dirigersi verso le isole di Miyako e Yonaguni, strettoia strategica verso il Pacifico giapponese. Scortato da una fregata Type 054A (foto), il battello cinese è entrato la mattina dell’11 gennaio nella zona contigua all’isola di Taisho, che i cinesi chiamano Chiwei Yu e che fa parte dell’arcipelago delle Senkaku/Diaoyutai.

Un modo, da parte di Pechino, per mostrare bandiera e ribadire le capacità di proiezione della PLAN, in un’area del Pacifico preclusa, solo pochi anni fa, alle unità navali cinesi.

Quanto alla base navale di Sanya-Longpo/Yulin sembrerebbe che occupi una superficie di circa 25 km², con quattro bacini per SSBN e SSN, più altre due insenature per unità di superficie di grandi dimensioni, come la portaerei Liaoning (una seconda unità, la Shandong, dovrebbe essere consegnata nel 2020). Tale presenza suggerisce proiezioni congiunte con i sottomarini nucleari, con la missione di proteggere il Mar Cinese Meridionale da una possibile azione da parte delle forze antisom della U.S. Navy, almeno fino a quando gli SLBM cinesi non saranno in grado di minacciare il territorio americano direttamente dalla base navale.

I cinesi, quindi, starebbero mettendo in pratica una strategia già utilizzata dai sovietici nel corso della Guerra Fredda: i bastioni, concetto utilizzato al fine di proteggere i sottomarini SSBN, più rumorosi e quindi più vulnerabili.

È indubbio che, un ruolo primario nel pensiero geopolitico cinese, rivesta la possibile indipendenza dell’isola di Taiwan, tanto da costituire un elemento di fortissimo attrito nelle relazioni diplomatiche sino-americane. Il livello di tensione potrebbe ulteriormente aumentare qualora l’implemento delle capacità operative della PLAN – in particolare nelle logiche A2/AD - rendesse indifendibile l’isola al di sotto della soglia nucleare.

Tutto ciò è ben presente nei piani strategici di Pechino, fin quando, nel lontano 1985, l’ammiraglio Liu Huaqing, allora comandante in capo della Marina, elaborò la dottrina A2/AD nazionale, fortificando gli accessi al litorale cinese e proiettandosi ben oltre la prima e la seconda catena di isole, onde impedire ad un eventuale aggressore di avvicinarsi al continente.

Proprio a supporto di tale strategia, la Cina sta proiettando le forze strategiche in crociere a lungo raggio, allo scopo di aumentare l’addestramento della flotta e le capacità degli SSBN di colpire i gruppi aeronavali americani.

L’ammiraglio Liu Huaqing era convinto che la Cina avrebbe esteso la sua egemonia sulla prima catena di isole entro il 2010, mentre la seconda sarebbe stata assoggettata intorno al 2020, con il totale controllo dell’Oceano Indiano non più tardi del 2040.

Come i fatti hanno dimostrato, tali previsioni si sono rivelate eccessivamente ottimistiche, in quanto le unità della VII Flotta americana continuano a navigare - quasi indisturbate - perfino nel Mar Cinese Meridionale, ovvero nelle acque rivendicate da Pechino e, nonostante le ostentazioni di potenza militare da parte della Cina, in particolar modo sulle isole Spratly.

Le teorie di Liu, infatti, non prevedevano una reazione americana, anzi postulavano che si sarebbero ritirati di fronte all’aggressività di Pechino.

Di contro le varie Amministrazioni americane, che si sono succedute negli ultimi anni, hanno ritenuto quel tratto di mare una questione cruciale per le sorti del mondo (nonché per l’egemonia globale degli Stati Uniti), riservandogli una particolare attenzione, tanto da elaborarne una dottrina geopolitica denominata Pivot to Asia.

Quindi, appare evidente che la difficoltà della Cina nell’applicare i propri piani espansionistici cominciano quando si scontrano con gli interessi degli Stati Uniti, i quali certamente non condividono l’opinione (diffusa soprattutto in Occidente) secondo cui l’Impero Americano sia entrato in una fase irreversibile di declino.

La situazione attuale – ma che con ogni probabilità rimarrà immutata anche nel prossimo futuro – vede ancora una netta preminenza delle capacità militari degli Stati Uniti su quelle cinesi, in particolare per quanto riguarda la disponibilità di testate nucleari. Infatti, secondo una stima del 2018, l’arsenale nucleare americano ammontava a 1.750 testate nucleari operative (a cui vanno sommate altre 4.700 testate in stoccaggio), mentre la Cina, allo stato attuale, possiede appena 280 testate.

Per quanto riguarda il confronto navale, il paragone è impietoso in quanto gli Stati Uniti possono schierare 11 portaerei a propulsione nucleare (10 della classe Nimitz e una della classe Ford), con una media di oltre 100.000 tonnellate di dislocamento; a cui vanno aggiunti 65 cacciatorpediniere Aegis della classe Burke, una ventina di incrociatori classe Ticonderoga nonché le nuove unità classe Zumwalt che hanno un dislocamento di 14.500 tonnellate.

In conclusione, la potenza militare ed economica degli Stati Uniti è ancora schiacciante (nonostante i gravi danni causati dal COVID), tuttavia la loro capacità di intervento (o di risposta rapida) nella regione sta subendo una lenta ma costante erosione, dovuta anche ai programmi d’acquisizione, da parte di Pechino, di sistemi missilistici (aria-superficie e superficie-superficie) supersonici sempre più sofisticati. Il Pentagono se ne rende perfettamente conto e il Corpo dei Marines ha avviato, nel 2020, una rivoluzione militare - per quanto concerne il proprio organico e gli equipaggiamenti in dotazione - al fine di adattarsi meglio ad una possibile guerra ad alta intensità nell’Oceano Pacifico.

Foto: U.S. Navy / Lockeed Martin / web / China MoD / AMTI