Negli anni '80, l'esercito italiano operava in un contesto tecnologico meno avanzato rispetto a oggi, ma compensava con l'ingegno e la dedizione dei suoi soldati, in particolare tra gli effettivi. Nonostante l’Italia fosse spesso etichettata come "il ventre molle" della NATO, i militari italiani dimostrarono ben altro, contribuendo in modo significativo all’efficienza delle nuove piattaforme e dei sistemi d’arma, grazie anche all’approccio innovativo che vedeva i soldati coinvolti nel processo di valutazione delle attrezzature.
In un periodo di relativa pace, la spesa militare in Italia si aggirava intorno al 2-2,5% del PIL, suscitando probabilmente qualche perplessità tra l'opinione pubblica. Tuttavia, la missione Italcon in Libano (1982-1984) comandata dal gen. Franco Angioni, articolata nelle fasi "Libano 1" e "Libano 2", segnò un vero punto di svolta. Quelle operazioni evidenziarono l’organizzazione, l’adattabilità e il coraggio dei soldati italiani, ponendo le basi per un esercito moderno, pronto ad affrontare scenari internazionali e sempre più complessi.
La redazione del Da Bitonto riportò nel gennaio1984, la notizia di due sottufficiali di Bitonto partecipanti all'operazione. Il serg. magg. Antonio Carbone tuttora residente nel Lodigiano e dello scrivente serg. magg. Pasquale Rapio, attualmente residente a Bitonto. In braccio a Carbone vediamo la mascotte del contingente, il palestinese Mustafà Haoui, attualmente tecnico di laboratorio della biobanca del Regina Elena in Roma.
Questa storia è quella del sergente maggiore Pasquale Rapio (foto), oggi in pensione come maresciallo, raccolta dal primo maresciallo Filippo Formica, suo collega di lunga data. Un racconto vissuto in prima persona durante la missione in Libano, che oggi continua a risuonare con forza nell'attualità.
Come sottolinea lo stesso Rapio: "È notizia la tregua tra israeliani e palestinesi, un segnale di speranza per un cammino di pace che porti al reciproco riconoscimento dei due popoli."
Introduzione
Partire per Beirut, in un contesto geopolitico teso e instabile, significava mettersi di fronte a una realtà che avrebbe messo alla prova non solo la forza fisica, ma anche quella morale e psicologica. Non dimentichiamo che il grosso delle fila dell’esercito era composto da soldati di leva non professionisti. Noi, soldati italiani, provenienti da angoli diversi del Paese, avevamo una missione chiara: proteggere e garantire la sicurezza dei più vulnerabili.
L'operazione si inserisce in un contesto geopolitico molto delicato. Tutto ebbe inizio con l’intervento israeliano "Pace in Galilea", volto a neutralizzare le basi dell’OLP di Yasser Arafat, da cui partivano incursioni contro Israele. Per evitare un annientamento totale delle truppe palestinesi, la mediazione americana, supportata dai Paesi arabi, organizzò l’evacuazione dei combattenti palestinesi dal Libano verso altri Stati arabi.
Una forza multinazionale, composta da soldati italiani, americani e francesi, venne incaricata di scortare le truppe palestinesi. L’Italia si trovò così a partecipare alla sua prima operazione internazionale del dopoguerra, denominata “Libano 1”. Tuttavia, il ritiro iniziale del contingente fu seguito da un tragico evento: l’assassinio del presidente libanese Bashir Gemayel. In risposta, le milizie cristiane, con la complicità delle forze israeliane, perpetrarono un massacro nei campi profughi di Sabra e Chatila, uccidendo circa 3.000 civili palestinesi e sciiti.
In seguito a queste atrocità, la comunità internazionale inviò nuovamente le forze italiane, americane e francesi, con l’obiettivo di proteggere i civili e contribuire alla stabilizzazione del Paese. Io e il sergente maggiore Carbone, entrambi assegnati alla Caserma Santa Barbara di Milano, ricevemmo l'ordine di partire per Beirut. Carbone, impiegato come meccanico, fu coinvolto nelle attività logistiche, mentre io, responsabile delle comunicazioni, avevo il compito di assicurare i collegamenti radio e telefonici tra i reparti italiani dislocati a Beirut e la base operativa Italcon, nonché con la sala operativa dello stato maggiore in Italia.
La partenza con Oriana Fallaci
Un episodio che ricordo vividamente avvenne durante il volo sul C-130 da Pisa a Larnaca (Cipro), e poi a Beirut, quando notammo una figura insolita tra i passeggeri: Oriana Fallaci. La giornalista, forte, determinata e spesso divisiva, si stava recando a Beirut per documentare la situazione e incontrare il personale del contingente. La sua presenza e la sua personalità (e preveggenza) non passarono inosservate, lasciando un segno indelebile su tutti noi.
La missione in Libano (ITALCON)
Durante "Libano 2", il compito principale dei soldati italiani fu quello di proteggere i campi profughi palestinesi di Sabra, Chatila e Burj El Barajneh da eventuali incursioni. Nel novembre 1983, dopo l’attentato alle basi americane e francesi che causò la morte di 241 marines e 56 soldati francesi, giunse l’ordine di partire. Carbone e io, effettivi al 3° battaglione trasmissioni Spluga, assegnati a Beirut, ci imbarcammo e arrivammo nella capitale libanese per assolvere al nostro compito.
Ricordo con particolare intensità il gennaio-febbraio del 1984, quando i combattimenti tra le milizie sciite Amal-Hezbollah e l’esercito libanese interruppero le linee telefoniche, lasciando i soldati italiani senza alcun contatto con le loro famiglie. L’opinione pubblica italiana per questo silenzio era molto preoccupata non comprendendo l'assenza di comunicazioni, e il presidente della Repubblica, Sandro Pertini, ordinò il ripristino delle linee telefoniche a tutti i costi.
Un’impresa rischiosa ma necessaria
Nonostante i rischi, con la mia squadra ci mettemmo subito all’opera, sotto il fuoco nemico, per fissare nuovi cavi telefonici.
Fu un'operazione delicata. All’alba del giorno seguente, con una squadra di stenditori, ci mettemmo al lavoro per fissare nuovi cavi telefonici sui pali. Equipaggiati di Fal, elmetto e giubbotto antiproiettile, forniti di scale e con un AR76 che trainava le bobine di cordoncino telefonico, ci apprestammo a salire sui pali della luce e fissare i cavi telefonici campali.
Ogni tanto si sentiva il crepitio delle armi e il sibilo di qualche pallottola. I movimenti erano faticosi e lenti a causa dell'equipaggiamento indossato. Il tempo era tiranno, dovevamo fare presto.
A un certo punto decisi di posare personalmente le linee sia per la maggiore formazione rispetto ai militari di leva, sia perché dovevo portare la squadra fuori e indenne da quella situazione di pericolo. Irresponsabilmente mi tolsi il giubbotto antiproiettile e procedetti più agevolmente e velocemente a fissare i cavi telefonici sui pali. La squadra, galvanizzata, mi supportava egregiamente nei movimenti e, verso mezzogiorno, terminammo l'operazione in centrale.
Tornati alla base, la prima telefonata fu fatta dal capo di stato maggiore alla propria madre. Il sergente maggiore Carbone, in segno di riconoscenza, mi consegnò il vassaio con il pranzo.
Il peso dell’addio
L’operazione si concluse con il ritiro del contingente, deciso dopo l’arrivo del ministro Spadolini a Beirut. Lasciare i campi profughi palestinesi, dove avevamo garantito cure e sicurezza per due anni, fu uno dei momenti più difficili.
Il rammarico di abbandonare quei civili a un destino incerto pesa ancora oggi. Ricordo con affetto e rispetto Filippo Montesi, l’unico caduto italiano della missione, e i 75 feriti.
È importante ricordare anche il contributo del sergente maggiore Paolo Nespoli che durante la missione fu assegnato alla scorta della giornalista Oriana Fallaci: grazie anche alla sua determinazione, realizzerà il sogno di diventare astronauta.
Un pensiero va infine al capitano Salvatore Cantatore che, con la sua diplomazia, evitò che un camion carico di esplosivi facesse strage tra i militari italiani. Un gesto per il quale ricevette tardivo riconoscimento.
Tornato in Italia, fui accolto con onore a Livorno sotto un violento acquazzone, alla presenza del presidente Pertini. I carabinieri, poi, ci scortarono dopo lo sbarco fino al nostro battaglione. Ma a Bitonto, nessuno era presente per accogliermi: quel giorno la città ospitava il Papa.
Ancora oggi, questi ricordi riaffiorano con forza. La missione in Libano, con tutti i suoi sacrifici e le sue avventure, ha rappresentato una lezione di umanità e dedizione che merita di essere tramandata alle nuove generazioni.
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