Guerra e film: tra realismo e finzione

(di Andrea Sapori)
21/02/25

In un precedente articolo ho accennato ad un famoso film di guerra, dove descrivo come "tatticamente ingenua" una scena di combattimento tra soldati tedeschi ed americani (Salvate il soldato Ryan - difesa delle rovine di un villaggio con riferimento alla postazione sul campanile del cecchino USA). Di conseguenza, per punire la presunzione, propongo la mia opinione di cinefilo osservatore di cose militari.

Alcuni film di guerra, molto famosi, come "verosimiglianza tattica" hanno destato più di qualche titubanza ma, data l’ampiezza della relativa filmografia, sarà impossibile una loro vera analisi esaustiva, e di questo chiedo venia in anticipo. Mi concentrerò qui solo sui film "terrestri", che sono a me più congeniali. Vorrei partire da dove reputo siano nate un po’ tutte le sceneggiature, e cioè dai racconti di reduci e veterani.

I film basati su ricordi personali, che in alcuni casi sarebbe meglio definire “personalizzati”, tranne rari esempi, sono spesso sceneggiature della storia, e non la Storia. Combattimenti, battaglie, intere guerre possono subire la forza deformante del tempo, della politica, o di semplici emozioni sedimentate per anni nella mente dei loro protagonisti. Il "fighting tunnel effect" è quella “galleria” nella quale si entra all'inizio dello scontro, in modo passivo o attivo, velocissimo o lentissimo dipenderà dall'indole, dalle singole esperienze di vita, persino da un Credo religioso o da una filosofia (il riferimento a La battaglia di Hacksaw Ridge è assolutamente voluto).

Certo, l'adrenalina fa senz’altro la sua parte, espandendo le capacità dei sensi e "filtrando" emozioni e reazioni: l'addestramento dei soldati serve anche a gestire queste situazioni.

Tornando ora alla verosimiglianza dei film, per esempio si dimentica troppo facilmente che il “tuono” provocato dai colpi di un'arma da fuoco a breve distanza fa letteralmente saltare i timpani, causando anche possibile disorientamento e stordimento. E che dire delle esplosioni, con onde d'urto supersoniche, mentre "per gradire" si viene raggiunti anche dal calore di un razzo rpg, i cui effetti (reali) su chi è prossimo all'esplosione della sua testata non si possono nemmeno immaginare (per non parlare di coloro che stanno dentro il mezzo colpito, che di solito non si trovano neanche più).

Andrebbe poi "tecnicamente" ricordato che sparare un rpg russo da una stanza o un ambiente chiuso, equivale a cremarsi vivi da soli (guardate infatti come sono abbigliati i narcos colombiani, addestrati dai militari cubani, nella scena dell'agguato in strada di Sotto il segno del pericolo - titolo originale "Clear and Present Danger". Questa scena ha fatto scuola vera (intendo nelle accademie militari). 

Insomma uno scenario abbastanza infernale, per quanto complesso da affrontare, sia fisicamente che mentalmente, e forse eccessivo da rappresentare su uno schermo, dato che sarà visto non solo da dei rudi veterani, ma da tutti.

Si possono comunque certamente capire sceneggiatori e sopratutto scenografi, che non possono star lì a far mettere cuffie protettive e passamontagna ignifughi a tutti (i tappi sì, altrimenti i reparti otorino degli ospedali limitrofi ai set andrebbero in tilt ad ogni scena).

Un positivo esempio di realismo è rappresentato dal film Zero Dark Thirty. Nell’assalto alla casa di Abbottabad si possono notare tutti gli operatori dei Seal che indossano cuffie di protezione a controllo elettronico connesse in radio frequenza, e questo nonostante le loro armi portatili fossero tutte silenziate. Nella scena infatti si assiste anche all'uso di esplosivi per l’abbattimento di porte. Bisogna anche dire che gli M4 silenziati non escludono la pericolosa sovrappressione causata da un colpo sparato in vicinanza del padiglione auricolare di un collega o di un ostaggio. Quindi, mi permetto di segnalare l'elevata “genuinità” della relativa scena di questo film.

Ci sarebbe tanto da scrivere sull'assurda moda di sparare centinaia e centinaia di proiettili con tutte le armi portatili possibili. Chiunque abbia mai sparato con un’arma da fuoco sa quanto si arroventano le canne di pistole e carabine dopo solo qualche colpo, figuriamoci a raffica. Pur capendo le esigenze sceniche, sorrido al solo pensiero del loro riposizionamento nei calzoni, dopo aver appena sparato interi caricatori in tre secondi. Senza dimenticare la loro "incredibile" inesauribilità.

Utilizzo ancora la professionalità di Kathryn Bigelow nell’ottimo The Hurt Locker, dove segnalo positivamente la scena dello scontro nel deserto tra un Dragunov 7.62x54R insorgente contro un Barrett .50 del team di artificieri.

Lasciando sicuramente basito qualcuno, non reputo invece American Sniper molto attendibile, specie nella scena del “duello” tra Kyle e il cecchino siriano: troppe, a mio avviso, le incongruenze tecniche. Pare dai resoconti che la distanza di ingaggio sia stata di oltre 1900 metri: con un Dragunov??? A cui risponde il "nostro" con un colpo solo di .300 Winchester Magnum??? Con ottica reticolo mildot (con tacche da 100 metri/yard)??? Seee vabbè...

E che dire anche del poveraccio che sale sul muro, sacrificato per identificare il siriano? Se fosse vero, mi metto nei panni dei parenti del tizio. E del loro avvocato... Un’altra inverosimiglianza che il cinema di guerra non considera in modo realistico riguarda la gerarchia e la disciplina. Quella vera! O si esagera in un senso, con assurde brutalità, o si va nell’altro, e si tende (troppo) ad esaltare amicizie e cameratismo. Non funziona così in combattimento.

Nel “making off” del film Green Zone, che è disponibile, lo staff sergeant dello U.S. Army che fungeva da consulente tecnico, “usato” nel film anche come attore, per interpretare proprio uno staff sergeant... spiega molto chiaramente una cosa semplicissima, e non proprio coadiuvante per il realismo del film.

Non esiste assolutamente che un ufficiale chieda, davanti a tutti tra l’altro, un'opinione tattica durante un’operazione: al limite, ma proprio al limite, lo fa prima.

Questo modo di agire (forse) va bene tra i civili, ma qui innescherebbe una mina nella mente dei soldati nei riguardi della fiducia nel comandante. Inoltre, che un ufficiale dica alla sua sezione operativa “siete liberi di venire o no”, è una cosa al di là dell’universo concepibile per dei soldati addestrati.

O si va o non si va, e basta! Non è una "democrazia".

Gli sceneggiatori, e temo pure Matt Damon, in questo caso non avevano la minima idea di cosa sia un reparto militare attivo in zona operazioni: è un f.....o rullo compressore. E non gli chiedi un parere: o lo usi o non lo usi!

Per quanto riguarda "capire" gerarchia e disciplina militari suggerisco la scena di U-571: il discorsetto tenuto dal capo al secondo, divenuto comandante. Istruttivo.

Non vorrei poi che si confondesse il realismo di certe immagini di ferite e amputazioni, con l’attendibilità del film in sé. Sarebbe alquanto superficiale.

Oggi comunque i "maestri d’arme" sono veri professionisti. Tolto il col. Ambrose per la scena dello sbarco di Salvate il soldato Ryan, fuori categoria (partecipò allo sbarco reale!), alcune famose scene di guerra o di conflitti a fuoco hanno visto la consulenza di ex appartenenti alle forze speciali (McNab su tutti, per la famosa scena della sparatoria in strada, tatticamente validissima, di Heat di Michael Mann). 

Suggerisco comunque di fare la tara alle sparatorie con centinaia di proiettili di fucile d’assalto che vagano in giro senza problemi. Al riguardo, un tragico esempio è Hamburger Hill, collina 937, una storia vera, per quanto riguarda la scena del "fuoco amico" durante l'assalto dei parà della 101a al bunker sulla collina, circostanza che capita molto più frequente di quanto non si immagini. Doveroso averla rappresentata, almeno in memoria di quelli rimasti su quella collina.

Specularmente, non mi è piaciuto Platoon. Certo, in Vietnam la droga tra le truppe USA era un problema. Ma Oliver Stone qui l’ha messa giù come in un romanzo in cui il bene e il male (i sergenti Barnes ed Elias) hanno combattuto per il possesso dell'anima del protagonista (Stone, reduce pluridecorato del Vietnam, ha sempre lasciato intendere che fosse lui "quel ragazzo"), che poi è un po' l'anima dell'America "buona". Suggerisco al buonissimo Oliver Stone di abbassare drasticamente la quota di volo, e anche se così fosse, penso che quel ragazzo abbia avuto semplicemente troppo tempo per farsi gli affari suoi e, in zona operazioni, questo non è previsto che accada. Ed è questo che, alla fine, ha fregato un po’ tutti in quella guerra, di quel plotone chiamato chiamato America.

A chi venissero in mente gli schiaffi di Patton, generale d'acciaio, sappia che ci ha preso. Comunque, la scena più realistica di Platoon è quella in cui un inesperto (e abbastanza stupido) tenente chiede l'appoggio dell'artiglieria in modo sbagliato, facendo colpire i suoi uomini in avanzata nella giungla. Assolutamente realistica nell'errore, un classico direi, ma irrealistica nell'epilogo. Un sottufficiale (Barnes) che arriva e prende a schiaffi un tenente, nonostante ne abbia tutte le ragioni, visti i risultati sul campo ottenuti dall'ufficiale, va dritto sotto processo "senza neanche passare dal via". Chiuso e finito il discorso.

Scriverò qui un’altra "eresia “cinematografica": non ritengo realistiche quasi tutte le scene di combattimento di Full Metal Jacket. Mi spiace, l’ho scritto... (Stanley perdonami!). La fanteria sta dietro ai carri armati, se ci sono, e non di fianco. Non si avanza allo scoperto, tu, verso postazioni nemiche coperte, anche presunte, le loro. Mai. Non si fa e basta.

Ti imbuchi, aspetti, e retrocedi appena fa buio, che il nemico lì ci sia o no. Non fai ammazzare un plotone da una ragazzina con un AK-47 e due bombe a mano, qualsiasi cosa dica chi non è sul posto, ma che ti ordina di avanzare via radio, così, perché i marines avanzano sempre, per tradizione. Mi si è smontata un po’ tutta la seconda parte del film.

Speciale menzione però va alla prima parte, realistica (almeno spero) soprattutto quando Palla di Lardo spara ad Hartmann, meritatissimamente. Ma soprattutto, adoro la marcia dei marines nel finale, che cantano l'inno di Topolino al posto delle loro cadenze.

Se vogliamo parlare ancora di analisi psicologica U.S. Marines Corps, allora va segnalato Jarhead, film tratto dal libro basato sulla personale esperienza di Anthony Swofford. A mio avviso andrebbe fatto leggere nelle scuole, magari contestualmente alla visione di Nella Valle di Elah, un devastante pugno nello stomaco che spiega cosa può accadere al cervello di un giovane soldato in guerra.

Per adesso, mi fermo qui. Buona visione!

Fotogrammi: Youtube